Michele Valotti ha fatto della sua trattoria un centro di sperimentazione e ha stilato un manifesto molto chiaro e esplicativo della sua cucina; antisignano vero e sincero del concetto a 360 gradi della sostenibilità, nonché precursore di studi approfonditi sulle tecniche di fermentazione in cucina, si ritiene un artigiano imperfetto perché rifugge la standardizzazione ma “si pone come componente vitale della trasformazione, in maniera autentica, mettendo se stesso nel processo creativo“.
La sua mente è in continuo fermento ed elabora, con altissima frequenza, nuovi percorsi degustativi che sono assolutamente fuori dall’ordinario, probabilmente imperfetti nell’accezione generale, volti a nobilitare le componenti dell’amaro e dell’acido. Così facendo ribalta il concetto di equilibrio confortevole della rotondità del gusto, affermando che alla fine forse il piatto è squilibrato quando, al contrario, è carente di spigoli. I suoi piatti sono così autentiche opere di artigianato, frutto di una tecnica sopraffina alla ricerca di un gusto complesso e completo, per questo non lasciano mai indifferenti.
Nel suo manifesto ci racconta che “nella ricerca del non standardizzato ci siamo inoltrati da anni tra le fronde del selvatico, dove l’antropomorfizzazione delle varietà è pressoché irrilevante, dove le cose sono se stesse, non edulcorate, in una parola… selvagge“. E allora si può scegliere fra due percorsi che differiscono solo dal numero di portate e quello più lungo, che ne conta dieci, è quello dove si trovano gli episodi decisamente più arditi.
Come Ai ai ai, una testa di aglione cotta con zucchero di canna e burro affumicato, condita con lemon koji (una sorta di miso di limone) e con foglioline di abrotano, da mangiare con le pinzette: un piatto non proprio per tutti, che in realtà abbiamo davvero apprezzato per complessità e contrasti. Il percorso parte poi con un trittico di vegetali, materia prima di predilezione, fra i quali questa volta ha svettato il Tarassaco appassito in forno e condito con una shoyu di fagioli Copafam della Valcamonica, salsa di kimchi e crema di ceci e ginepro: un gioco perfetto di sponda fra le componenti di amaro, piccante e umami. Si entra nel bosco e ci si perde, in ogni forchettata, con il Risotto di bosco con un mix di funghi da raccolta locale (pinaroli, laricini, verdoni, porcini, vescie, mazze di tamburo e altri), infiorescenza di pigne fermentate, amenti di larice conservati, germogli di abete rosso fermentati, pleurotus fermentati, polvere di pigna di mugolio macerata 10 anni, polvere di polipodium. Si spinge davvero forte con l’acidità negli Spaghettoni saltati con un garum di siero di kefir, burro acido alle mandorle amare e mandorle tostate.
Perfetto nella sua natura “raw” e nella sua essenza il Cervo da cacciagione marinato nello shiokoji, cotto alla brace e laccato con una salsa a base di Braulio, servito con un aceto di Surlo. Unico piatto che non ci ha proprio convinti è il Coregone disidratato in salamoia e reidratato in grasso di pecora (per cambiargli struttura) condito con una salsa di burro e acqua di koji lattofermentato: al netto dell’interessante texture del pesce e del sapore (che sembra affumicato ma non lo è) abbiamo trovato un po’ destabilizzante la salsa, soprattutto perché fredda.
Quello che è certo, comunque, è che ogni passaggio del percorso di Valotti si potrà trovare qualcosa che riteniamo “imperfetto” ma non si può non riconoscere la grandezza e la genialità di questo formidabile artigiano della cucina contemporanea. Una tappa assolutamente imprescindibile per i veri gourmet e non solo, tanto che il locale è, non a caso, sempre pieno.
IL PIATTO MIGLIORE: Cervo da cacciagione marinato nello shiokoji, cotto alla brace e laccato con una salsa a base di Braulio e servito con un aceto di Surlo.
A pochi minuti da Brescia, dopo una bella serie di tornanti a gomito, si arriva a Brione, e quindi al parcheggio sterrato situato di fronte al pergolato della trattoria sita all’inizio del paese. Basta volgere il capo a destra per ammirare il panorama che si estende sul Franciacorta. Varcata la soglia de La Madia si entra nella “tana del Bianconiglio”: grossi vasi di vetro sulla sinistra colmi di fermentati, licheni, essiccazioni, manca solo la scritta eat me o drink me come nella favola di Lewis Carrol, per sentirsi come Alice. L’interno è una commistione di antico e moderno, il legno e i colori caldi, tavoli lucidi, variopinti e senza tovaglia. Le pareti sono cariche di storia, foto, attrezzi, scritte, immagini, riempiono l’ambiente senza soffocare. Per scelta dello Chef il menù alla carta de La Madia è sparito, lasciando spazio a due proposte, una da 7 portate (45€) e l’altra da 10 (55€), rapporto qualità prezzo fantastico. La carta dei vini è moderna e varia, con un’ampia scelta di vini naturali, biologici e biodinamici. Un foglietto a parte presenta gli aperitivi, 8 cocktail inusuali con kombucha, sürlo (bitter naturale), verbena, tra i tanti abbinamenti.
La cucina di Michele Valotti, qui, è fortemente identitaria. L’utilizzo dei fermentati, le tecniche utilizzate, la materia prima, sono il linguaggio della sua voglia di fare “a modo suo”. La partenza è una dichiarazione d’intenti, Rapanello fermentato e Pastrami d’agnello con salsa bbq, aprono le danze e le porte della percezione. Un misto di acido e amaro che picchia e si dissolve spiazzando, per poi virare verso l’affumicatura dell’agnello e la salsa in accompagnamento. Prosegue il servizio con gli antipasti. Il Fico brutalista è un esercizio di stile, olio dalle foglie, pelli essiccate e polverizzate, gelato col frutto e frutti acerbi fermentati. Acidità e dolcezza a braccetto. Cavolo cappuccio, tartufo, è un gioco di consistenze piacevoli, mentre kombucha alla fragola in marinatura e tartufo creano un piacevole contrasto. Fagioli e melone ti stende con un uppercut: il piacevole “fastidio” di un piatto della memoria, come una pasta e fagioli che si evolve in bocca grazie all’acidità del melone e la grassezza dell’olio al prezzemolo. Lisergico. Il Risotto ai funghi e rape è mantecato con un burro affumicato alla pigna, e cosparso di garum essiccato di funghi polverizzato al posto della spolverata di parmigiano, umami e profumo intenso e gradevole: il palato, che sta facendo i salti mortali, non è aggredito.
All’aggressione ci penseranno i Cappelletti al pomodoro verde e gli Gnocchi di ricotta e radici che, come i fagioli di cui sopra, richiamano alla mente un primo domenicale della nonna, peccato che la nonna sia Norman Bates col coltellaccio. Il primo servito con brodo di giuggiole è difficile, graffiante, il sollievo arriva nell’abbinata con un infuso di menta che è caldo ma rinfresca e rimette in gioco le papille e le porta allo gnocco alle radici. Inizio tannico astringente, poi l’amarezza del tarassaco, gli isotocianati del rafano, competono con la dolce grassezza dello gnocco che cerca di riportarti a terra. Major Tom to ground control. I secondi sono tre: Pecora in brodo e corniole, cervo all’uva e ganasìt di maiale e tè rosso. La pecora è sorprendente, la carne tenerissima e il corniolo si sposa benissimo. Piatto iconico. La cottura del cervo e l’uva acerba fermentata è molto più a fuoco della salsa che li accompagna, e la guancia di maiale è ben fatta e piacevole ma a questo punto della cena lo stomaco è davvero pieno, le porzioni sono per tutti i passaggi molto generose. Pre-dessert e dessert: Sorbetto al limone e shiso e cialde di cannolo con gelato alla ricotta e polvere di ghianda. Dolce brezza fresca che fa il suo dovere senza spettinare.
Il servizio è informale e puntualmente pronto alla spiegazione dei piatti, e delle tecniche utilizzate. Ottime soluzioni alternative al vino in accompagnamento, fanno salire ulteriormente il piacere della cena.
A fine pasto viene data una busta contenente il manifesto ideologico della trattoria La Madia ed è con l’ultima frase che lo Chef scrive che concludiamo la nostra recensione: “Un piatto non si giudica solo dalla sua bontà, ma anche dalla storia che ci racconta, facciamo sì che questa storia sia fatta di emozioni e non di standard, che sia fatta di diversità, inevitabile come il mutare del tempo, che sia una storia rispettosa, della natura e del nostro essere uomini.”
Bisogna affrontare un po’ di tornanti per arrivare a questa trattoria, che potremmo definire “5.0”. Qui la storia gastronomica del territorio è stata ampiamente studiata e radicata e, come recita il manifesto che viene consegnato alla fine del percorso, si ricerca il “non standardizzato”, ci si inoltra tra “le fronde del selvatico, dove le cose sono sé stesse, non edulcorate, in una parola… selvagge”. Michele Valotti si considera un artigiano, un artigiano che ha passato tanto tempo a studiare le ricette e a scovare la materia prima di eccellenza dei piccoli produttori delle valli.
La sua è una cucina di ricerca e di sperimentazione: da anni lavora sulle tecniche di fermentazione su vegetali e frutta e nella produzione di koji, miso, garum. Rispetto al passato, dove, oltre alla carta, proponeva un menù che era “ardito” sia di nome che di fatto, molto estremo sulle acidità e sull’amaro, ora ha tolto la carta e propone solo un menù degustazione, che si può declinare in sette o dieci portate a 38 e 45 euro. Un percorso che ha voluto rendere il più inclusivo possibile, sia per il prezzo, sia per l’offerta gastronomica, ora fortemente concentrata sulla golosità, ma sempre con un alto tasso di originalità.
Da artigiano quale lui si considera, sostiene che “l’imperfezione è il prezzo che l’artigianalità paga all’eccellenza” e la sua proposta esce dagli standard con menù che cambiano più o meno in tanti piatti ogni due settimane: non ci sono tante prove e ci possono, a detta sua, essere piatti anche non proprio equilibrati. Noi possiamo solo dire che il percorso è stato assolutamente sorprendente, con una partenza davvero strabiliante.
Tre piatti vegetali in sequenza, che potremmo definire “VVV”, ovvero Verticalizzazioni Vegetali Vertiginose, a partire da “Verza, verza, verza“. Verza cotta nel grasso di pollo, emulsione, shiro koji e shiro miso sempre di verza con whisky torbato e burro affumicato, cavolo cappuccio fermentato per un piatto davvero emozionante per la complessità, originalità e intensità di gusto. Non da meno il porro in varie declinazioni (alla brace, in polvere, fritto), con una salsa deliziosa, con note di caramello, ricavata sempre dagli scarti del porro “nero” frutto di una cottura, per due mesi, a 60 gradi. Infine il finocchio marinato in miso di castagne e fave con salsa di garum di pane, polypodium, incenso e finocchietto. L’intensità ed il livello raggiunti da questi tre piatti è difficile da mantenere durante tutto il percorso, ma ogni portata ha comunque un “quid” di originalità.
Gustosissimo lo spaghetto con Mascherpa, cachi conservati e polvere di ruta, notevole ed emblematico del concetto “less is more” è la “pecora bollita“, che in realtà è conservata per tre giorni in koji di castagne e passata poi, prima di servirla, in un brodo di fieno, bacche di ginepro e cannella, servita in purezza con una radice di radicchiella, una pigna e una composta di corniolo e pesca. Originale anche la parte dolce, con un gelato di mela “nera” (stesso procedimento descritto per il porro) e un gelato di zucca e gin, frangipane, olio al levistico e amazache di zucca, per finire in bellezza con un gioco riuscito di note dolci, amare, acide.
Che dire! Una cucina viva, pura, varia, diversa, insolita, ma molto accogliente e golosa, che rende viva l’esperienza e rende vivo e felice l’avventore. Ce ne dovrebbero essere di più, di artigiani del cibo, come Michele Valotti!
“Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato” è la chiosa di un celeberrimo romanzo che allude alla sempiterna condizione dell’uomo di opporsi al tempo che passa e, allo stesso tempo, di non arrendersi alla regressione indotta, e ingenerata, dal tempo stesso. Ciascuno ci prova come può. Pino Cuttaia lo fa elaborando precise salienze gusto-olfattive volte a far riaffiorare un’età cristallizzata e sospesa, onirica: quella dell’infanzia, appunto, popolata di sapori e odori che l’infanzia stessa generava, e in cui il piatto stesso si condiva delle fantasticherie e delle paure del bambino.
È per questo motivo che continuiamo a tornare a La Madia: perché andarci significa vivere una rievocazione efficacissima di una memoria domestica, “orale” perché alla fase orale associata e, come tale, più universale di quanto non si creda. Come tale, la sua cucina fa e sa fare leva su un concetto di “buono” appreso con l’alfabeto, che poi è il fondamento su cui si issa il palato della contemporaneità, almeno in Italia. Una cucina che suscita, tuttavia, dei quesiti: come può esser letta e interpretata, questa cucina, da un palato non-italiano che non condivide, dunque, la nostra memoria, il nostro palato storico? E ancora, come può evolvere una cucina che non fa che reiterare le sue esecuzioni? Come può cambiare uno stile che non fa che rievocare il passato al fine di renderlo sempre più vivo, sempre più potente, in una parola, sempre più presente?
Ebbene, al netto di questi interrogativi, si tratta di una cucina esaltante non solo quando rievoca la fettina – qui di tonno Alalunga – col toccante lascito del seme del limone, estensione essa stessa del ricordo della mamma – ma anche di un ricordo più critico, forse più adolescenziale, come nel caso del Cocktail anni ’80 che è la ricostruzione filologica, e dunque didattica, del piatto in questione prima dello sdoganamento popolare, quando ancora era costituito dalla capasanta e del suo prezioso corallo emulsionato.
Una cucina che riproduce sensazionalmente i sapori che vuole e le esperienze che vive. Ne sono un esempio l’eccezionale scala dei turchi, dove il riccio incapsulato nella pellicola di calamaro e ricoperto di una schiuma densa di mare è tale che davvero sembra di averlo bevuto, il mare, durante un tuffo troppo zelante, così come anche la parmigiana del giorno dopo, con l’eccezionale caramellizzazione del pomodoro attorno alla pelle della melanzana, concentratissima, che tanto ricorda quelle estati passate quando sotto l’ombrellone comparivano tutti i manicaretti della domenica italiana.
E poi il monumentale spaghetto al pomodoro, posto che uno spaghetto al pomodoro possa davvero essere monumentale: semplicemente, una vertigine in cui si collocano i migliori pomodori mai assaggiati e quel rincorrersi di dolcezze e acidità, pungenze e morbidezze tali da sciogliere qualunque perplessità, qualunque tensione.
Meno incisivi i dolci, la cui leva può forse costituire una prolifica strada di sviluppo di questo indefesso lavoro di presentificazione e rievocazione dell’infanzia che è, ad oggi, sia il limite che la grandezza di questo sensibilissimo chef licatese.
La Madia di Brione è una notissima trattoria, tra le migliori d’Italia, dell’alto-bresciano. Da molti lustri è il buon ritiro di appassionati che possono trovare qui prodotti d’eccellenza delle valli dei dintorni, cucinate con sapiente cura e mestiere. Michele Vallotti, lo chef proprietario, non si è però adagiato sul comodo tappeto della tradizione.
Poteva farlo, tanto più di questi tempi. E invece, folgorato sulla via del Noma ma, ancora di più, dalla straordinaria forager Valeria Margherita Mosca, di cui è allievo, ha intrapreso un percorso che, affiancando ai prodotti della straordinaria e maniacale selezione di cui dispone, continua a studiare e sperimentare nel campo delle fermentazioni e delle conserve.
Un menù, il più importante, denominato non a caso “Ardito”, che spazia in lungo e in largo esplorando tutta la sua filosofia e i suoi studi.
Qui avrete infatti occasione di degustare materie prime uniche, di piacevolezza e qualità rare, a prezzi da encomio: pensate che il menù Ardito, di una quindicina abbondante di portate circa, impegna solo 45 euro! Ma, sopratutto, a incantare è il percorso scelto, la strada intrapresa, che vi porterà attraverso le varie sfumature dell’acido donate da miso di varie specie e natura, e da fermentazioni che sono, appunto, ardite, cui è impossibile restare indifferenti.
Certamente, in siffatto menù non tutto è a punto, non tutto è calibrato. Forse anche l’estensione, eccessiva, del numero di portate può portare l’avventore a stancarsi più che a essere, effettivamente, stimolato. La riduzione, anche della metà, sui piatti più centrati, sarebbe opportuna. Ma l’ardore e la passione di Vallotti non si possono domare, né contenere. E così vengono affiancate portate come i crauti e il violino, la pancia di maiale, il brodo primordiale, il melone invernale e le carni, a fare da contraltare a piatti come la ciliegia fermentata in cui il cumulo di ingredienti non trova una quadratura e lascia un che di slegato e scisso, di incompiuto. Così parimenti il riso, la pasta e la cipolla. Troppe reiterazioni tra fermentati, miso e affumicati che, alla lunga, stancano il palato.
Un percorso didattico, molto più interessante come vetrina di studio ma che deve trovare la sua quadra nelle proporzioni e nell’impianto numerico.
Sospendiamo pertanto il giudizio, per ora, ma vi invitiamo calorosamente ad andare a visitare questo luogo, a conoscere il suo talentuoso cuoco. Non ve ne pentirete!