La Via del Sale passa (per una sera) a Zurigo

Il dialogo gastronomico servito all’Orsini

A Zurigo, ogni prospettiva sembra convergere verso la Grossmünster, chiesa monumentale che domina la città con la compostezza delle sue due torri identiche. Simmetria e misura, verticalità e rigore. È da questa immagine che prende forma, quasi naturalmente, il racconto della cena a quattro mani ospitata all’Orsini, ristorante del Mandarin Oriental Savoy Hotel affacciato su Paradeplatz. Qui, Matteo Rossatto e Dario Moresco hanno messo in scena un dialogo gastronomico costruito sull’equilibrio: due percorsi diversi, due traiettorie che si incontrano per una serata nella città elvetica. Rossatto, piemontese di origine, cresciuto sotto il segno di Blanc negli ultimi anni, ma ancor prima formatosi tra le brigate di Carlo Cracco e Alain Ducasse, porta con sé il peso specifico della classicità e della salsa come linguaggio. Moresco, ligure, allievo di Antonio Guida e Silvio Salmoiraghi, appartiene a una scuola più istintiva, tattile, fatta di acidità sottili e contrappunti. Insieme, questi due cuochi hanno trovato un punto d’incontro lungo la loro personale Via del Sale, un asse immaginario che unisce Liguria e Piemonte e attraversa le loro esperienze di vita tra Francia e Svizzera.

Una serata a quattro mani

Il percorso si apre con il Gambero viola in aceto di fiori di sambuco, ostriche e caviale: una gelificazione del carpione che gioca sulla multidimensionalità degli elementi a segnare questa apertura. L’acidità modulata, il piccante calibrato e i punti sapidi alternati creano un effetto policromo, vicino al linguaggio degli anni di Moresco spesi con Salmoiraghi, ma già indice di un’intesa gastronomica compiuta. Segue la Tartare di fassona, un piatto materico nella sua descrizione, ma qui in grado di aprirsi a parentesi transalpine. Il taglio magro scelto, il filetto maturato 30 giorni, si intreccia con la punta ittico-sapida della sarda marinata, innalzando il punto di salinità, mentre il beurre blanc inaspettato colma il vuoto della canonica parte grassa, rendendolo coerente in bocca ai dettami tradizionali. A lato, i peperoni arrostiti e la salsa tonnata chiudono in stile langarolo, enfatizzando una farcia più eterea da mousseline che da ripieno classico. L’insieme restituisce profondità e ritmo, restituendo un trittico iniziale di precisa coerenza gustativa.

Tajarin e finanziera: uno dei due piatti memorabili della serata. Tajarin all’ortica, con consommé di porcini, lievito essiccato e finanziera piemontese. Qui la mano tecnica dei due cuochi è evidente: ragionando sia sulla versione del brodo sia con l’ausilio del lievito essiccato in finitura, si potenzia la nota fungina. La finanziera – calibrata in acidità– agisce come eco sapido, radicando il piatto nella sensibilità tecnica di Rossatto e Moresco. Di fatto è proprio il riso abbinato alla frattaglia, qui in veste soffiata rispetto alla versione bollita a dare nuovo impulso, reinventando il morso di questo monolite culinario piemontèis. È un piatto che parla in dialetto stretto per esecuzione, ma perfettamente intellegibile ad un clientela internazionale come in questo caso. I Plin di guancia al Barolo si muovono su registri più classici costruiti sul burro nocciola e una salsa di cipolla arrosto resa complessa dal tartufo bianco, usato per sorreggere tutto il piatto. La cipolla, senza l’ausilio del pregiato tubero, avrebbe preso il sopravvento. La Faraona cotta sulla carcassa, salsa foie gras e champagne rappresenta il momento clou per Rossatto, ma anche un doveroso tributo. La cottura è precisa, regalando umettatura delle carni al calibro. Richiamo aperto a Georges Blanc, ma filtrato attraverso la scuola italiana di questi cuochi, dove la salsa è misura e non sovrastruttura. Il fondo allo champagne, profondo e brillante, incarna l’idea di grande cucina francese traslata con sensibilità moderna, che in diverse occasioni Rossatto ha dimostrato di saper orchestrare. Diversa, la tourte di faraona con carote fermentate e insalata di lamponi. Matrice regionale per l’insalata abbinata al capitolo francese dei pâté en croûte fatto con la coscia del volatile. L’escamotage fermentativo con la carota aggiunge vivacità, mentre la nota fruttata del lampone spezza la linea marcatamente opulenta del piatto, che comunque anelerebbe ad un’ulteriore acidità di bilanciamento.

Se la Grossmünster rappresenta l’equilibrio tra simmetria e verticalità, questa cena ne riproduce lo spirito gastronomico. Due cuochi formati da scuole diverse – Rossatto tra il rigore francese e la precisione lombarda, Moresco tra la libertà ligure e la sensibilità acida di Guida – si sono incontrati su un terreno comune: quello del gusto ponderato. All’Orsini, in una Zurigo che concede spazio all’azzardo solo quando è sostenuto dalla tecnica, hanno dato vita a un dialogo armonico, fatto di rimandi e continuità, di sponde e riflessi. Una Via del Sale percorsa insieme, senza deviazioni superflue, dove ogni piatto, più che firmato, è condiviso. Una neutralità tipicamente elvetica qui solo geografica, dove invece i due Moresco e Rossatto non si sono risparmiati nel duettare.

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