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La Sardegna di Audarya

I vitigni autoctoni del cagliaritano

Nell’entroterra cagliaritano, più precisamente a Serdiana, a circa una ventina di chilometri dal capoluogo sardo e dal mare che guarda verso le coste africane, si trova l’azienda vitivinicola Audarya. Un luogo dove il panorama, puntellato dalle viti allevate secondo il tradizionale alberello sardo, si estende lungo i numerosi ettari di proprietà dell’azienda, dieci dei quali dislocati attorno a essa e altri ventisette suddivisi tra le tenute di Acquasassa, Su Stani, e Is Crabilis. I vitigni coltivati sono quelli autoctoni sardi, alcuni dei quali sono davvero poco noti alle cronache all’infuori del territorio di origine; piante che in media hanno messo radici in questa terra da oltre vent’anni e che oggi sono curate amorevolmente dalla terza generazione della famiglia Pala, i fratelli Salvatore e Nicoletta.

L’intento è quello di tramandare l’allevamento di queste rare uve locali, di far conoscere il territorio attraverso le stesse. Le manipolazioni sono ridotte all’osso, in cantina ci si serve principalmente di affinamenti in cemento prima e in bottiglia poi, limitando l’uso del legno alla produzione di poche etichette. Il risultato sono vini che riflettono limpidamente il terroir nel quale si inseriscono: i suoli dominati da calcare e argilla, il clima mediterraneo soleggiato e dalle scarse precipitazioni, le amorevoli cure trasfuse nel calice. Vini dunque generalmente concentrati, voluminosi, di grande piacevolezza, che saranno amati incondizionatamente da quanti ricercano strutture e rotondità, ma che non per questo perdono di finezza gusto-olfattiva.

La degustazione

Nuragus di Cagliari Doc

Ottenuto da uve Nuragus 100%, al naso rivela con grande finezza, risultando dominato dalla presenza dei fiori bianchi e della frutta esotica, con richiami dolci e pungenti che rimandano a note vegetali. Il colore è tenue, ma al palato si esprime con carattere, trovando un bel punto di equilibrio tra le rotondità e la predominante freschezza. Un vino facile, di grande piacevolezza e dalla innata vocazione gastronomica.

Bessìu 2020, Nasco di Cagliari Doc

Un altro vitigno autoctono in purezza, il Nasco, che qui affina a lungo in acciaio prima di raggiungere la bottiglia. Al naso sfilano sentori floreali e di macchia mediterranea, rosmarino e mirto su tutti. Sul palato si muove snello nonostante il corpo robusto, rivelando una buona freschezza e un’accennata sapidità.

Camminera 2019, Vermentino di Sardegna Doc

Ci ha davvero convinto e appagato questo Vermentino, che nel calice si presenta di un intenso colore giallo paglierino impreziosito da caldi riflessi dorati. Al naso sprigiona aromi di fiori, agrumi e pesche bianche, al palato è sapido e avvolgente, di grande struttura e persistenza.

Nuracada 2020, Bovale Isola dei Nuraghi Igt

Infine, il rosso ottenuto dal vitigno autoctono Bovale, affinato per 12 mesi in botti di rovere. Un vino che al naso si esprime con eleganza, rivelando fiori, frutta e accenni di macchia mediterranea. Estremamente concentrato in bocca, tannico e dalle morbidezze accentuate.

*I vini dell’azienda Audarya sono distribuiti da Partesa.

Il rapsodo dell’isola

Un solitario aedo. Un bardo di una tradizione millenaria che affonda il suo stesso esistere nel mistero. Un poeta che canta quello che l’archeologo Giovanni Lilliu definì «l’enigma dell’isola delle torri». Un Omero talattico che, nell’avviluppo delle tante domande insolute, compita quell’eterna lotta fra l’uomo e la natura, fra il mare e la terra, fra i mostri e la ragione che da sempre e per sempre scandisce la storia su questo pianeta.

Così è Luigi Pomata, novello Gigante di Mont’e Prama. Un indagatore, seppur solo attraverso erbe e frutta selvatiche, verdure e formaggi, degli eventi della sua terra: la Sardegna. Un ricercatore di quel patrimonio culturale che affonda negli arcani senza risposta della civiltà nuragica e della dea ‘grande madre terra’. Uno studioso delle vicende che hanno visto contrapporsi l’antico pescatore che solcava le acque isolane alla eterna meraviglia pelagica: il tonno rosso. Cucina – quindi – quella di Luigi Pomata. Ma storia, innanzi tutto. Un insieme di domande e di suggestioni che costruiscono un viaggio, tanto stimolante quanto pieno di gusto, alla ricerca dell’essenza dell’isola.

Sedersi a uno dei suoi tavoli, nel pieno di centro di Cagliari, a poche decine di metri dalla Marina Vecchia, nel suo locale dai toni giovani e spigliati, che nella bella stagione si apre su un bel dehors, rimane quindi un’esperienza che – come poche – permette di registrare mente e palato sulle cadenze, gli accenti, le pause, le sottolineature della secolare cultura sarda. E non potrebbe essere altrimenti, considerato che la famiglia Pomata ha, da ben tre generazioni, la ristorazione nel sangue. E che, dalla ‘loro’ Carloforte, hanno visto e partecipato alla storia di quelle tonnare che, sin dal 1587, hanno reso celebre questo scampolo di Sardegna: un territorio che già dalle epoche nuragica e punica era frequentato per la pescosità dei suoi fondali.

Intrecciando storie di mare e storie di terra, la cucina di Pomata imbastisce un crescendo orchestrale che attorno al grande solista, il tonno rosso, sviluppa, fra continue riprese e fughe in avanti, fra suggestioni foreste e intimi localismi, fra tecnica e manualità, una sinfonia che lumeggia le caratteristiche dei singoli ingredienti con le loro peculiarità. Così – per esempio – sin dall’inizio, ergendosi in tutta la sua possanza, il tonno rosso di Carloforte è sì presente in tavola negli articolati amuse-bouche, con il pesto di mare, datterino e cuore di tonno rosso e con la polpetta di quinto quarto di tonno rosso e wasabi. Ma non sono dimenticate le materie prime provenienti dall’interno dell’isola, come la ricotta, le erbe aromatiche, il Vermentino, che concorrono nella creazione di gustosi tacos.

Il grande solista

Di tante domande senza risposta, si scriveva in apertura: quelle che costellano la storia dell’epoche prepuniche, con la loro statuaria carica di enigmi. Domande che ancora riecheggiano per le scoscese altezze del Gennargentu e le piane assolate del Campidano, che si rincorrono nelle pagine di Grazia Deledda, che si insinuano negli anfratti rocciosi delle coste e in quegli scoscesi borghi dell’interno ove vivono i ‘centenari’. E che riaffiorano, come moti carsici, pure fra le strade e i palazzi del caotico capoluogo, ora, nel XXI secolo. Come se un lascito incomprensibile, un’eredità, abbia attraversato il tempo, persistendo nella memoria collettiva.

Quella memoria nella quale Luigi Pomata ‘scava’, scomponendola in singoli pezzi. E quindi riempiendola di gusto ‘nuovo’, come nel caso dell’attualizzazione di uno dei piatti bandiera della Sardegna: la fregola. Così, ai tavoli di Viale Regina Margherita 18, la fregola viene tirata all’onda, come un risotto meneghino, con un brodo di molluschi grigliati (che contribuisce a dare una centrata punta d’amaro), e quindi completata con bottarga, olio di lentischio e iodate erbe di mare. Il risultato è ancora una volta sinfonico: sfuggendo ogni pericolo di eccessiva morbidezza o rotondità, gli ingredienti, fortemente identitari, ‘suonano’ a tempo la giusta partitura.

Ma è il grande solista, il tonno rosso, ad ammaliare i sensi. Luigi Pomata, che di questo pesce ha una conoscenza che pochi possono eguagliare, lo racconta in tutte le sue sfumature. La lotta prometeica fra l’uomo e il mare, fra il pescatore e il ‘mostro’, si riverbera nella grande varietà di tagli e preparazioni proposte in carta. Così il girotonno (sei tagli di tonno rosso in varie declinazioni) è già di per sé un piatto-manifesto: una dichiarazione di amore prima che di stile. Del tonno, come del maiale, nulla si buttava: la sua carne, le sue interiora, le sue uova, sin il suo sperma (chiamato lattume) hanno nutrito decine di generazioni, durante i duri inverni, come durante le lunghe traversate in mare. Così Pomata, sublimandolo in un ideale periplo, pare sottolineare come questo pesce e come questa terra siano fra loro intimamente legati.

Protagonista della tavola, il tonno vive in una molteplicità di proposte. A partire dalla riserva personale del cuoco di filetti e di ventresche. Stagionati per anni in un olio di governo che ne mantiene inalterate le caratteristiche, sono proposti accuratamente sgocciolati, con solo un giro di extravergine e una presa di sale. Il sontuoso, francesizzante, filetto di tonno con scaloppa di foie gras pare poi raccontare, con la sua spinta acido-agrumata e la sua salsa al Cannonau (clone d’oltremontano Grenache), come la Sardegna sia stata terra di frontiera, d’incontro, di rifugio, di rinascita. Se la ventresca in crosta viaggia, quindi, su un binario di rassicurante certezza, sconvolge per la sua bontà il Wagyu non Wagyu (Bottura docet) di ventresca sfiammata, con gli aromi dell’arancia amara e dell’acetosella a distenderne ulteriormente la morbida, dolce grassezza, e la vellutata impalpabilità della tessitura.

A contorno di tutto ciò il servizio di sala si mostra rodato e affabile: sempre pronto a fornire le giuste spiegazioni agli ospiti, appare solo un po’ in affanno nelle serate di punta. Di valore, e di soddisfazione, è l’intelligente cantina. La selezione, che permette di bere bene a prezzi giusti, è vasta ma non sconfinata: oltre a una buona scelta di bollicine italiane e francesi, e a una bella gamma di bianchi, a colpire sono soprattutto le pagine dedicate ai grandi rossi, con la Toscana sugli scudi.

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L’orgoglio della tradizione e una timida avanguardia nel regno del tonno

Colonia di genovesi in esodo da Tabarka e progettata da un architetto piemontese nella prima metà del ‘700, Carloforte appare dal traghetto con le sue case come spalti sul porto e le mille scale a collegare stradine e portoni. Un’isola nell’isola affinchè tutto qui si elevi al quadrato: distanze, tempi, modi e linguaggi. Il tonno anima l’isola tra maggio e giugno e la ristorazione, tutta, conta l’anno così. Lo sa bene la famiglia Pomata che si è presa l’incombenza di testimoniarne il valore con una rigorosa linea di successione che da sempre officia, come una liturgia, la cucina di mare all’interno della sala di vetro di Nicolo, non un ma il ristorante dell’isola.

Agosto presenta la difficoltà di gestire le richieste e i due turni sembrano a volte comunque non contenere l’affanno. La sala è elegante e ben illuminata, il personale numeroso e volenteroso anche se non troppo preciso, le prosposte sono in una carta ricca quanto basta. Piatti scritti da molti anni e nuove incursioni, dunque: non solo tonno ma ispirazioni che riecheggiano della storia dell’isola, declinate in leggerezza e impiattamenti curati: le paste sono fresche, l’offerta ittica limitata, come si addice a chi non pesca in altri mari, e la qualità è garantita. In carta anche qualche proposta di carni del territorio, comunque interessante. Nicolo, sempre presente, è il valore aggiunto del ristorante. Sovrintende la sala, dispensa consigli e divaga, divulga la sua filosofia stravolgendo lo stereotipo del sardo taciturno e riservato. I suoi racconti e i suoi sorrisi sono incorniciati dalla pelle abbronzata e dalle bandane della sua collezione, a corredo del menù di ogni giorno.

A tavola, i crudi parlano di un mare ancora generoso e fonte di ispirazione continua. Il tonno si eleva nelle sue molteplici interpretazioni, intriganti ma sempre rigorose mentre, tra le paste, a una carbonara appiattita dei preziosi contrasti sapido-acidi abbiamo preferito un fantastico tagliolino con il protagonismo delle uova tartufate e degli zuccheri del pomodorino confit. Secondi classici e ben eseguiti come il polpo e, a conclusione, dessert provenienti da una tradizione pasticciera senza virtuosismi ma di grande golosità.

La carta dei vini esplora a fondo il territorio vasto e molto variegato della Sardegna con la deroga delle obbligatorie bollicine italiane e francesi. Si chiude con il conto e un bicchierino dei 180 litri del mirto artigianale che, ogni anno, Nicolo produce e destina ai clienti.

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La conferma di una fra le migliori tappe isolane

Nel Sud Italia, dove lo zoccolo della ristorazione rimane quello legato alla tradizione, le tappe in cui si propone una cucina innovativa si contano sulle dita di una mano e, spesso, vale la pena fare quei chilometri in più per raggiungerle e goderne dell’esperienza.
Una di queste è indubbiamente Su Carduleu in cui lo chef Roberto Serra, anche patron del ristorante, si qualifica ancora come uno dei pochi, pochissimi alfieri della ristorazione regionale.

Nel 2012 prende in mano il locale di famiglia ad Abbasanta e, nel Novembre scorso, decide di rinnovarlo restituendo nuova linfa alla sua casa, grazie ai colori più luminosi e a un design minimale, ottenuto liberando le pareti degli orpelli che le appesantivano.
Del restauro ne hanno giovato anche la mise en place, ora più curata, il servizio di sala, con l’aumento del personale, e la carta dei vini, aggiornata in occasione del rinnovo.

Cura e attenzione nella selezione delle materie prime

In questa piccola sala, alla periferia dell’universo Sardegna, si gode appieno del territorio e di un modo di intenderlo e trattarlo, che sono veri e propri punti di riferimento. La materia prima viene selezionata con passione, le cotture sottovuoto sono bandite, gli accostamenti, semplici e genuini, sono di una golosità didattica e appagante. Al ristorante, ubicato nell’area centro-occidentale dell’isola, si viene per gustare un menu incentrato sulle proposte di terra, anche se lo chef, che vanta esperienze da Vissani a Baschi e da Barbieri a Villa del Quar, dedica anche un menu alla materia ittica, che riveste un ruolo da comprimaria nella tradizione locale.

Nei piatti, tutti studiati e ben realizzati, emerge un’unione di intenti volta a valorizzare gli elementi tipici locali – vedi il tartufo di Laconi, le carni di maialino e capra, i mostaccioli di Oristano – in accostamento a ingredienti in prevalenza isolani, rappresentati primariamente dal sopracitato pesce.
Al Su Carduleu si servono anche le tradizionali paste sarde, come i maccarones de busa e i culurgiones, e un’interessante selezione di formaggi sardi, nella quale abbiamo particolarmente apprezzato il casizolu.

Una grande tavola che è un benchmark assoluto e rigoroso a livello regionale. Ad avercene, e non solo in Sardegna.

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Un ristorante sociale nel cuore della Sardegna

Fulcro, elemento concentratore e nodo di smistamento: questo è il significato di Hub, insegna ristorativa nuorese inaugurata nel maggio 2016 a Macomer, piccola cittadina circondata da splendidi e imponenti nuraghi. Il ristorante rientra in un più grande progetto, quello della Cooperativa sociale del Progetto H, volto a favorire l’ingresso nel mondo lavorativo di persone svantaggiate, insieme all’ideazione di progetti che possano contribuire allo sviluppo del territorio.

La cucina è capitanata da Leonardo Marongiu, classe ’75, che annovera alcune importanti esperienze quali il Palace Gstaad al fianco di Peter Wyss e la scuola superiore Alma di Colorno, dove ricopre ruoli importanti per quasi 6 anni. Decide quindi di abbandonare il ruolo per riprendere in mano la cucina, che tra compiti organizzativi e ore al computer aveva quasi perso, e di ripartire dalle origini paterne e dalla terra della sua infanzia, dopo la breve parentesi al Bris di Portopiccolo.

La proposta gastronomica è dicotomica: formule veloci che non disdegnano la qualità a pranzo e due menu gourmet a cena presenti al momento solo venerdì e sabato (mercoledì e giovedì su prenotazione), ma estendibili in futuro anche al momento del pranzo in una saletta riservata.

La carta dei vini è ben rappresentativa del territorio, ma pesca anche dalla vicina Sicilia e dal lontano Friuli per un totale di una cinquantina di etichette.

Cucina schietta, locale e contaminata

La materia prima è prevalentemente locale – il pesce arriva da Bosa, le verdure da un orto della zona, le erbe dal foraging limitrofo – ma non disdegna pregiati ingredienti che arrivano da fuori, come il foie gras. La cucina è a detta dello chef “regionale italiana ambientata in Sardegna”, con la riscoperta delle cotture a fuoco vivo a dispetto del sottovuoto -tecnica qui non contemplata perchè “utile solo ai fini della conservazione”-, che segue i dettami della pulizia marchesiana ma che, soprattutto, fa buon uso della notevole esperienza accumulata dallo chef nel corso degli anni.

In carta coesistono piatti ideati con il fine di esaltare un ingrediente locale, come il croccante Polpo in doppia cottura al nero di olive con patate affumicate e mandorle e gli Gnocchi con ricotta mustia, e altri nel quale è maggiormente visibile l’influenza fusion come gli Spaghetti freddi, gambero rosso, lattuga alle alghe, sesamo e zenzero. Piatto quest’ultimo in cui traspare anche la forte impronta marchesiana, nel servire gli spaghetti freddi.

Il menu, diversamente dalla tendenza attuale, vuole restituire dignità e identità al pane, non servendolo come portata a sé, bensì nella preparazione di ricette che prevedano l’utilizzo di pani locali, quali ad esempio gli Zichi di Bonorva in brodetto di muggine mantecato alle spezie e limone.

Una carta di dolci non strettamente isolana che si allarga all’Italia e all’Europa, come testimoniato dall’interessante rivisitazione del Tiramisù con biscotto al caffè, meringa, crema alla vaniglia, crema al mascarpone, chiude un’ottima cena, in una tappa che siamo sicuri diventerà a breve uno dei punti di riferimento nell’isola.