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Nostrano

La sfera e il cubo

Troneggia, giusto lì, in mezzo a una fontana, a una manciata di metri dal ristorante, in tutta la sua imponenza, una delle Sfere (1998) del celebre scultore Arnaldo Pomodoro (1926). A un primo sguardo la sua bronzea superficie appare liscia e levigata. Poi, camminandoci intorno, ci si accorge come essa sia, a tratti, ‘sgretolata’, mostrando il proprio interno: un composito insieme di ruote dentate e ingranaggi cubici, costruito secondo immaginarie rette perpendicolari e angoli di 90°. La suggestione avanzata dal noto artista non potrebbe essere più esplicita: dentro ogni realtà, anche quelle in apparenza più ‘semplici’, più rotonde, si celano sempre meccanismi complessi, che sfuggono a occhi disattenti o, peggio, ignoranti. Ecco, la similitudine fra la Sfera pomodoriana e la cucina di Stefano Ciotti ben coglie lo spirito della proposta che si può gustare al Nostrano (elegante insegna che lo Chef di origine romagnola ha aperto, insieme alla sua compagna, nel luglio del 2015, sul lungomare di Pesaro): piatti che all’apparenza si presentano privi di asperità, ma che in realtà nascondono, dietro la loro fittizia linearità, inaspettati affondi e complesse articolazioni. Ciotti, che è cuoco di solida formazione classica (fra i suoi maestri si annoverano Vincenzo Cammerucci, Alfonso Iaccarino e Gianfranco Vissani), sfugge l’improvvisazione. E ha ben imparato tanto a cogliere l’espressività dei singoli ingredienti quanto a orchestrarne la loro armonia nell’abbinamento. Sicché nulla è fuori posto nei piatti di Ciotti che, non scevri di uno ‘stiloso’ appeal estetico e a di un invitante profilo aromatico, viaggiano sicuri secondo consolidate declinazioni gustative, sorretti da ottima tecnica e da una buona materia prima, perlopiù di provenienza locale. Anche l’assai centrata linea d’ispirazione di questi ultimi anni trae linfa dal territorio ‘marchignolo’, con le sue molteplici tradizioni ‘mare e monti’, incrociando – per esempio – lo iodio dell’Ostrica alla dolce grassezza di una maionese emulsionata al ciauscolo, o la morbida sapidità di una Spigola alla clorofilla di carciofi e prezzemolo.

La complessità del piatto

Una bella classicità, attuale e contemporanea, pare dominare nei piatti di Ciotti: il Rombo è accompagnato a un sugo di gambero e a una salsa bernese al Parmigiano (mentre la sua corona – secondo uso uliassiano – è proposta gratinata a parte) e la francesizzante Crépinette di agnello è ricondotta sulle rive adriatiche con la sua spalla in fricassea e la sua coratella in padella, proposta su una tartelletta di chips di topinambur. A vivacizzare ulteriormente le pietanze, senza essere però né ridondanti né stucchevoli, ecco qua e là alcuni azzeccati spunti fusion (perlopiù orientali): il sontuoso fegato grasso – per esempio – è arrostito alle spezie (secondo una ricetta che Ciotti già proponeva ai tempi del suo Vicolo Santa Lucia, locale cattolichino con il quale conquistò i suoi primi importanti riconoscimenti) mentre le golose mazzancolle sono accompagnate da uno «sciroppo all’orientale» a base di porcini, soia e miso e ‘nascoste’ da una doppia spuma: di patate e di porcini e mandorle, quasi a ricreare il simbolo della dualità yin e yang. A dilatare ulteriormente le percezioni gustative delle pietanze anche alcune modulate sottolineature acido-aromatiche, date dagli agrumi, spesso usati insieme agli elementi crudi di pesce (Fusilli mantecati al cavolo nero, crema di canocchie e canocchie crude, limone alla brace; il già citato Carpaccio di branzino crudo, tipo shabu shabu, con carciofo cotto in brodo di pesce e carciofo, crema di prezzemolo, lime e aglio nero), come pure tocchi di tannica amarezza, fornite da elementi vegetali (cardi, carciofi…).

Di pari livello sono pure i dolci (ottimi tanto la Tarte tatin di pere con noci pecan quanto il Cremoso al cioccolato al latte) che ‘dolcificano’ il fine pasto con centrato carattere: senza essere – quindi – né ‘dolci non dolci’ né fastidiosamente zuccherini. La carta dei vini, seppur non vastissima, propone un considerevole numero di etichette che spaziano dalla Italia alla Francia, con alcune piccole digressioni in Austria e Germania. Di gran classe il servizio che, grazie ai giovani Ion Chelici e Stefany Piga, gira alla perfezione, con sorriso e cortesia.

IL PIATTO MIGLIORE: Rombo con sugo di gamberi e salsa bernese al Parmigiano Reggiano, la sua corona gratinata.

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Nostrano di Stefano Ciotti: una nuova maturità

Alla soglia dei 50 anni Stefano Ciotti ha in sé uno spirito e una energia unici. Rimane l’eterno giovane folletto di sempre, con grande vitalità e piglio veloce, ma contemporaneamente acquisisce la calma e la determinazione condita da un pizzico di concreta stabilità tipici della maturità. E non esita a mettersi ancora in gioco, rinnovando il locale e investendo fortemente sulla brigata di cucina e sala, per porsi e lavorare per obiettivi ancora più ambiziosi di oggi. Il cuoco romagnolo, ormai marchigiano di adozione, non si ferma un attimo e, in questi momenti di difficoltà, rilancia e con grande grinta, determinazione e fiducia nel futuro spinge sull’acceleratore per raggiungere nuovi traguardi.

Ecco quindi che al nuovo Nostrano la ristrutturazione della sala, ancora più fine ed elegante di un tempo e con molti coperti in meno, segue anche il rafforzamento del team di sala, giovane e dinamico nonché molto preparato, e la spinta su una cucina che riesce a crescere e a stupirci ancora.

Una cucina più matura e raffinata di un tempo

Che la cucina di Stefano Ciotti fosse buona e golosa non è un mistero: lo è sempre stata. Non ha mai rincorso le mode stravaganti di sapori esterofili, fermentazioni, erbe e profumi strani e ricercati. La cucina del Nostrano è costruita su solide basi italiane, di gusto e persistenza, con uso di salse e intingoli per quel che è necessario, con l’impiego di spezie rigorosamente italiane. Se dovessimo pensare a un principio ispiratore lo porremmo a metà strada, stilisticamente parlando, tra un Mauro Uliassi e un Niko Romito di qualche anno fa. Concentrazioni ma gusto, persistenza ma golosità. Il tutto condito da italianità profonda, che significa centralità del prodotto, uso di erbe tipiche della nostra cucina, intingoli in accompagnamento a golose preparazioni di base.

Il benvenuto dei Pomodori al Gratin è un concentrato ed un emblema di questo concetto. Goloso, primordiale nella sua intensità gustativa, ma anche elegante ed equilibrato. Così come Cialda di occhi di seppia, trippe di pesce, menta, finocchiella che è anch’esso l’emblema del concetto della cucina del Nostrano. La solida partenza viene confermata da piatti come Scampo tostato, conditella, cetrioli, kiwi e Pappardelle ripiene di cacio e pepe, calamaretti, cannelli, fave per terminare con la splendida Costoletta di agnello con il secondo servizio della sua coratella. Splendidi i dolci, con particolare menzione per Fiore di robiola, frutti di bosco, granita di ribes, latte tostato, mandorla con l’uso di un fiore di robiola ricercato dal cuoco con attenzione nei dintorni e splendida la presentazione del teatro rossiniano, originario di Pesaro, che introduce l’ottima piccola pasticceria.

Un ristorante che saprà raccontare a lungo le storie, più o meno importanti, della città di Pesaro.

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Uno scudiero che è ormai cavaliere

In ogni storia di cavalleria che si rispetti, il giovane scudiero, apprendista ai princìpi e ai segreti del portare le armi, diventa prima o poi cavaliere. È quello il suo destino: un percorso scandito in tappe di progressivo apprendimento che lo renderà degno di calzare gli speroni e vestire l’armatura. La materia di Bretagna e il ciclo arturiano, che hanno profondamente segnato la cultura aristocratica medievale e rinascimentale, ce ne presentano numerosi casi, in un florilegio di prove e scontri, duelli e tenzoni, che fanno maturare i protagonisti (il prescelto Artù, il superiore Lancillotto, il combattuto Perceval, il senzamacchia Galaad…) da giovani sprovveduti, e talvolta arroganti, a eroi predestinati a grandi azioni.

Noi gourmet ricordiamo bene l’esordio di un “giovane scudiero” della cucina, l’allora ventiquattrenne Daniele Patti, che con tanto coraggio, e altrettanta avventatezza, nel 2012 rilevò la gestione del glorioso Lo Scudiero (Pesaro), insegna che fra gli anni Ottanta e Novanta aveva contribuito a scrivere belle pagine nella storia della ristorazione marchigiana, giungendo anche a ottenere prestigiosi riconoscimenti (uno su tutti: la stella Michelin). Rammentiamo anche come nella solenne austerità del nobile Palazzo Baldassini – tutt’oggi di proprietà della omonima famiglia marchionale – il giovane Patti, scanzonato folletto tutto biancovestito avec la toque in testa, quasi apparisse elemento discordante. E abbiamo pure ben impresso nella mente come i suoi piatti, benché già buoni, apparissero ancora un po’ acerbi. Certo, qua e là si potevano leggere, nella filigrana, degli azzeccati abbinamenti, del consapevole uso degli ingredienti e del fine impiattamento, gli anni passati a Erbusco, dal divino Gualtiero Marchesi, e l’esperienza nelle cucine dell’eccelso Uliassi. Ma pure si coglievano alcune ingenuità e alcune incertezze date dalla giovane età.

Dieci anni sono passati da allora. E, senza tema di smentita, possiamo dire che quel “giovane scudiero” è ora un baldo cavaliere. Le ingenuità si sono trasformate in spunti di riflessione prima e in intuizioni poi. E le incertezze sono divenute pungolo di studio, e quindi conoscenze ben assimilate. Ma, su tutto, in questi due lustri, l’irruenza della gioventù ha lasciato spazio a una olimpica sicurezza, che ha fatto compiere notevoli passi in avanti a questa insegna. Nelle voltate sale dello Scudiero (o, in estate, nel magnifico giardino all’italiana che si articola dietro il palazzo) va ora in scena una cucina elegante e contemporanea, attenta al territorio e ai suoi prodotti, aperta a suggestioni e gusti foresti, di grande impegno tecnico ma scevra da forzature, costruita con materie prime d’eccellenza e dispiegata in proposte di grande impatto. A contorno anche il ristorante è mutato: l’attenzione ai dettagli (oggetti d’arte e di design, luci, tovagliato, stoviglie…) ha reso le sale molto più fini, il servizio (che procede sotto l’occhio attento di Dunia, moglie di Daniele, e del maître Giovanni Stupici) è molto migliorato, ora muovendosi con consumata maestria fra vassoi d’argento e cloche. E pure la cantina, all’inizio scarna, si è ampliata e arricchita con intraprendente intelligenza (a tal proposito merita una visita l’enorme e labirintica neviera del XV secolo che la ospita).

Dalle Marche alla Sicilia, passando per il resto del mondo

La carta delle vivande adesso proposta da Daniele Patti – insieme al suo secondo, Alessandro Furlani (quattro anni a Senigallia, chez Uliassi) – trae numerosi spunti dalla ricca tradizione di terra, e di mare soprattutto, della cucina marchigiana. Le olive all’ascolana, per esempio, si vestono “alla pesarese“, sostituendo alla tradizionale farcia di carne l’impasto dei passatelli (pangrattato, Parmigiano, uova, scorza di limone), mentre il profumo della cotenna della porchetta – altra tipicità – accompagna le raguse con spuma di patata e finocchietto selvatico. Ma la marchigianità – come scritto sopra – non è un limite. Su si innestano alcune inflessioni sicilianeggianti (a cui Daniele, che è nato in provincia di Messina, e lì ha vissuto fino all’età di dieci anni, dedica uno specifico percorso “Vieni in Sicilia con me“) rilette secondo canoni d’alta scuola – come l’eccellente Crépinette di agnello con burro alla nocciola, miele e bietola – oltre a talune suggestioni e ricordi di viaggio in paesi esotici.

L’imperativo categorico che sussume il tutto rimane comunque uno, e uno solo: tenere bene al centro il senso del gusto. I piatti, tutti indistintamente, oltre già a presentarsi con un invitante profilo aromatico (come per gli squisiti Cappellacci ripieni di formaggio caprino con astice e zenzero, o per il soave Sorbetto al mango con frutto della passione e soffice al cocco), si dipanano in un bell’equilibrio fra sensazioni talvolta iodate (come nei casi della azzeccata Panna cotta alle ostriche con crema allo scalogno e caviale di uova di lompo, o della magnifica Ostrica ripiena di ricciola con spuma di peperoni friggitelli e semi di lino), talvolta acide (Scampo, limone, granita al basilico; “Attraversando lo Stretto di Messina“, ovvero cotoletta di pesce spada con spuma di caponata e gel d’arancio), talvolta clorofilliche (“Il 19 marzo a Ramacca“, ovvero pasta mista al macco di fave e finocchietto), richiamate però all’ordine, in fine di bocca, da piacevoli rotondità e modulate tendenze dolci, unite a grande nettezza gustativa.

Non mancano citazioni d’alto classicismo, come la Lepre à la royale, vivacizzata da lampone e caffè, e il Filetto alla Rossini con tartufo (siamo a Pesaro, patria del celebre compositore!), eseguito secondo la lezione filologica impartita dal divino Marchesi. Infine i golosi uno spazio, e magari anche due, per i dolci dovrebbero tenerlo: la proposta, assai variegata, merita l’assaggio anche perché – nota di merito ulteriore – non è mai stucchevole, neppure nelle proposte a base di cioccolato, sempre bilanciate dalla presenza di frutta.

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L’orizzonte in Via dell’Orizzonte

‘Colli’, ‘siepi’ e ‘orizzonti’ fanno profondamente parte dell’anima marchigiana. Ne intridono lo spirito e ne orientano la sensibilità: non solo perché in eterno vivono nei celebri versi del conte recanatese, ma perché davvero, in questa terra, ogni giorno, «il guardo» plana di balza in balza, su un dolce paesaggio sospeso, ove «l’ultimo orizzonte» pare non avere mai fine. Come accade Dalla Gioconda.

«Interminati spazi» e «sovrumani silenzi», quindi, fra cangianti azzurri e caleidoscopici verdi, che si rincorrono dalle asprezze della dorsale sino alla sinuosità delle spiagge. E che si ritrovano, quasi come epitome di un’intera regione, su quell’ultimo colle che – metaforicamente (ma neppure poi così tanto, se solo lo si considera dal mero punto di vista geografico e amministrativo) – ‘chiude’ le Marche e apre alla Romagna e alla pianura. Così è a Gabicce Monte, piccolo borgo che occupa le estreme settentrionali propaggini, quasi a strapiombo sul mare, del Monte San Bartolo, parco naturale di rara bellezza, ove fra maggio e giugno è possibile perdersi fra moltitudini di gialle macchie di ginestre, pianta assai cara a Giacomo Leopardi.

Ebbene, sul colle di Gabicce Monte, oltre una immaginifica siepe di questi fiori, si gode di una straordinaria, infinita vista sull’arco della costa romagnola: nelle giornate terse «il guardo» giunge sino alla città degli esarchi bizantini, Ravenna, e oltre. Mentre, volgendosi verso Ovest, ci si perde nelle balze della vallata del fiume Foglia, del Montefeltro, del serenissimo Monte Titano e assai più lontano. Non è quindi un caso che la strada più alta di Gabicce Monte si chiami appunto Via dell’Orizzonte. Orizzonti fisici, certamente, ma pure mentali. Orizzonti che, attraverso le emozioni che suscitano, scavando nel nostro recondito, spingono dolcemente verso un assoluto senza nome. Verso nuove scelte di vita. Verso l’umana, semplice, felicità. Verso i sentimenti, profondi e puri.

In Via dell’Orizzonte, da decenni, sorge uno storico ristorante che prende il nome dalla donna che lo fondò a metà del secolo scorso: Dalla Gioconda. Era un locale che, divenuto noto per la sua sincera proposta dei semplici piatti della tradizione marinara, ha fatto fortuna nel corso del tempo, venendo in seguito gestito dai familiari della fondatrice. Ma, in Via dell’Orizzonte, nulla accade per caso. Qui, fra cielo, mare e terra, è forte la potenza di  «ciò che move il sole e l’altre stelle»: l’amore.

Già, perché è stato proprio questo sentimento, il più umano e al contempo il più sublime fra tutti i sentimenti, a mutare quel tranquillo scorrere del tempo che, da troppo ormai, accompagnava Dalla Gioconda. Di questa insegna si è innamorata una giovane e bella coppia – Stefano Bizzarri e Allegra Tirotti – che ha deciso di rilevarla e darle una nuova vita, intrecciandola a quella vita che loro stanno costruendo insieme. Intuendo le infinite potenzialità ancora inespresse di questo luogo magico, lo hanno ammodernato e ristrutturato, rendendolo uno dei locali più belli dell’intera costa. Un sogno, insomma, che entrambi hanno portato avanti strenuamente, con attenzione al paesaggio e alla sostenibilità.

La nuova Dalla Gioconda è ora un ristorante a impatto zero, alimentato da energia geotermica e 100% plastic free, dotato di ampi spazi all’aperto, di un giardino e, poco lontano, di un orto (presso il quale presto sorgerà anche un raffinato B&B). Una scelta di vita, quella di Stefano e Allegra, che si è ‘incontrata’ e ‘completata’ con un’altra: quella di Davide Di Fabio. E anche qui l’amore – quel «dolce soffrire che fa muovere il mondo» – ha la sua parte rilevante. Da sedici anni ai fornelli della Osteria Francescana di Modena (ove era entrato appena diciannovenne), Di Fabio si fidanza con una ragazza di Pesaro e, per amore, decide di lasciare Modena. Eccolo quindi, ora, a capo della brigata della nuova Dalla Gioconda.

Dalla Gioconda una cucina, un panorama e un ‘nuovo’ orizzonte

Che strada imboccare? In che modo interpretare il ‘nuovo panorama’? Verso quale ‘nuovo orizzonte’ dirigersi? Sedici anni sono tanti, e pare un’ovvietà dire che nel DNA di Di Fabio c’è un po’ di Francescana (come, per principio di reciprocità, c’è un po’ di Di Fabio nel DNA della Francescana). Il rischio, arrivando a Gabicce Monte, poteva essere quello di ‘adagiarsi’ in una cucina anche grande ma decontestualizzata. Una proposta d’alta, altissima scuola ma incapace di risolversi in una concreta espressione di personalità e stile. Insomma, una riproposizione, benché rielaborata con sagacia, di ciò che è ‘altro da qui’.

Ebbene, così non è stato. Non solo, ça va sans dire, per mestiere, conoscenze, capacità tecniche, senso del gusto di Di Fabio. Ma per la sua viva intelligenza nell’interpretare un territorio che non è Modena in un luogo che non è la somma Osteria. E così sono proprio il nuovo panorama e il nuovo orizzonte a diventare i protagonisti di una cucina fortemente espressiva, capace di manipolare con consapevolezza una materia prima ben selezionata, attenta all’equilibrio degli elementi nel piatto ma al contempo vivificata da centrate spinte amare e acide (e, difatti, una delle passioni di Di Fabio è l’aceto, che elabora personalmente) che allungano la complessiva persistenza gusto-olfattiva delle pietanze.

Già l’ouverture che apre il pasto – la trilogia composta dal brodo di cozze alla marinara, dalla oliva à la royale e dal cetriolo in scapece – è in nuce una sorta di dichiarazione programmatica. Il povero brodo di mitili, che nei suoi aromi racchiude, come la madeleine proustiana, tutto il mondo delle cucina di mare e delle trattorie della costa ‘marchignola’ (marchigiano-romagnola), fa pendant con una ricca proposta d’alta scuola francese che rilegge un’oliva ripiena, come se fosse all’ascolana, di lepre – ovvero cacciagione (altra grande passione di Di Fabio) – à la royale. Infine il cetriolo in scapece dilata al palato, in tutta la sua suadenza, la sua nota acido-aromatica.

È quindi nel mare d’Italia 2.1 (ovvero la zona Fao 37.2.1: che corrisponde all’Adriatico) che si evidenziano la maturità, la conoscenza e le capacità del cuoco. L’interpretazione del pescato locale, in una mimesi di quella che era la vecchia carrellata degli antipasti di mare (ove non mancavano mai, per esempio, i gamberetti in salsa rosa: ricetta che Di Fabio smonta e rimonta in uno stimolante remake), racconta la materia prima di giornata, vivificandola e valorizzandola in un sagace e intrigante gioco di accostamenti e di contrasti che si sviluppa a vari livelli (temperatura, consistenza, cromaticità, sensazioni gustative, profumi…). La complessità della proposta è ulteriormente accentuata da altri due elementi, che peraltro ricorrono durante il pasto: la presentazione parcellizzata su più stoviglie (un intelligente invito alla convivialità) e la finitura del piatto completata a tavola.

Ricchezza e povertà che riappaiono nella saraghina fac simile, una proposta che mimando una tipica preparazione romagnola (la ‘cantarella’, una sorta di frittella preparata con l’impasto della piadina) non è altro che «il nostro modo di mangiare il caviale», dicono all’unisono Stefano Bizzarri e Davide Di Fabio. La ‘cantarella’ diviene quindi un blinis, l’immancabile squacquerone, montato con leggerezza, si sostituisce al burro acido, e la saraghina accompagna un ottimo caviale Royal Siberian.

Fra i primi piatti spicca la zuppiera, ovvero pasta con brodetto di pesci dell’Adriatico. Ma anche qui estro, conoscenze e capacità stravolgono, sempre tenendo ferma la barra sull’assoluta centralità del gusto, un piatto ‘di tradizione’. «È usanza in Abruzzo – racconta Di Fabio, che quella terra conosce bene per esserci cresciuto – condire la pasta con il sugo avanzato del brodetto. La mia è una moderna interpretazione». Interpretazione che raccoglie anche una rivisitazione delle cosiddette ‘virtù’ teramane, ovvero una zuppa contadina ma assai ricca di ingredienti. L’incrocio di queste due suggestioni ha portato a una pasta (in realtà più formati di pasta, come usanza vuole) condita con sugo di brodetto di pesce, sostenuta dai crudi dei medesimi pesci (nel nostro caso leccia, canestrelli, bianchetti, gamberi rosa…), nappata da due salse: una di seppia e altra all’aglio dolce, tipo bourguignonne.

Tutti magnificamente giocati su richiami dolci e amari sono invece i dolci, fra i quali spiccano la polifonica zuppetta di olive di Cerignola con frutto della passione, verbena, sorbetto amaro di arancia e Vermouth (da bis), e il goloso dolce amaro al caffè: savoiardo, gelato al caffè, fave di cacao, gavotte.

Ma alla nuova Dalla Gioconda non è solo il pesce a vestire i panni del protagonista. Al mare già si sono affiancate – e così ancor di più sarà durante le stagioni autunnali e invernali – alcune proposte di carne (come un centratissimo fritto di agnello alla milanese con maionese al curry, ceci e sesamo nero) e quindi, più avanti, di cacciagione, di funghi e del buon tartufo bianco di Acqualagna. D’altronde il camino che troneggia nella sala superiore invita alla sosta, disegnando calde serate rischiarate dalla vampa, mentre fuori, al di là delle ampie vetrate, sale la nebbia marina che tutto avvolge e tutto ovatta.

Serate durante le quali certo si potrà apprezzare al meglio un altro atout di questo locale: la magnifica, inaspettata, selezione dei vini. Affidata alle talentuose mani di Alessio Di Iorio (anche lui un passato alla Francescana) la cantina merita la visita: per godere sia della sua bellezza sia dell’imponenza del suo assortimento. Italia e Francia si rincorrono fra grandi Champagne e raffinati bianchi, ricercati rossi e belle verticali di vecchie annate (fra le quali, notevoli, quelle del ‘reparto Bordeaux’).

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A Pesaro la nuova stella di Ciotti brilla splendente in città

Il ristorante orizzontale. Così ci piace apostrofare Nostrano. Un luogo in cui la cura dei dettagli è importante, tutto qui è pensato e non è frutto del caso. E anche la cucina segue le orme di una lenta e inesorabile crescita. Una cucina fatta di contrasti più marcati rispetto al passato, con qualche spunto creativo, ma al contempo una cucina piaciona, nella sua accezione più nobile del termine. contrasti sì ma misurati, e connotati da un’ottima tecnica che fa uscire piatti golosi, persistenti e molto interessanti.

Una cucina che ci colpisce dritta al cuore

Un luogo, il Nostrano, che abbiamo visitato più volte, ma che ci stupisce continuamente per il suo successo di pubblico, assolutamente non casuale. Perché la cucina di Stefano Ciotti riesce a colpire al cuore, dritto dritto, un numero di persone molto ampio. Ecco così giungere al nostro tavolo un Risotto con zucca, noce, cioccolato bianco dagli equilibri precari la cui nota acidula dona una freschezza e una lunghezza inimmaginabili, così come la golosa e contrastata Sogliola alla mugnaia, in cui il gel di rabarbaro e la salsa champagne la fanno decisamente da padroni. Tecnica notevole nella Crostata e mandorle, molto buona ma non eccelsa la Torta di rose, con uno zabaione forse un filo troppo alcolico.

Se a questo poi aggiungete un servizio giovane, spigliato e con una marcia in più e una carta dei vini, complici alcuni amici davvero importanti, da far invidia ai nomi più blasonati dello stivale, beh, il gioco è fatto. Ci siamo sentiti di premiare, con una valutazione ancora non piena ma sicuramente a vista, questo ristorante a cui ci sentiamo solo di annotare, in un sabato sera a dire il vero pieno zeppo, solo qualche leggera lungaggine di servizio tra una portata e l’altra. Su cui i ragazzi, Stefano in primis, lavoreranno certamente.

Qui Pesaro, ristorante Nostrano, il ristorante trasversalmente orizzontale.

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