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Fattoria delle Torri

Giovani talenti modicani crescono

Di Peppe Barone e dell’importanza del suo ruolo rivestito nella riscoperta e valorizzazione della cucina siciliana ne abbiamo parlato diffusamente nella scorsa recensione. Con l’estate 2021 il grande Chef modicano lascia il testimone di Fattoria delle Torri alle figlie Francesca, in cucina, e Carla in sala. Neppure 50 anni in due, le giovani eredi hanno già lasciato il segno, l’impronta distintiva, portando aria nuova in cucina ma anche una ventata di rinnovata energia nel servizio.

Francesca, laurea a Pollenzo con esperienze importanti alla corte di Massimiliano Alajmo e Davide Scabin  approda per un lungo periodo al Signum di Salina, dove si forgia e imprime consistenza al suo talento già ben delineato. Anche Carla, dopo aver affiancato il padre al ristorante di famiglia, si trasferisce per una esperienza importante al Signum.

Il risultato, oggi? Un ambiente giovane, dinamico e una cucina che poggia le basi sulla storia e la tradizione di un grande ristorante ma ne evolve i contenuti con tanta energia positiva. L’esperienza presso la chef Martina Caruso si vede, si percepisce e si sente in ogni angolo. Francesca ha una mano felice, leggera e ben marcata. Svettano le linguine al burro di erbe e chiocciole, davvero un portento di gusto e persistenza, ma anche sgombro, porro e fichi d’India ha molto da dire. Piatti connotanti, eleganti, con sapori decisi ma mai carichi di grassi o di note ridondanti. Un plauso al comparto dolci, in cui ci ha stupito l’equilibrio, difficile, del gelato di origano e la golosa eleganza del tortino di carrubo. Il servizio, attento e preciso, ci ha confermato le già ottime opinioni sulla cucina.

Peccato solo per lo squilibrio tra il prezzo dei piatti alla carta, comunque serviti in porzione da degustazione e non calibrati adeguatamente nelle dimensioni e nei potenziali accessori, e il costo dei due – economici – menù degustazione, uno orientato sui classici e l’altro, divertente, che mette al centro la condivisione tra i commensali. Avanti così, due giovani e brave ragazze che avranno il ruolo importante di raccontare il futuro del ristorante e della cucina modicana.

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La cucina senza tempo di Isa Mazzocchi 

La Palta, in dialetto locale, è una rivendita di sali e tabacchi. Ma La Palta era anche osteria con la nonna prima e la mamma, poi, di Isa Mazzocchi, oggi chef e patron alla terza generazione mentre già si stanno scaldando i motori per la quarta, sempre in cucina.

Un sali e tabacchi e un’osteria che si è trasformata in un luogo del bien vivre piacentino. Brigata tutta al femminile, la sorella Monica, in sala, con il marito di Isa, Roberto, e un gruppo di giovani dinamici a coadiuvare il servizio. La sala, quella di un elegante relais di campagna, vanta una cantina da far invidia a molti mostri sacri in Italia, ma non solo, e diventa proscenio di una cucina sottile quanto persistente e identitaria. Una cucina fuori dal tempo, sempre classica e contemporanea in ogni istante, che ha personalità e stile e che, negli ultimi anni, dobbiamo riscontrare essere anche assai cresciuta in contrasto e persistenza gustativa.

La tecnica da queste parti non è mai mancata, Isa è allieva del grande cuoco francese, ma italiano di adozione, George Cogny, che proprio quei nel piacentino aveva stabilito la sua residenza, lavorativa e personale. Il gusto vola alto nell’insalata d’orzo ai pomodori arrostiti con animella al burro e pepe verde, con il tocco suadente della spezia, la persistenza del pomodoro arrostito, l’eleganza della ghiandola, di qualità sopraffina. Ma ci stupiscono, e continueranno a farlo per lungo tempo, le commistioni estero-italiane dei ravioli di riso tra Oriente e Occidente, un piatto monumentale che unisce la zuppa di cocco di origine Thai ai ravioli, qui con farina di riso venere, ripieni di cipolle stufate e un pizzico di Grana Padano. Un grandissimo piatto che fa rima con eleganza e persistenza. Splendido il dolce babà all’Amaro Amara con caponata di frutta e verdura, cappero al sale, sorbetto di fichi ma, a proposito di eleganza, una lezione arriva già all’inizio, con la coppa piacentina di benvenuto.

La cucina, splendida, accompagna, come dicevamo, un ambiente di classe ed elegante e un servizio presente, attento ma, al contempo, disinvolto. Se non avete ancora visitato La Palta è senz’altro il momento di farlo.

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Parafrasando il detto, a dire il vero in un’accezione poco piacevole, “il riso abbonda nella bocca degli stolti“, propenderemmo per coniarne uno di nuovo, adeguato agli appassionati gourmet: “il riso abbonda nella bocca dei gourmet“.

Eh, sì, perché il riso, o il risotto, è certamente diventato, soprattutto in Italia, un piatto decisamente gourmet. Erroneamente considerato più elegante e più fine di una pasta, in realtà rispetto a quest’ultima ha l’indubbio vantaggio di poter essere interpretato come una tela su cui dipingere mirabolanti quadri d’autore, più che piatti di alta cucina. Che poi, come si sa, il confine è decisamente labile tra i due paragoni.

E precisamente questo confine tra arte e piatto, ormai a qualsiasi latitudine dell’italico Stivale, ritroviamo. Tanti sono, infatti, i risi d’autore del centro-sud: Niko Romito, Gennaro Esposito, finanche Luca Abruzzino hanno creato mirabolanti risotti decisamente importanti e profondi.

L’ultimo, ma non per importanza, è quello di Gianluca Gorini, che continua a stupirci con i suoi giochi sulle nuance dell’amaro di cui sicuramente è uno dei massimi esponenti d’Italia. Un riso che parte da un seme poco conosciuto, il Sant’Andrea, che è in questo caso prodotto da una azienda giovane ma molto dinamica e interessante, Terre Alte di Villarboit, cotto in acqua di vongole, mantecato con olio di Oliva, terminato con dragoncello, limone salato in pasta, origano e polvere di olive nere essiccate e affumicate.

Un tripudio di acido, amaro, quasi iodato-fenico (ricorda la bottarga l’abbinamento limone-origano-acqua di vongole) dalla lunghezza e derive aromatiche decisamente intriganti e persistenti. Un riso non convenzionale, che grazie al punto di cottura al ferro, perfetto, e alla cedevolezza dell’amido della tipologia di riso consente una mantecatura con pochi grassi, che però rimangono evidenti al palato nella loro aromaticità. Un riso da provare che, secondo noi, diventerà un signature dish di Gianluca Gorini, grande talento italiano in cucina.

Una dimora di charme che continua a fare la storia dell’alta cucina bergamasca

Era il luogo prediletto del grande Luigi Veronelli, l’Osteria della Brughiera, un’oasi incantata fatta di sale eleganti e un giardino accogliente e di classe. Qui, da sempre, gli Arrigoni, prima il padre e oggi il figlio, Stefano, accolgono gli avventori nella monumentale cantina, ricca di vini di pregio e salumi, formaggi e sfiziosità altrettanto uniche, frutto di una ricerca maniacale. È in cantina che, difatti, sarete accolti per l’aperitivo, accompagnato da una coppa eccelsa, affettata all’uopo con la Berkel d’ordinanza. Però “la Brughiera” non è solo cibo di qualità, è anche un elegante e raffinato rifugio ricco di opere d’arte e buon gusto, ovunque.

Quanto alla tavola, da quando c’è Stefano Gelmi in cucina, giovane talento cresciuto tra i fornelli e il pass dell’Osteria della Brughiera, la freschezza di idee e la personalità dei piatti sono cresciute a dismisura. Se ne parla davvero poco di questo incantevole luogo ma il nostro menù – incominciato per onor di cronaca con un ritardo nella partenza davvero troppo elevato – si è poi indirizzato e articolato verso un tracciato davvero originale, molto centrato gustativamente e di qualità indiscutibilmente elevata.

Già la partenza, con il polpo di Porto Santo Spirito cotto e crudo con arachide ghiacciata, oliva nera e levistico ha davvero impressionato per originalità e centralità gustativa, poi confermato e anzi superato dalla seppia in variazione successiva, elegante quanto golosa e raffinata, per poi approdare alle paste, in cui hanno decisamente spiccato le penne lisce al burro di stevia, acciughe e gazpacho e gli spaghettini con telline sgusciate.

Ottimo e per nulla scontato il piccione, con abbinamenti e commistioni originali e di livello anche il comparto dolce, in cui spicca una millefoglie molto, veramente molto buona.

Delle difficoltà in partenza di servizio abbiamo già detto, dobbiamo anche dire che il patron e suoi ragazzi hanno poi recuperato adeguatamente con solerzia, attenzione e precisione rimarchevoli. Un plauso, quindi, all’Osteria della Brughiera che, come tante altre “osterie” nazionali, pur non essendo precisamente “osteria” vi cullerà col calore, il garbo e la piacevolezza di un tempo.

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Norbert Niederkofler: l‘incantatore della Val Badia

Norbert Niederkofler s’è formato dapprima nel Nuovo Mondo e poi in giro per gli stellati di tutta l’Ecumene. È stato questo peregrinare rapinoso e disorientante che, negli anni della prima globalizzazione, ha determinato per lui un ritorno in patria coinciso nient’altro che con l’esigenza – non decidibile, non tacitabile – di casa: una casa che era, allora come adesso, la montagna e l’urgenza di introiettarla, questa dimora estrema, sostituendo il particolare all’universale e farne teoria e finanche filosofia con Cook the mountain e Care’s e, pratica, al St. Hubertus

È la montagna, del resto, la responsabile del genio di Norbert Niederkofler nonché colei che ricorda all’uomo che ogni genius è prima di tutto genius loci diventando, della cucina, sia l’immaginario che il quotidiano. È solo così, del resto, che gli ingredienti acquisiscono una freschezza propria, tenera, virginale: quella delle cose appena nate. Come le erbe, in particolar modo, di cui questa cucina tanto si nutre quanto è nutrita e da cui mutua una vita intima, rizomatica e ariosa, ossigenata e rigenerata dalle altezze anche quando si tratta di sottosuolo o sottobosco come nel caso dei funghi e delle radici.

E non senza l’ausilio delle mani sapienti dell’head chef bergamasco Michele Lazzarini, già lodato anche in passato, che è uno dei talenti più brillanti del St. Hubertus: è anche grazie al lui, infatti, se l’elemento vegetale, in qualsiasi forma, diventa un protagonista capace di spartirsi, con pochi altri elementi, l’intera forza e l’efficacia del piatto. Accade con la salsa di nasturzio che accompagna il cervello nonché col brodo di anguilla dell’anguilla stessa, qui porchettata. Peraltro nell’impianto ergonomico di questo piatto si manifesta una seduzione importante, e assai ricorrente: quella verso una fruizione brutale, preistorica della cucina che cela anche l’invito, invero esplicito, a un rapporto non mediato col cibo, da esperire direttamente, con le mani.

Una frugalità di stampo classico

Tra gli elementi ricorrenti della cucina del St. Hubertus, poi, c’è l’acidità: che non significa necessariamente freschezza o, comunque, non solo. Perché tutto il repertorio delle acidità possibili è frequentato con assoluta disinvoltura da Niederkofler, che dimostra di esser capace di integrare ogni acuto e contestualizzarlo sempre forte com’è di un retaggio capace di conciliare l’elemento più classico, o più alto, col bruto (o col crudo). Tutta la sua cucina, anzi, potrebbe esser concepita come l’ambizione a una dimensione rustica e frugale dell’esistenza da parte di un cuoco con solide basi classiche d’impronta smaccatamente francese.

Peculiari i primi piatti che sono, ciascuno a modo suo, un piccolo calembour: fruttato di uva spina lo spaghetto freddo; umami slanciato il risotto, dove la spinta casearia, non paga di se stessa, viene rinvigorita e forse anche sdrammatizzata dalla verve della colatura di coregone. Quanto ai ditalini, formato di pasta comfort per antonomasia, questi accolgono una seduzione conturbante: quella ematica e deliziosamente borgognona dell’estratto di selvaggina.

Si torna dunque all’incanto della dimensione agreste e bucolica con la trota alla mugnaia e, soprattutto, con la carota, laccata fino alla torrefazione.

Perché dal raccolto alla casseruola, e questo Norbert lo sa bene, passa tutta l’italianità in cucina e ciò è tanto più vero a queste latitudini, dove tecniche come la fermentazione diventano mandatarie visto che la terra si chiude, diventando inaccessibile all’uomo, per oltre cinque mesi l’anno. Da qui la necessità della circolarità dell’economia: tutto quanto arriva nel piatto, infatti, arriva da un mercato di prossimità che si materializza in oltre 500 tra verdure, erbette e funghi, mentre dagli allevatori locali si comprano solo animali interi al fine di propiziare una competenza che, del sacrificio dell’animale, sappia celebrare tutto e vanificare nulla.

Una competenza che diventa un trionfo nel maialino dai rimandi fusion e nei ribs di agnello straordinari nella cremosità delle carni, al punto da sembrare bolliti. Una consistenza struggente e misteriosa, ulteriormente enfatizzata, ton sur ton, velluto su velluto, dalla potentissima zuppa di funghi vellutata dalla finitura, una schiuma di fungo a terminare la carrellata dei salati.

E proprio questa chiusura ci accompagna felici ai dolci, in una carrellata tra le migliori mai assaggiate: un crescendo di classicismo condito con sapienti interpolazioni fino al gran finale della imperiosa, definitiva tarte tatin.

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