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Il miglior piatto del 2022

Chiudiamo l’anno con una carrellata di piatti memorabili. Non stupitevi se alcuni di questi piatti saranno solo frugali, altri regali, alcuni cerebrali, altri solo rassicuranti. Come ogni scelta, anche questa parla più di chi l’ha compiuta che dell’oggetto scelto. Al lettore lasciamo pertanto il compito di sbizzarrirsi con le più disparate supposizioni circa lo stato in cui versa non solo la cucina ma anche la critica contemporanea che noi, di Passione Gourmet, pretendiamo, e piuttosto orgogliosamente, lo ammettiamo, di rappresentare.

Leonardo Casaleno e la Pasta al tonno di Mauro Uliassi

In perfetto e affascinante equilibrio tra tradizione e tradimento, Uliassi rievoca uno dei piatti di pasta più banali e amati, reinterpretato con espedienti tecnici che rendono ogni forchettata un lampo di golosità ed eleganza. La mantecatura degli spaghetti viene fatta in un brodo di katsuobushi di tonno, poi un “dado” ghiacciato di sugo tradizionale di tonno, aglio, olio, peperoncino, capperi e prezzemolo viene grattugiato sulla pasta come una bottarga, insieme ad un trittico di ingredienti essiccati: uvetta sultanina, olive verdi, cucunci e capperi essiccati.

Alberto Cauzzi e il Broccolo e anice di Niko Romito

L’approccio al mondo vegetale, e conseguentemente sostenibile, è la nuova moda del decennio. Sembra che ormai non si possa parlare d’altro, della sostenibilità, della sconvenienza della proteina animale o ittica che sia, tanto che molti cuochi affrontano questo tema proprio perché attuale; perché la gente e tutto il movimento della comunicazione enogastronomica spinge in tal senso. E sebbene ci sia chi utilizza questo veicolo come semplice pretesto, c’è anche chi ne fa un punto di partenza: una leva per esplorare in maniera ancora più pervasiva e intensa il proprio talento e la propria ideologia di cucina, come Niko Romito. Non è un mistero, a questo proposito, che lo Chef del Reale affronti l’ingrediente da un punto di vista risolutamente inedito e personale. Da tempo immemore la sua concentrazione, la sua capacità di sviscerare tutte le peculiarità e le spigolature della materia, è il paradigma del suo stile culinario. Pensiamo all’Assoluto di cipolla, al Carciofo, alla Melanzana. Pensiamo alle laccature, alle concentrazioni di fondi vegetali, a lavorazioni che sono in pista, per il cuoco abruzzese, da molto più di un decennio. Questo piatto, in particolare, è l’elevazione di tutti gli studi compiuti sino ad ora, un binomio intenso e persistente quanto povero ed elementare. Cosa si può ottenere con una foglia di broccolo e anice? Una meraviglia!

Antonio Sgobba e le Lumache, peperone friggitello, origano, erbe soffiate di Mauro Uliassi

Lumache e friggitello un abbinamento azzeccatissimo di quel genio di Mauro Uliassi, un piatto giocato sui toni aciduli del vegetale che tiene a bada la terrosità della lumaca e al tempo stesso ne valorizza il sapore, senza ricorrere a un eccessivo aiuto dei grassi. Il sentore di origano e la consistenza delle verdure soffiate completano la sensazione di piacevolezza. Un piatto da applausi a scena aperta.

Orazio Vagnozzi e il Risotto al gorgonzola, ostriche e liquirizia di mare di Riccardo Monco alll’Enoteca Pinchiorri

Sobrio nella presentazione, concentrato ed equilibrato nel gusto. Squisito!

Fiorello Bianchi e la Verza, verza, verza di Michele Valotti a La Madia

Verza cotta nel grasso di pollo, emulsione, shiro koji e shiro miso sempre di verza con whisky torbato e burro affumicato, cavolo cappuccio fermentato per un piatto davvero emozionante per la complessità, originalità e intensità di gusto.

Giovanni Gagliardi e l’Indivia belga di Gaia Giordano da Spazio Milano

Indivia belga, mandarino tardivo e arachidi:  piatto di cottura impeccabile, in cui a rubare la scena è una crema di arachidi di eccellente equilibrio, accompagnata dal contrappunto agrumato del mandarino. Piatto superlativo che conferma la mano eccelsa della Chef nel trattare gli ingredienti di origine vegetale.   

Gianni Revello e lo Spaghetto al caffè, limoni di mare di Stefano Baiocco a Villa Feltrinelli

Perfetta crasi d’italianità: la pasta, il caffè, i frutti di mare.

Roberto Bentivegna e la Volaille de Bresse cotta intera in crosta di sale di Georges Blanc

È per piatti come questo che possiamo macinare centinaia di km, che spendiamo fortune alla ricerca dell’emozione più profonda. Cultura, storia, racconto: in questa preparazione c’è tutto. Da prenotare in anticipo e da provare almeno una volta nella vita. 

Leila Salimbeni e il Coniglio al mascarpone con spinacino e mele di Carlo Cracco e Luca Sacchi

Coniglio disossato, pressato e cotto a bassissima temperatura, impreziosito di cristalli di sale dolce, mascarpone, pinoli e spinacino e servito, da Carlo Cracco e Luca Sacchi, in Galleria, a una temperatura perfetta, fisiologica, a enfatizzare tutto il repertorio delle morbidezze. Un piatto che è manifesto dell’italianità più colta e più elegante a tavola, anche quando si serve degli ingredienti più agresti e frugali, serviti in una maniera quasi monastica.

Gianluca Montinaro e le Lumache di Cherasco ai porri di Cervere, mele renette e radici di Gian Piero Vivalda all’Antica Corona Reale

La cucina, oltre a parlare al palato, ha la capacità di parlare allo spirito. E quando in un piatto si intrecciano storie di luoghi e di persone, di affetti e di famiglia, di tradizione e di prospettiva, allora l’animo – almeno il mio – muove a trasporto. Il piacere di quella pietanza non si ferma alle quattro sensazioni, ma diventa poesia e trascende a quella «calma grandezza» di cui scriveva Johann J. Winckelmann. Ebbene, in questo 2022, il piatto che più mi ha commosso sono state le Lumache di Cherasco ai porri di Cervere, mele renette e radici, opera di Gian Piero Vivalda (ristorante Antica Corona Reale, Cervere). Una piccola ‘opera d’arte’ che un figlio ha dedicato a un padre che non c’è più. Che un uomo di cuore ha immaginato per raccontare la storia della propria famiglia. Che un grande cuoco ha ‘costruito’ con i prodotti della propria terra. Vera emozione!

Davide Bertellini e la Cassœula Oggi del Trussardi by Giancarlo Perbellini di Milano

Perché lo Chef ha saputo rivisitare in chiave contemporanea un piatto della tradizione milanese mantenendo intatto il gusto e la  concentrazione dei sapori ed elevando l’estetica.

Claudio Marin e gli Gnocchi di patate in brodo di buccia di patata e bergamotto, schie essiccate e fritte, timo e limone di Antonia Klugmann a L’Argine a Vencò

Un piatto di rara precisione ed eleganza, in cui colpiscono l’utilizzo inconsueto dello gnocco, la concentrazione e complessità del brodo – un esempio di come il no waste (spesso ridotto ad etichetta) possa tradursi in concretezza a servizio della preparazione – e la valorizzazione magistrale delle note sapide che compaiono a fine assaggio, a coronarne la perfezione. 

Adriana Blanc e il Colombaccio, salsa di artemisia, fave alla brace, liquirizia di Alex e Vittorio Manzoni all’Osteria degli Assonica

I fratelli Manzoni propongono una cucina che interpreta magistralmente il territorio. Una valorizzazione della materia prima a tutto tondo che, attraverso l’uso di lavorazioni rispettose del prodotto e di accostamenti audaci, porta in tavola piatti dai sapori sorprendentemente intensi e ben bilanciati. La carne del colombaccio è appena scottata, intrisa dei suoi succhi, ferrosa e potente. A fare da contrappunto vi è una balsamica salsa di artemisia, che unita alla dolcezza delle fave smussa ogni spigolatura e rivela un connubio di grande equilibrio e piacevolezza. 

Valerio De Cristofaro e la Trota fario, scaglie di ravanelli e mandorla fermentata di Giulio Gigli da UNE

Molto interessante l’accostamento fra la trota ed il fondo di ravanelli. Le mandorle fermentate incuriosiscono; la vera chicca è, però, la chips di pelle con lattume, tartufo nero e soprattutto acetosella. Quest’erba, perfettamente dosata trasforma il piatto. La sua nota rinfrescante la ricordiamo ancora con piacere… catartica. 

Erika Mantovan e il Risotto nascosto di Luigi Taglienti

Il Risotto nascosto di Luigi Taglienti copre il capriolo alla forchetta, e si completa con una salsa bianca e una polvere di caffè. La delicatezza non nasconde un’accelerazione dei gusti che appaiono come l’espressione di una manualità e di una tecnica al servizio degli ingredienti. Si raccontano i gusti primitivi e si rendono essenziali. Non importa il dove ma il come. La salsa resta lo strumento, la migliore connessione nei piatti, di questo Chef oggi all’IORistorante di Piacenza

Giacomo Bullo e i Tubetti al cavolo nero, stracciatella di canocchie e olive affumicate di Gianluca Gorini

In principio fu l’estrazione loprioriana, sintesi ed essenza estrapolabile dal singolo ingrediente. Poi, da San Piero in Bagno ad oggi, Gianluca Gorini con un singolo piatto a coniugare insieme il più bel mari e monti di questo 2022. Il profondo brodo di cavolo nero, nella sua austerità vegetale incontra il dolce stil gusto della canocchia, in polpa e nella sua proteica coagulazione dell’albumina in essa contenuta. Una stracciatella che non ha tradito la sua anima popolare: rifocillare nella sua (neo) golosa interpretazione. Stupire con una minestra? Con Gorini è possibile!  

Gianpietro Miolato e il Salmone e caffè di Alberto Basso

Ai Tre Quarti va in scena un piatto complesso, non certo accomodante ma assai intelligente. Acido, sapido, persistente, armonioso, un connubio capace di unire istanze non semplici in una forma accessibile e riconoscibile anche al commensale meno esperto. Chapeau.

Gherardo Averoldi e la Chimera di agnello e piccione, salsa alle olive nere di Kalamata di Alain Passard a l’Arpege

Alain Passard ha costruito la sua fama leggendaria soprattutto per la rivoluzione vegetale che ha coinvolto il suo ristorante, l’Arpege, dal 2001. Tuttavia non va dimenticata la sua maestria come rôetisseur, che trova uno dei suoi apici assoluti nelle così dette “chimere”, l’unione in un unico piatto e in un’unica cottura della carne di due differenti animali, i quali non sono solo giustapposti ma fisicamente uniti per creare una nuova e mitica creatura. La cottura è magistrale, la sensazione è quella di mangiare realmente un animale che non è più né piccione né agnello ma qualcosa di completamente nuovo, trasfigurato, il tutto accompagnato da un’eterea salsa alle olive nere di Kalamata e dalle splendide verdure dell’orto di Alain. Un piatto da pelle d’oca.

Marco Bovio e i Fagioli e Melone di Michele Vallotti a La Madia

Se la consapevolezza è rappresentata dai sapori acido e amaro, sono stato assolutamente consapevole di aver assaggiato il piatto più buono di quest’anno alla Trattoria la Madia dello Chef Michele Valotti. Il suo Fagioli e melone ti stende con un uppercut, il piacevole “fastidio” di un piatto della memoria, come una pasta e fagioli che si evolve in bocca grazie all’acidità del melone fermentato e la grassezza dell’olio al prezzemolo.

Giancarlo Saran e gli Gnocchi di patate con trippette di baccalà e ricotta affumicata di Mattia Barni da Alajmo Cortina

Mattia Barni è l’ennesimo talento valorizzato dalla premiata ditta Alajmo. Comasco di nascita ha fatto tutto un percorso all’interno della Maison. Calandre, Quadri, Marrakech. Ora hanno affidato a lui Alajmo Cortina. Intriganti gli gnocchi di patate al grano arso con trippette e gola di baccalà, salsa di ricotta affumicata. Ma il tocco malandrino è di un ingrediente non indicato nel menù, le lamelle fritte di porro che ti accompagnano nel girone dei golosi, ma ne vale la pena.

Vania Valentini e la Storia d’Amore di Fabio Vandelli all’Erbavoglio 

Trattasi di tortellini di pasta chiusa all’uovo dalle sfogline, con ripieno di orzo fermentato italiano biologico, anacardi, crema di Parmigiano Reggiano 24 mesi con certificazione di qualità. Semplicemente meravigliosi, saporiti, gustosissimi, forse più buoni degli originali. Parola di emiliana.

Un ristorante che conquista senza compiacere

Un talento puro, dotato di guizzi geniali: una descrizione ricorrente di Gianluca Gorini. Eppure, a ben vedere, l’innegabile estro del cuoco è solo una – seppur la più lampante – delle componenti  che fanno di “Da Gorini” un ristorante che conquista l’ospite. Infatti, la maturità ormai raggiunta si esprime – oltreché per il tramite di una cucina nitida, diretta e immediatamente riconoscibile – altresì attraverso un’offerta gastronomica originale, autentica, una felice commistione tra gli stilemi essenziali dell’alta ristorazione e il calore, nonché la compenetrazione con il territorio, propri delle migliori trattorie, un’influenza impressa nel DNA di famiglia.

In quest’ottica è impossibile non scorgere l’indissoluto legame con il dichiarato maestro, Paolo Lopriore, nonché il lascito della nostra storia culinaria, icone quali la mitica trattoria Cantarelli, capaci – attraverso un’affascinante commistione tra sacro e profano, tradizione e curiosità per il nuovo – di educare i palati di numerose generazioni. Un ruolo fondamentale è ricoperto da Sara Silvani, compagna di Gorini, straordinaria ambasciatrice delle creazioni del cuoco e abile come pochi nello “scorgere” i desideri e le inclinazioni di chi si siede alla tavola del ristorante. Il risultato ultimo è la bellezza di un luogo in cui ci si sente liberi di approcciare la cucina con leggerezza e divertimento, confrontandosi anche con piatti tutt’altro che semplici – rotondità eccessive e piacioneria qui non trovano spazio – senza quel pregiudizio o freno spesso indotti dalla soggezione che certi luoghi possono incutere.

Una cucina fatta di materia, contrasti e gesti

Il fulcro della cucina di Gianluca Gorini è la materia – di qualità fuori dall’ordinario – interpretata e valorizzata perlopiù attraverso la composizione di contrasti, l’utilizzo magistrale delle infinite sfumature dell’amaro e la gestualità, intesa come capacità del cuoco di intervenire – quando necessario – sull’ingrediente, talento quest’ultimo evidente soprattutto nelle cotture. Una conferma della sensibilità di cui si è detto è rappresentata da Tortello ripieno di mandorle amare, burro profumato al vermouth, albicocche acide e rosmarino, passaggio che sorprende per la capacità di individuare un perfetto equilibrio tra note amare, dolcezza, grassezza, la complessa aromaticità del vermouth, acidità e balsamicità: ogni singolo ingrediente è percepibile al palato, in una sequenza serrata e precisa. Una meraviglia è, poi, Trippa stufata con birra bitter, cervello poché, vongole e salsa alla marinara, con la sapidità della salsa a controbilanciare le note amare della trippa e le cervella a pulire il palato nonché a duettare, in termini di testura, con le interiora. Un piatto in cui il binomio mare-selva raggiunge un raro livello di sofisticatezza. In Spaghettone mantecato con pesto di montagna, crema di patate ed ostrica al naturale colpisce, invece, il felice accostamento tra le note balsamiche della resina di cipresso e l’ostrica, ingentilita dal rapidissimo passaggio in acqua bollente, tecnica presa a prestito dall’amico Mauro Uliassi (vedi “Insalata di ostrica, pesto di rucola, rucola, limone, borragine” del Lab 2022).

Ma Gorini è, poi, incredibilmente abile nella preparazione delle carni, come dimostra l’agnello in tre servizi (allevato da un artigiano straordinario, Michele Varvara), in cui il boccone cotto sui carboni eccelle in termini di cottura – maillard e la conservazione dei succhi da manuale – nonché di valorizzazione della proteina attraverso l’utilizzo di ingredienti vegetali, battuto di pomodori e olive affumicate, decisivi nell’elevare la complessità gustativa.

Da ultimo, non si può fare a meno di citare l’originalità dei pre-dessert, in questo caso Rognone di agnello, panna e fragole: ci si attende uno schiaffo e invece arriva una carezza, un binomio “anni ottanta” capace di levigare le asperità del rognone, un assaggio in cui – sulla lunghezza – prevale una dolcezza misurata, perfetta introduzione al fine pasto che, tuttavia, risulta quasi superfluo.

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Parafrasando il detto, a dire il vero in un’accezione poco piacevole, “il riso abbonda nella bocca degli stolti“, propenderemmo per coniarne uno di nuovo, adeguato agli appassionati gourmet: “il riso abbonda nella bocca dei gourmet“.

Eh, sì, perché il riso, o il risotto, è certamente diventato, soprattutto in Italia, un piatto decisamente gourmet. Erroneamente considerato più elegante e più fine di una pasta, in realtà rispetto a quest’ultima ha l’indubbio vantaggio di poter essere interpretato come una tela su cui dipingere mirabolanti quadri d’autore, più che piatti di alta cucina. Che poi, come si sa, il confine è decisamente labile tra i due paragoni.

E precisamente questo confine tra arte e piatto, ormai a qualsiasi latitudine dell’italico Stivale, ritroviamo. Tanti sono, infatti, i risi d’autore del centro-sud: Niko Romito, Gennaro Esposito, finanche Luca Abruzzino hanno creato mirabolanti risotti decisamente importanti e profondi.

L’ultimo, ma non per importanza, è quello di Gianluca Gorini, che continua a stupirci con i suoi giochi sulle nuance dell’amaro di cui sicuramente è uno dei massimi esponenti d’Italia. Un riso che parte da un seme poco conosciuto, il Sant’Andrea, che è in questo caso prodotto da una azienda giovane ma molto dinamica e interessante, Terre Alte di Villarboit, cotto in acqua di vongole, mantecato con olio di Oliva, terminato con dragoncello, limone salato in pasta, origano e polvere di olive nere essiccate e affumicate.

Un tripudio di acido, amaro, quasi iodato-fenico (ricorda la bottarga l’abbinamento limone-origano-acqua di vongole) dalla lunghezza e derive aromatiche decisamente intriganti e persistenti. Un riso non convenzionale, che grazie al punto di cottura al ferro, perfetto, e alla cedevolezza dell’amido della tipologia di riso consente una mantecatura con pochi grassi, che però rimangono evidenti al palato nella loro aromaticità. Un riso da provare che, secondo noi, diventerà un signature dish di Gianluca Gorini, grande talento italiano in cucina.

A casa di Gianluca

Balsamica. Pungente. Polifonica. Cromatica. Basterebbero questi quattro aggettivi per definire la cucina che Gianluca Gorini propone nel suo ristorante daGorini (sì, scritto proprio così, tutto attaccato). Basterebbero, e sarebbero apparentemente sufficienti per passare ad altro: a tracciare, per esempio, un ritratto dei singoli piatti. O a descrivere il calore degli ambienti. O a soffermarsi sull’atmosfera del locale… Eppure, dietro quell’errore di spaziatura che un proto avrebbe corretto con solerzia, si cela una valida chiave per tentare una disamina più complessa di un’esperienza ai tavoli di questo locale che, indubbiamente, spicca per personalità nel panorama di vertice della nostra italica ristorazione.

Perché, quindi, daGorini e non da Gorini? Cosa cela questa effrazione alla consuetudine grammatica? Il «da» segnala, secondo usi secolari che potrebbero essere codificati in un ipotetico vocabolario storico della ristorazione, una ‘sosta’. Una ‘sosta’ presso ‘qualcuno’ – in questo caso «Gorini» – che è il gestore o il proprietario dell’insegna. Un calore di casa, quindi, anima questi luoghi e, all’ospite, non resta che varcare la porta o, metaforicamente, il vuoto ‘spazio tipografico’ fra il «da» e il ‘nome’ di turno per ristorarsi e riposarsi dalle fatiche del viaggio e della vita.

La scelta fatta da Gianluca Gorini è, invece, altra, e non dettata né da iconoclastia futurista verso le regole e i dettami né tantomeno in spregio al viandante. E non potrebbe essere altrimenti, visto che quei battenti per decenni hanno attraversato persone che giungevano anche da molto lontano per gustare i piatti che lì, proprio lì dove ora c’è daGorini, Giuliana e Moreno Saragoni proponevano in quella che un tempo era la loro Locanda del Gambero rosso, tempio indiscusso di ospitalità e civiltà.

«Questo è il luogo dove ho scelto di vivere e lavorare, con mia moglie e mio figlio», dice con sicurezza Gianluca Gorini. E, difatti, daGorini, calore umano e senso dell’accoglienza traboccano di stanza in stanza, avvolgendo l’ospite, tanto l’abituale quanto il saltuario, in una bella atmosfera di pace e convivialità. Un sentimento ulteriormente rafforzato dalla cortesia del servizio e da tutte quelle altre accortezze (come una bella carta dei vini, qui peraltro assai personale) che concorrono a rendere ‘grande’ una sosta.

Come interpretare, quindi, quello ‘spazio’ mancante che sembra ‘chiudere’ invece di ‘aprire’? La risposta può arrivare considerando la garbata timidezza di Gianluca, riflesso della sua profonda introspezione: nel suo ‘donarsi con ritrosia’ a chi giunge alla sua porta, proponendo il meglio della propria cucina. Quest’ultima è il precipitato del suo carattere: salda ma gentile, complessa ma comprensibile, sensibile ma razionale, emozionante ma rigorosa, impetuosa ma pacata. All’ospite, se davvero vuole goderne, è pertanto richiesto un piccolo sforzo, un po’ superiore rispetto al semplice, facile attraversamento di uno spazio ‘già’ vuoto. La soglia fra «da» e «Gorini» subito si squarcerà se solo ci si metterà ‘in sintonia’ con lo spirito della casa, cogliendone l’animo, rispettandone la sensibilità e aprendo la mente al piacere dell’esperienza.

daGorini: un grande futuro, ora e domani

daGorini non ci sono provocazioni né rivoluzioni, anzi. Il dettato gastronomico rimane, nella sua base classica e d’alta codificazione, intoccabile. Così, per esempio, l’animella di vitello è croustillant comme il faut e la sfoglia del cappelletto (siamo in Romagna: qui i tortellini non esistono) è tirata come azdora (massaia) comanda. Ma ciò che arriva in tavola è ‘altro’ rispetto a un rassicurante e opulento ris de veau in stile vecchio tre stelle francese o agli abituali cappelletti in brodo di cappone.

La nota ‘difforme’, che è poi la cifra stilistica daGorini risiede nella magistrale orchestrazione polifonica (e, si badi bene, non sinfonica) di molteplici sensazioni gusto-olfattive che virano i piatti su accenti fortemente balsamici, amari, acidi e piccanti. Se, quindi, la cornice rimane ‘consueta’, così come lo sono anche i soggetti principali delle composizioni, a scompaginare la notazione è l’ampio uso di erbe, radici, cortecce, spezie, semi, agrumi e fiori. Aromi e profumi presenti nelle pietanze tanto nella loro singola essenzialità quanto rielaborati, come – per esempio – nei casi dei «sassolini» di bitter che si ritrovano nel gambero rosa marinato in salsa ponzu con salsa del suo carapace, dragoncello e carpaccio di cocomero disidratato o dei vermut bianchi e rossi che fanno capolino, rispettivamente, nei cappelletti ripieni di cacciagione con composta di pesca acerba e fiori di gelsomino e nel semifreddo al raviggiolo con amarene sciroppate e croccante alle noci.

Il risultato è duplice: da un lato cornici e soggetti appagano a livello di centralità del gusto e piacevolezza complessiva. Dall’altro le difformità tengono allerta la bocca sfuggendo facili rotondità. D’altronde è lo stesso cuoco, in apertura della sequenza, a dichiararlo senza infingimenti, servendo una ‘rossissima’ minestra di frutta e verdura (cocomero, susina, lampone, ciliegia, cavolfiore, ravanello, scalogno…) in diverse lavorazioni (a freddo, marinate, fermentate, ecc.) e consistenze, con estratto di susine alla verbena e bottarga: «Questo piatto serve a risvegliare le papille gustative».

Da questa scarica percettiva, che apre lo spazio fra il «da» e «Gorini», il percorso è poi tutto ‘in discesa’: fra rosse e verdi – le pietanze si susseguono da un erbaceo risotto al finocchio con estratto di camomilla e pasta di limone (con la nota della clorofilla in primo piano) a quella animella con sedano croccante, insalatina di rucola e acetosella e fiocchi di canapa sino a un complesso e appagante filetto di trota alla brace ripassato in aglio, olio e peperoncino, con insalata di melone e carota, semi e mandarino piccante, e la sua pelle croccante.

Le reiterate pungenze, variamente declinate che, quasi, non forniscono tregua al palato, appaiono smorzate solo in due casi, quasi due tappe ‘defaticanti’. Dal grasso distendersi delle lumache gratinate al verde (con la loro consistenza ‘cremosa’ ma comunque vivificata da un magistrale pesto di cipresso) con pancetta croccante e foglie verdi e dalla succulenza di un agnello di eccelsa qualità proposto in più servizi (costoletta cotta sui carboni con miso d’orzo, salsa all’aglio dolce e timo; spiedino ripieno delle sue interiora con cumino e paprica; pancia brasata; spiedino di lingua; il tutto accompagnato da «contorni all’italiana»: cipolline sottaceto con polvere d’alloro; millefoglie di patate croccanti e fondenti; funghi galletti saltati).

In chiusura si vira di nuovo sul ‘rosso’: Fucsia, ovvero zuppetta di rabarbaro al gin con crema di mandorle armelline e sorbetto di lamponi, come a ricordare che il viaggio si conclude costantemente da dove si è partiti, ma sempre con una maggiore consapevolezza e una maggiore conoscenza.

Consapevolezza e conoscenza che Gorini, trentotto anni appena, dimostra di acquisire ogni giorno di più, e che probabilmente porteranno la sua ricerca verso traguardi ancora maggiori. Dire che direzione imboccherà è, forse, al momento un azzardo, ma lo studio che Gianluca sta compiendo sui tanti prodotti di questo territorio incuneato fra Romagna, Marche e Toscana, un abbozzo di percorso pare già lo stia tracciando. Un sentiero che potrebbe dipanarsi sulla falsariga di quello di altri cuochi – ora nell’empireo della ristorazione – che, dopo aver tanto sperimentato e dopo essersi rapportati con mode e modi anche assai lontani, si sono rivolti alla loro terra e alle loro tradizioni (Massimo Bottura, Norbert Niederkofler, Ciccio Sultano et Mauro Uliassi docent), rielaborando la prima e riempiendo di nuova linfa la seconda, alla luce di una gioiosa contemporaneità.

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Il caffè è da sempre utilizzato prevalentemente come una bevanda, con il suo effetto stimolante, che dà inizio alla giornata di milioni di persone in tutto il mondo. Sempre sotto forma di bevanda è utilizzato come fine pasto e come collaterale al pasto stesso. La sua degustazione è una vera e propria arte, tanto che ci è sembrato doveroso tracciare un parallelismo con il mondo del vino e approfondire per intero la filiera, a partire dalle piantagioni in cui si coltivano le Cru de Le Piantagioni del Caffè, ormai nostro punto di riferimento in termini di qualità.

Ma fondamentalmente, sia nella sua forma non tostata – verde – ma anche e soprattutto tostato, è un incredibile e versatile ingrediente che si presta ad essere abbinato a molteplici altri ingredienti ed è utile se non fondamentale nella conclusione del cerchio gustativo di un piatto. Le diverse tostature, ad esempio, regalano aromatiche più o meno intense con sfumature di nocciola, vaniglia, cannella che si comportano come una vera e propria spezia, utile alla conduzione ed esaltazione del gusto di ingredienti principali come la carne, la selvaggina e i funghi.

Il caffè come una spezia

Ma anche nelle preparazioni ittiche, magari utilizzando una tostatura più tendente al verde, la “spezia” riveste un ruolo molto interessante. Pensiamo ad un pesce di fondale come la cernia, grassa e consistente, che con una polvere a basso grado di tostatura può avere risvolti interessanti al pari se non superiori all’utilizzo di un pepe. Aromatiche nuove, quasi spiazzanti, per persistenza e lunghezza gustativa espressa. L’aumento di intensità gustativa, donata dalle derive del nostro protagonista, e l’allungamento dei ritorni aromatici del pesce possono portare ad un risultato che, se abbinato ad un carciofo o meglio ancora ad un fungo, ha del sorprendente.

Carlo Cracco e il suo crudo di dentice

Uno dei cuochi, a nostra memoria, che da tempo immemore lo utilizza come spezia e di riflesso come conduttore gustativo è Carlo Cracco. Ricordiamo ancora un crudo di dentice, capesante, lime e caffè che sorprendeva per il risultato gustativo. L’amaro-acido del lime è un connubio formidabile.

Un altro ricordo interessante di applicazione, qui nella sua forma non tostata, è quello che ci presentò lo chef spagnolo Josean Alija nel suo ristorante Nerua di Bilbao. Carciofo, caffè verde, fondo di jamón ibérico ed erbe aromatiche. Anche qui la grassezza del fondo, in abbinamento con la consistenza e il sapore intenso del carciofo, trovavano la chiusura gustativa con l’estratto di caffè verde che riverbera note vegetali molto intense e speziate, in cui la componente che emerge in maniera eclatante è sostenuta dalle erbe aromatiche in abbinamento.

Massimo Bottura e il camouflage

Massimo bottura, in uno dei suoi piatti simbolo, il camouflage, lo utilizza come spezia, annegato in una miriade di altri ingredienti. Però l’evidenza di quanto il gusto si distenda grazie a questo incredibile tocco è palese a tutti quelli che lo hanno assaggiato.

Il mondo dei dessert

La forma di utilizzo più immediata, a memoria, risulta essere l’applicazione nel comparto dolce. Ma come abbiamo evidenziato con gli esempi precedenti anche il comparto salato ne può beneficiare in maniera significativa. Ciò detto dal tiramisù a sorbetti e bavaresi, molteplici sono gli esempi di dolci, anche della tradizione, con una forte connotazione di questo versatile ingrediente.

Stefano Baiocco lo abbina con il cappero

Non mancano anche qui però riferimenti illustri di innovazione, come nello splendido Cappero, caffè e maggiorana di Stefano Baiocco, che a sua volta rimanda a una preparazione del grande Massimiliano Alajmo, altro cuoco che lo usa spesso, spessissimo in qualità di spezia.

Ecco quindi che l’attenzione verso l’impiego del suddetto, meglio se di grande qualità come quello de Le Piantagioni del Caffè, come spezia o come ingrediente, può aprire le porte ad abbinamenti innovativi, performanti e decisamente originali.

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