Il ristorante Balzi Rossi e la famiglia Beglia. Una storia di successo nata nel 1982 e che, in breve tempo, vide il ristorante salire nell’empireo della ristorazione italiana. Due stelle Michelin, un grande successo di pubblico e la consacrazione, ai fornelli, della bravissima Pina Beglia.
Poi le difficoltà, il disimpegno dei Beglia che ne abbandonano la gestione, l’oblio, fino alla chiusura.
Quindi il cambio di proprietà -che oggi parla russo- che ne ha permesso un anno fa la riapertura.
Il tempo di un’integrale ristrutturazione ed il Balzi Rossi ha riaperto con uno staff nuovo ma, intelligentemente, senza rinunciare all’esperienza dei Beglia che questo posto lo amano e lo conoscono come nessun altro.
Sotto la supervisione dell’inossidabile Pina Beglia, la sala è il regno della figlia Rita e del marito, l’estroso e simpaticissimo Franco Baracca, che gestisce con padronanza una carta dei vini interessante.
In cucina, si è deciso di puntare sul trentenne Enrico Marmo: cuoco langarolo, con importanti esperienze da Cracco (periodo Baronetto) e soprattutto da Davide Palluda, di cui è stato per cinque anni sous-chef. E così il cerchio si chiude, dal momento che lo stesso Palluda era stato a sua volta allievo di Pina Beglia.
La location è da sogno. Una terrazza a picco sul mare, a pochi metri dal confine francese. Di fronte, lo splendore di Mentone e Cap Martin. Si mangia in un’atmosfera magica -ed estremamente romantica- cullati dal suono delle onde che si infrangono sulla scogliera.
In Carta, qualche omaggio al glorioso tempo che fu in piatti come “I classici plin della Pina” e “La retata di mare”, l’immortale insalata di mare creata da Pina; per il resto carta bianca al giovane Marmo ed alla sua idea di cucina. Cucina di mercato, che guarda al territorio e si rifornisce dai piccoli produttori della zona. Moderna e classica al tempo stesso, attenta a non strafare.
Cucina essenzialmente di ortaggi e prodotti ittici, di profumi di mare e di orto. Materica, pulita, minimalista ma che non rinuncia affatto al gusto. Piatti freschi, materie prime eccellenti e sapori mai forti, anzi a volte fin troppo sussurrati. Interessante la consistenza del branzino, susine, salicornia, rucola e citronette ai semi di senape e la freschezza del carpaccio di pomodoro marmanda, bottarga, maionese al limone e cereali, piatto anche esteticamente molto accattivante, ma dal quale ti aspetteresti maggiore concentrazione di sapori.
Lo chef, dopo un inizio più lento, doveroso per ritornare ai fasti di un tempo, sta a poco a poco definendo la sua linea di cucina. Fatta di estrema immediatezza, di frigoriferi vuoti ad ogni fine servizio, di improvvisazione ragionata. Da un talento così cristallino, racchiuso in un corpo da uomo fatto e finito, con una sensibilità e sottigliezza così elegante a far da contrasto nel suo io più profondo. E i piatti rispecchiano questa dicotomia: belli, avvincenti, profondi ma sottili, esili, eleganti.
A questo punto, per spiccare il volo definitivo, ci aspettiamo qualche colpo di classe maggiore, qualche spinta verso sapori più decisi e intensi. Il piatto scampo cotto nel sugo di crostacei, cavolo viola all’aceto di mele e oxalis è paradigmatico in tal senso. Scampi lievemente ripassati nel burro (quando ci vuole ci vuole!) che vengono con classe avvolti da cavolo viola e oxalis. Qui l’equilibrio è tutto, come in tantissimi altri piatti di Marmo. Magari il lavoro di spinta e rifinitura può essere fatto nel suo menù a mano libera, recentemente introdotto. Lasciando alla clientela internazionale e non, a questo punto, i piatti più rassicuranti, rotondi e orizzontali, seppur ugualmente e incontestabilmente buoni.
Abbiamo pochi dubbi sul fatto che Enrico Marmo prospetticamente possa fare molto di più, ragione per cui Balzi Rossi è, già oggi, uno dei ristoranti italiani da seguire con particolare attenzione.
Nel 1979 Roland Gauthier a Madeleine-Sous-Montreuil, minuscola frazione di Montreuil nel Pas de Calais, apre il suo ristorante dopo costruttiva e laboriosa gavetta, acquisendo in breve tempo fama e apprezzamenti con piatti che è possibile attualmente assaggiare all’Anecdote, il bistrot dei Gauthier aperto da poco nel cuore della cittadina.
Ma lo stesso anno è il millesimo di nascita di suo figlio Alexandre che, unitosi al padre nel 2003, anch’egli dopo il suo bravo apprendistato da chef come Regis Marcon, Michel Roth e Gregory Coutanceau, ha lanciato il ristorante in un’orbita che ha ormai nettamente travalicato le dimensioni nazionali.
Non si può parlare della Grenouillere senza far riferimento alla perfetta comunione, anzi, alla vera e propria mimesi con la natura che circonda per ogni dove il ristorante.
La strada che porta da Montreuil a La Madeleine si perde letteralmente in essa e quando si giunge a destinazione si fatica quasi a scorgere il locale, tanto esso è incastonato nell’ambiente che lo avvolge e tanto gli edifici che ne compongono il Relais sono in tutto simili a quelli che ospitano le case dei dintorni.
L’interno invece, progettato nel 2011 insieme all’architetto Patrick Bouchain, lo stesso del troisgrosiano “La colline du Colombier”, disattende in modo sorprendente la bucolicità del tutto.
Una sala ampia, spoglia, dove metallo e vetro, diffusamente distribuiti, donano quei toni algidi, quasi spiazzanti, il cui contrasto è rappresentato da una fucina perennemente accesa al centro della sala, dalla grande cucina a vista situata, senza soluzione di continuità, in un angolo del perimetro e dalla placida vista del curatissimo giardino dal quale fanno capolino, ben nascosti, i bungalow che rappresentano le esclusive camere della risorsa.
Tale essenzialità sembra essere stata studiata apposta per concedere tutta l’attenzione possibile alla cucina dove, a sua volta, la celebrazione del territorio e dei prodotti che la florida natura offre attraverso i più disparati modi di interpretarli è chiaramente il proposito che Alexandre Gaulthier si è prefissato.
La conoscenza certosina degli ingredienti adoperati, unita a sensibilità e padronanza tecnica di prim’ordine, sono gli strumenti che rendono la sua cucina vigorosa, solo apparentemente poco sofisticata e capace di un’assoluta esaltazione del gusto.
La grande classicità francese rappresenta evidentemente l’abbecedario dello chef, quel leitmotiv profondamente e saldamente radicato nel suo bagaglio culturale; come potrebbe essere diversamente, del resto, vista l’educazione acquisita e l’esempio paterno?
L’indubbia abilità non si manifesta però, semplicemente, attraverso la disciplinata applicazione di conoscenze maturate nel corso degli anni.
L’homard genièvre fornisce esempio assai significativo in tal senso: la splendida cottura del crostaceo non risolve in sé il piatto attraverso la propria eventuale riproposizione, magari insieme a pochi e semplici elementi di contorno; ne fornisce piuttosto lo slancio iniziale grazie a un’affumicatura scenografica ma essenziale del cespuglio di mirto, portato al tavolo ancora fumante, le cui note balsamiche rappresentano a tutti gli effetti il vero e proprio ingrediente che completa il formidabile piatto.
Ancora la dolcezza della zucca che in forma cremosa accompagna l’eglefino, vero e proprio sparring partner, si alterna felicemente ad agrumate nuances il cui filo conduttore è il grasso di un essenziale filo di burro.
Ecco: le salse, vera cartina di tornasole di un grande chef.
Vedere per credere quella che accompagna la grenouille, versione meunière, altro esempio di minuziosa abilità artigianale applicata. Acido e grasso equilibrati in una persistenza lunghissima o, ancora, quella che accompagna la carcassa, quasi gore, del piccione. Gioia gastronomica pura.
Ma anche con quelle vegetali non si scherza: la barbabietola che nappa la spigola è in perfetta acrobazia con l’aspro dell’aceto balsamico e la parte più rotonda rappresentata dai broccoli; anche in questo caso la spigola fornisce un mero substrato per una pietanza che è un esercizio di virtuoso bilanciamento.
Non fosse per un inizio e una fine, pur nella loro coerenza con tutto il pasto, non al livello eccellente della parte centrale si potrebbe tranquillamente parlare di una delle primissime tavole europee.
Cionondimeno la Grenouillere si qualifica con autorevolezza come uno di quegli indirizzi assolutamente da non perdere.
Mise en place.
Mimoulette.
Spiedino di fegato di merluzzo.
Tuile con cavolfiore e dragoncello.
Tapioca con uova di aringa affumicate.
Gamberetti… acrobatici.
Uova di quaglia in polvere di barbabietola.
Servizio del pane: di segale e bianco. Squisito.
Scampi con mela marinata.
Cannolicchio con albume affumicato.
Spigola con barbabietola, caviale di aceto balsamico, sabbia di broccoli.
Eglefino, zucca e agrumi.
Merluzzo saltato nel burro, bietola, mirepoix di pere, pane bruciato.
Pollo… arrosto ( un concentrato di pollo).
“Homard genievre”: un’aragosta magnificamente affumicata al ginepro portata al tavolo ancora fumante.
Grenouille meunière…
…e il suo tegame.
Fungo ostrica e trombetta dei morti, noci e sedano rapa.
Supreme di piccione…
…le sue cosce…
…e la carcassa, col formidabile intingolo.
Le coerenti brioches per godere appieno di tutto.
Direttamente dal favo, ecco il miele…
…servito con qualche goccia di limone.
Acini d’uva, il loro gel e foglie di Oxalys.
Sorbetto di more e variazione di melassa.
Cacao grand cru, mandorle, crema alla vaniglia e…
…goccia d’aceto.
Cioccolato bianco e mela.
Macaron alla menta.
Per esordire.
Un gran bel Chenin a tutto pasto.
La cucina.
Particolare della sala.
La mise en place.
La sala vista dall’esterno.
Parte del giardino.
Immediati dintorni del ristorante.
La Grenouillere…
Stimolati dalla stringata ma come sempre affidabile segnalazione del buon Luigi Cremona, e stuzzicati non poco dalle fotografie che abbiamo visto sul suo blog, ci siamo precipitati qui, a Desenzano. Arrivati in anticipo, una sera di fine estate, abbiamo ripiegato per un aperitivo al vicino Leprotto, il bistrot di famiglia con l’entrata di fianco al ristorante.
Bello scoprire in un posto come questo, che grazie alle frotte di turisti che assediano la cittadina non ne avrebbe affatto bisogno, un concentrato di competenza, passione, gioia di fare il proprio mestiere e tanta, ma davvero tanta, divertente e piacevole giocosità.
Ci accoglie una giovanissima ragazza, che ci mette cinque minuti secchi ad inquadrare degli appassionati, mettendoci nel calice per l’aperitivo un Cremant biodinamico di Borgogna. Un po’ sgasato, un po’ imperfetto… ma con grande fascino e charme, per un Cremant s’intende.
Bello davvero scambiare due chiacchiere con questa giovane entusiasta, che ci racconta delle sue scorribande enologiche alla scoperta di chicche tra le più estreme che si possano immaginare.
Questa è l’aria che sin da subito abbiamo respirato alla Lepre. Nome assai impegnativo, che metteremo certamente alla prova. Con cosa? Bien sûr, Lièvre à la Royale, parbleu!
Perchè il giovane cuoco, Roberto Stefani, vanta trascorsi da Marchesi e da Guida. E forse anche qualche puntantina oltralpe lo deve avere formato a dovere. Lo chef ha manico, una mano elegante da Saucier davvero invidiabile. Una serie di tocchi che ci hanno fatto volare direttamente alla Ville Lumière, come quell’indivia cotta in un boullion che da solo parlava, e poi ripassata alla plancia per rilevarne gli zuccheri, come direbbe qualche cuoco famoso.
Bravo davvero lo chef, che con mano decisa ci ha proposto una serie di preparazioni, ad un prezzo encomiabile (menù degustazione di 6 portate a 59 euro) e di qualità eccelsa.
Ma quindi, manca qualcosa? La risposta è che ci aspettiamo, da un talento tanto pulito e cristallino, qualche azzardo in più. Magari non come quello spada, culatello, crescione e melone, molto confusion e poco fusion.
Belle, centrate e coerenti le altre preparazioni, con una mano sensibile, lo ripetiamo, sulle salse e sui fondi. Ma leviamo quei rametti tutti uguali, lasciamoci l’insicurezza alle spalle, perché il cuoco ha una padronanza che deve lasciar scorrere.
La vostra serata trascorrerà nel migliore dei modi anche grazie a Walter Viganò, che in sala vi delizierà con la sua classe nonché la sua elegante e dimessa presenza. Cantina interessante, molto indirizzata verso il naturale e la biodinamica, ad un prezzo competitivo.
Dunque andate di corsa alla Lepre, senza alcuna esitazione, e incoraggiate questo gruppo di giovani ragazzi che promettono davvero tanto e bene!
Amuse bouche: tartare di salmone e panna acida.
L’ottimo pane, accompagnato da burro di qualità.
Il nostro eccellente, ed ancora in forma, compagno di viaggio.
Gamberi, tartufo, yogurt, pesca. Interlocutorio.
Capasanta, yuzu, prezzemolo, ricotta e macedonia di frutta. La salsa, ah mon dieu!
Raviolo aperto, con una elegante bisque tirata alla francese con un filo di panna (ma che salsa!) ai frutti di mare e crostacei. Il pomodorino? Inutile, pleonastico.
Spada, dalla cottura perfetta, accompagnato da culatello, gel di aperol, melone e salsa al prezzemolo. Bocciato!
Anatra, cotta perfettamente (ça va sans dire), con salsa al carcadè, un eccellente purè, e un’indivia stupenda. Peccato per quel germoglio, nuovamente caduto sul piatto.
Tortino caldo al cioccolato, cocco, terra di cacao e punti di frutta.
La piccola pasticceria.
Il leprotto… andateci!
E’ senz’altro vero che a Lione si mangia benissimo. La città offre di tutto, dai bouchon di qualità all’alta ristorazione, tutta francese o ibridata in varie salse, compresa quella giapponese degli eccellenti Takao Takano e Au 14 Février.
Se proprio bisognava trovare un difetto a questa offerta era l’assenza di un battitore libero, di qualcuno capace di spiazzare anche il gastronomo più navigato con un’idea di cucina inedita.
In realtà, per qualche tempo pare che questo si fosse già visto al 126, la prima avventura in città di Matthieu Rostaing-Tayard; avventura durata circa 3 anni di grande successo, e finita perché l’inquieto chef aveva voglia di girare il mondo. E l’ha fatto davvero: dal Nepal al Giappone, al Perù, dal Canada all’Italia, in particolare a Modena nella cucina di Massimo Bottura.
Oggi, a 34 anni, in un locale bello, di scabra e magari non originalissima eleganza nordica, tutto questo bagaglio di esperienze, insieme a una personalità davvero fuori dal comune, si riassumono in una carta molto corta ma piena di stimoli.
E’ davvero raro trovare, sotto i titoli apparentemente neutri dei piatti (Rostaing-Tayard è tutt’altro che un esibizionista), tanta originalità di abbinamenti, tecniche, consistenze.
In un menu pieno di virgole -i piatti sono una mera elencazione di ingredienti- molte pietanze fanno mettere a voi il punto esclamativo, alla fine, preceduto sempre da qualche punto di domanda.
Citazione d’obbligo come piatto più spiazzante per la melanzana poché, con tartare d’agnello, lamponi, menta, rabarbaro e coriandolo, che è tutta uno spigolo; e come più entusiasmante per il siero di latte con prugnoli, mandorle fresche e liquirizia, che non sfigurerebbe da Redzepi ma che in realtà riassume questa specifica idea di cucina.
In cui non esistono separazioni nette fra dolce e salato, caldo e freddo, in cui l’acidità non è usata per contrastare o alleggerire ma proprio per sferzare, in cui la materia prima emerge in forma anche brutale.
Carta dei vini corta ma molto pensata e coerente con la cucina, con la possibilità di bere al bicchiere o anche di ordinare alcune cose interessanti sfuse a mezzo litro (per noi l’ottimo Anjou Mozaik di Pithon-Paille).
Servizio sorridente di chi è platealmente entusiasta di partecipare all’avventura ed affiancare uno chef la cui tensione è evidente nel piatto, come nello sguardo che rivolge spesso, curioso e preoccupato, alla sala.
Una tappa davvero da non perdere, in una città che non ci stancheremo mai di consigliare a tutti.
Stuzzichini, impeccabili benché serviti trenta secondi dopo il vostro arrivo.
Per amuse bouche, fagiolini bianchi con uovo e albicocca, Un tromp l’oeil (l’uovo è quello grattuggiato, l’albicocca è sul fondo) che lascia intuire molto.
Calamari, grigliati, pomodori, salicornia, ribes, parmigiano, olive nere, origano. Estivo, fresco, con ruolo centrale dato alle consistenze turgide di calamari e pomodori, eccellenti
La melanzana di cui sopra.
Il piatto più classico: manzo dell’Aubrac, patate novelle, gallinacci, nocciole fresche ed erbe selvatiche. Tecnica da manuale.
Tonno bianco, mais, finocchio, cozze, burro al peperoncino, “radis serpent”, bottarga e limone. Il tonno è mera texture in un piatto che vede nella componente vegetale la protagonista. Sorprendente è dire poco.
Basilico, peperoni piquillo, more. Il solo piatto in cui il titolo fa pensare a una pietanza più spiazzante di quanto non sia. Comunque molto ben eseguito.
Il petit-lait con prugnoli, mandorle e liquirizia.
Parlare della Maison Decoret ci porta necessariamente a concentrarci sulla comunicazione enogastronomica, non solo italiana, di questi tempi e a intristirci un po’.
Chi sia lo chef, su queste pagine lo abbiamo raccontato più volte: Meilleur Ouvrier de France vent’anni fa, allievo dei più grandi della generazione precedente (Passard, Troisgros, Marcon), era considerato quindici anni fa una delle stelle nascenti più luminose.
Cosa è successo da allora?
E’ successo che, mentre Decoret apriva prima un piccolo locale e poi questa bellissima casa (affiliata alla catena Relais & Chateaux) in una delle piazze più belle di Vichy, creando un’impresa di successo e dispensando una cucina originalissima, di grande tecnica, di rara precisione, spariva dai radar della critica, più interessata a nuove frontiere gastronomiche, a cuochi-personaggi che facciano parlare di sé al di là del piatto.
Nulla di “tecnico” può spiegare perché una tappa qui non sia al centro dei progetti di viaggio dei gourmet europei: Vichy è facilmente raggiungibile, oltre alle bellissime stanze della Maison ci sono affascinanti alberghi non cari in città e, soprattutto, Jacques Decoret cucina da dio.
Eppure di altri, nemmeno lontanamente paragonabili al suo talento, si parla infinitamente più di lui su giornali e classifiche.
Messe da parte le considerazioni malinconiche, resta la felicità dell’esperienza culinaria, che siamo tornati a godere dopo qualche anno per vedere confermato il nostro grande apprezzamento per il cuoco e per l’offerta del ristorante in generale.
Il menu “confiance”, che lascia mano libera per una cifra davvero ragionevole, fa vivere tre ore di alta cucina contemporanea, in cui la grande tecnica classica si apre al mondo in maniera personalissima, fondendo memoria, fantasie esotiche, straordinaria materia prima principalmente territoriale.
Dagli originalissimi amuse bouche, ad entrée sofisticate che spaziano dalla ipercomplessità di piatti con moltissimi ingredienti (es: la trota con gamberi di fiume, consommé di pomodoro, uova di salmone, rapa, senape) a portate in sottrazione (gamberone appena caramellato con crumble di nocciola e cavolfiore), per arrivare ai main dish di straordinaria fattura.
Ne citiamo uno, la splendida pancetta “snacké” con yogurt e cipolla, che è un ricordo d’infanzia “rustico” ma delizioso (e torna in mente un altro “orso” della cucina contemporanea, quel Matt Dhalgren che al Matsalen osa come Decoret piatti ruvidi in menù elegantissimi, così come il maestro Passard, forse esempio ben più conosciuto).
Ai dessert meno originalità delle attese, ma che precisione, che millimetrico equilibrio nei sapori, finanche negli apparentemente semplicissimi petit-fours, strepitosi.
Servizio giovane molto capace e cordiale coordinato dalla signora Decoret, carta dei vini in piena sintonia con lo spirito della maison: grandi nomi insieme a chicche territoriali e non solo, a prezzi in alcuni casi davvero eccezionali. Per noi lo splendido Brézé di Guibertau, prezzato da bistrot.
Un consiglio per provare una davvero grande cucina contemporanea? Non partite per terre lontane, fate un salto a Vichy!
“Qualche guscio tiepido e poi grigliato”, divertente puntata marinara.
Chips di patata ai diversi sapori.
Piede di porco soffiato con mousse di cipolle dorate.
Trota fario del Moulin Piat appena cotta con gelatina di pomodori e gamberi di fiume.
Gamberone caramellato su crumble di nocciole e cavolfiore.
Foie gras d’anatra spadellato, consommé di bonito e ciliegie.
Branzino di Noirmoutier con clorofilla di finocchio e scalogno.
Lardo di maiale dell’Auvergne “snackato”, con cipolle e yogurt.
Due prodotti del Bourbonnais: sella d’agnello arrostita dolcemente e gallinacci di montagna, con albicocca Bergeron e mandorle fresche.
Fumaison con vellutata di spinaci.
Crema diplomatica con geranio.
Sorpresa: sotto la crosta, fragole Mara des Bois con rabarbaro e yogurt di pecora ghiacciato.