Tra i romanzi più belli di Joseph Conrad vi è di sicuro “La Linea d’Ombra”. Il protagonista, il giovane capitano Ellis dal porto di Singapore fa fronte alle difficoltà che l’equipaggio deve affrontare per riuscire a tornare casa. A sostenere il Capitano vi è l’altra figura cardine del romanzo, il cuoco di bordo Ransome. I due simbioticamente costruiscono la trama del romanzo, affidandosi l’uno all’altro nel riuscire a superare le complessità che si parano loro davanti, andando oltre la famosa linea d’ombra. Vale a dire il superamento della dimensione di ciò che è ben noto e cristallizzato nella nostra conoscenza e di ciò che ci circonda. Spogliarsi dal precostituito di una realtà e immergersi all’interno di questa nuova sconosciuta della quale possiamo scoprirne persino assonanze che non avremmo mai pensato. La cronaca di oggi, aldilà del riferimento letterario usato, ci permette il parallelismo di un cuoco il cui capitano si è affidato per dirigere in una rotta tutta nuova la Trattoria L’Andana, nel cuore della Maremma toscana. Siamo tornati da Bruno de Moura Cossio, dove la nostra precedente visita aveva già delineato il cambio di rotta per un luogo che aveva fatto dell’ancien classicismo rurale il suo punto di forza. Va ammesso che oramai questo sopravvive solo nell’arredamento della sala, a tratti barocca, se non sorpassata. Aldilà di ciò Cossio con verve creativa ma soprattutto con la sua influenza sudamericana ha saputo definire uno spazio di confidenza gastronomico specifico e altamente personale.
Il fuoco e la brace sono i primi alleati nella prospettiva di questo cuoco, Cossio. Sin dal principio, con un maniacale lavoro sul mondo della panificazione con minuzia di abbinamento grazie alle affinate competenze nell’arte bianca da parte di Elisa Bini si giunge alla complessità dei piatti che scandiscono ambiziosi, l’incessante accoppiata tra Brasile e Maremma. Arduo scendere nel dettaglio di ogni singolo piatto, più facile tratteggiare i caratteri vincenti di alcuni. Sin dal benvenuto della cucina, di quasi gagneriana maniera “il percorso dentro il percorso” in una circolarità di assaggio che lascia intuire il livello tecnico sul quale si stia giocando come nel Pao de queijo ripieno di caprino del vicino caseificio di Angela Saba, oppure negli Agretti con zafferano pinoli e uvetta. Quattro i piatti sui i quali è giusto soffermarsi. I Gigli al ciliegiolo, seppia e olivello spinoso sono un formato di pasta che già nella sua gradevole forma estetica, cotti nella riduzione del vino a tratti quasi caramellati, si prestano morfologicamente nella raccolta della salsa di cipolle e a quella di olivello spinoso nella sua dolce acidità. La seppia con la sua carnosità, duetta con quella della pasta in un raccordo finale di assoluto livello.
Il Risotto alle rape “R”evoluzione, è parafrasi del signature dish del padrone di casa del tristellato MUDEC. Il riso pressoché identico nel suo aspetto differisce completamente nei suoi elementi di composizione, ad eccezione della barbabietola ovviamente. Il bordo del riso è cinto dalla salsa di melanzane arrostite, dove il gorgonzola è sostituito nel suo impiego ma non nel gusto grazie alla salsa di melanzane verdi a descrivere le tipiche note erborinate. La salsa di more è sostituita da quella di ribes. Rimanendo sulla nave del capitano Ellis, uno degli ammutinamenti gastronomici meglio riusciti. La Moqueca di cernia con salsiccia di branzino e calamaro, omaggia le origini brasiliane di Cossio. La tipica zuppa di pesce degli stati di Espirito Santo e di Bahia, è caratterizzata dall’uso del latte di cocco e dal pequi. La finezza della cernia arrostita (ambiziosamente) nel forno a legna, è affiancata da questa salsiccia di pesce, donando intelligente untuosità ad una carne di per sé non grassa. Il volano aromatico della salsa affinata anche dal lemongrass, pomodoro verde, peperone e una leggera bisque di gamberi fanno il resto. Infine sintesi tra costa ed entroterra toscano: il Piccione con salsa di cacciucco, ceci e sesamo nero. La profondità verticale della salsa della celebre zuppa costiera, si innesta sulla carne del volatile. Il legume nella sua setosa consistenza a supporto della salsa dona struttura al piatto, ricordando contemporaneamente un delicato tono di rusticità regionale e rimandando alla brasiliana feijoada.
Ciò che avevamo visto e assaggiato quasi un anno e mezzo fa oggi risulta molto più chiaro. Nitida e precisa è la mano del “Ransome” Cossio, ampia la fiducia del “capitano Ellis”, alias Bartolini. La linea d’ombra è oltrepassata e, sulla Trattoria dell’Andana, sembra splendere più che mai il sole.
IL PIATTO MIGLIORE: Gigli al ciliegiolo, seppia e olivello spinoso.
Appena fuori dalle rotte tradizionali ma così intimi in quella Venezia che sa così tanto stupire. L’avanzata gastronomica di questa città continua nella sua splendida, ambiziosa sfida. Va riconosciuto che uno degli apripista di questo new deal, in veste di lieutenant bartoliniano, è quel geniaccio da cucina di Donato Ascani. Arte, orto e laguna. Prosegue instancabile il minuzioso lavoro che il cuoco ha intrapreso nella cesellatura millimetrica del gusto e che gli ha fatto conquistare, in breve tempo, i due prestigiosi macaron della Rossa. Che la tecnica fosse di casa o, meglio di Palazzo (Venart!), questa è cosa nota. Ancora una volta la proposta triangolare tra cultura, mondo vegetale e Serenissima trova riaffermazione per lo stato di grazia di cui gode questa realtà.
Due termini simili in desinenza, ma così eterogenei nel loro significato. La prima, a sintetizzare lo stile ma anche l’impulso che Donato Ascani ha saputo combinare indagando questo territorio. Se l’Isola di Sant’Erasmo evoca ai più gli antologici carciofi – castraure – l’intento di Ascani è di riscoprire come micro-produzioni di ortaggi ed erbe spesso dimenticate acquisiscano una vis sorprendente grazie all’unicità del luogo in cui sono coltivate. Estinzione, nella sua accezione antica di “togliere o liberare da”. I piatti esposti nella loro sequenza si liberano di qualsiasi forma manieristica dove l’ingrediente potrebbe essere offuscato da virtuosismi modaioli. Emerge sicuro il fil rouge che lega Ascani a Bartolini in quella facilità di comprensione e di lettura in una città con una clientela turistica anche complessa. Estinguere, dunque, il dubbio. Metaforicamente parlando, infatti, la cucina di Ascani è come murrina che, nella sua complessa e affascinante struttura, si mostra nitida nel vetro trasparente in cui è incastonata. Il tutto è sinfonicamente orchestrato da una pregevole sala tra cui spiccano per stile il sommelier Ottavio Venditto e per l’empatica professionalità, che già avevamo trovato in un’altra realtà bartoliniana, a La Trattoria de L’Andana, con Irene Dorai.
Se delle Acquadelle in salse molto è stato scritto, ora riusciamo a stupirci per la sintesi tra estetica, gustativa e gestuale, tanti e diversi sono stati i colpi messi a segno da Ascani in questo nuovo “Arte, Orto e Laguna“. La Melanzana bruciata di Sant’Erasmo, pecorino, peperone di Senise e pesto parte dall’osmotizzazione con il pomodoro sulla melanzana rinvigorendo la carnosità che quest’ultima perderebbe nelle lunghe cotture consuete. L’erbaceo a crudo di basilico e origano dona freschezza. Infine, l’apposito pane, realizzato con il grano arso, è funzionale al piatto cui restituisce l’affumicato tipico dell’arrostitura nella golosa crosticina della originaria gratinatura. Una sublimazione di parmigiana. La Zucchina e fiori è un piatto innestato sul varietale dello stesso ingrediente (zucchina stellata, gialla e verde) agganciato all’evoluzione aromatica diversificata grazie alla disposizione dei singoli fiori/foglie presenti nel piatto. Trait d’union, la sobria acidità della bernese a impreziosire la spinta sapida del caviale. Un piatto di fisica progressione per ogni cucchiaiata. Poi, ancora una volta, uno dei piatti firma di Donato Ascani con la nuova versione della Seppia alla brace. La prima salsa fatta con le uova del cefalopode è il fondale su cui la seppia prima arrostita e passata velocemente sulla brace trova il consueto nero. La bieta, appena sbollentata quasi a riprendere un atavico zimino, incontra, leggermente acetata, la carnosità del cardoncello riprendendone la parte terragna. Piatto emblematico per alternanza di consistenze proteiche declinate anche sul versante vegetale. Emblematiche come quelle barene in laguna dove l’alta marea, nel suo divenire, scopre e poi sovrasta elementi, odori, scenari inaspettati.
Terra e acqua: una ciclicità deliziosamente raccontata dello scenario veneziano, che trova nel Glam di Donato Ascani una interpretazione d’autore.
Eravamo rimasti molto colpiti la prima volta che siamo andati a scoprire, a pochi mesi dal suo arrivo, le qualità di Marco Galtarossa, Chef sapientemente scelto da Enrico Bartolini, sopraffino talent scout di giovani talenti. Ebbene, dobbiamo premettere che abbiamo avuto solo conferme da questa ultima visita al Casual, una stella sempre più luminosa e brillante nel firmamento dei ristoranti del grande Chef di Castelmartini.
Galtarossa ha, difatti, un talento cristallino nel gestire con grande eleganza sfumature di gusto non perdendo mai di incisività e giocando con maestria in giochi di sovrapposizione. Di origine padovane, ricordiamo il suo curriculum davvero ricco di esperienze: Cracco, Villa Feltrinelli, Enoteca Pinchiorri, Feva come capocuoco e Chef di Zanze XVI, a Venezia. Vari, poi, gli stage: Joël Robuchon a Parigi, Joia, Tickets e Noma. Nella sua cucina si ritrovano le varie influenze: Venezia che incontra Bergamo, la laguna che incontra la montagna, passando per i boschi dove raccogliere varie erbe spontanee, sempre perfette nell’utilizzo e, ancora, fiori con una funzione non solamente estetica sebbene l’eleganza e la cura estetica dei piatti sia centrale. C’è grande attenzione al mondo vegetale.
“When I met you in the summer, to my heartbeat’s sound we fell in love” è l’inizio di Summer di Calvin Harris, una canzone perfetta per rappresentare l’estate così come lo è “Sfumature d’estate”, il titolo del menù degustazione da dieci portate escludendo dal conto amuse bouche e piccola pasticceria. La batteria di partenza è davvero notevole per precisione, eleganza e spunti di interesse al palato, con crudi di verdure, crema di semi di girasole ed estratto di albicocca fermentata a dare il via al menù degustazione vero e proprio, facendoci entrare nello spirito dell’estate.
Un percorso che si dipana su un trittico di piatti freschi, con la Granita di Lapsang souchong e abete rosso ad accompagnare, con uno shock forse fin troppo aggressivo, l’Ostrica in ceviche di erbe che termina con una sorta di Tarte tatin, come ispirazione di impiattamento con Peperone di Carmagnola, prugne e cavallo marinato. Un piatto perfetto negli equilibri, che diverte il palato con la sapidità e la dolcezza ferrosa del cavallo, il gusto del peperone e l’acidità della prugna. La maestria nella gestione di gusti sovrapposti continua con lo Spaghetto con salsa (potente) al fegato di seppie, zotoli, seppioline veneziane alla plancia e levistico a introdurre una nota di amaro che va anche a chiudere il piatto. Altro interessante gioco è nel piatto con i Ravioli ripieni di gallina nostrana con le amarene che arrivano subito e forte nella loro dolcezza per lasciare magicamente spazio al brodo di astice. Intenso il piatto con la succulenta Pecora bergamasca, che si accompagna al ginepro e a un dashi di anguilla, ma il gioiellino è una piccola, purtroppo, porzione di Cervello di pecora con liquirizia e gel di ponzu: un bocconcino davvero prelibato.
Un percorso che rivela una grande personalità, si lavora di pennello, con gusto ed eleganza ma si lascia davvero il segno. Un plauso va alla sala, sapientemente gestita da Andrea Zamblera, con grande professionalità e savoir faire, per un servizio decisamente di alto livello. Un posto, in Bergamo Alta, dove godere di tutte le attenzioni riservate e passare uno splendido pranzo o una splendida cena nel bel dehors.
Enrico Bartolini è stato eletto dalla Guida Michelin N°1 assoluto in Italia in una categoria ben precisa, anche se non ufficialmente definita, quella dello “chef-imprenditore”, ovvero una figura professionale capace di guadagnare una posizione di vertice con il proprio ristorante di riferimento, e di creare una rete di locali satelliti di alto profilo, in altre sedi nella stessa nazione o all’estero. All’ultimo piano del Museo Mudec, Bartolini ha costituito il proprio quartier generale; all’interno del design Hotel Milano Verticale (gruppo Una), un avamposto nella affollata Milano di Corso Como, a due passi da Porta Nuova. Vertigo, Urban Bar e Anima, secondo uno schema collaudato, sono rispettivamente “bar e osteria contemporanea” e “fine dining”: entrambi eleganti e modaioli nelle intenzioni, nessuno dei due particolarmente coinvolgente nell’atmosfera.
Il ristorante Anima beneficia dell’opera di due professionisti giovani e preparati: Giacomo Morlacchi guida la brigata di sala e gestisce una cantina (a vista) ampia, ricercata e adeguata al contesto sia nella selezione che nei prezzi. Michele Cobuzzi, pugliese con un bagaglio di esperienze a fianco di cuochi importanti, porta avanti un lavoro interessante in cucina. Non c’è scelta alla carta ma due menu degustazione: “Intensità” (otto assaggi a 150 euro, con la possibilità di estrarne tre a 90 euro o quattro a 110 euro), e “Le mie certezze” (125 euro), che rappresenta le origini e la storia dello Chef.
I piatti di quest’ultimo, quasi tutti di ispirazione pugliese, fanno perno sull’alta qualità della materia prima; sono eleganti nelle presentazioni e intensi nei sapori e negli aromi, come ci si aspetta in una cucina del Sud. Particolarmente centrati i Bottoni di gallina nostrana con cime di rapa, pomodoro confit e limone candito e l’Agnello del Gargano con carciofi, liquirizia e cipolla marinata. Chiude il cerchio un dessert altrettanto convincente, a dimostrazione che la pasticceria tiene il passo della cucina: Veli di cioccolato caramellato, ricotta di pecora, sorbetto alla pera e pera speziata.
Impressionante l’espansione dell’universo gastronomico di Enrico Bartolini. Basta volgere lo sguardo alla sola penisola italica per comprendere la portata e l’intelligenza imprenditoriale dello chef toscano nel panorama culinario odierno, ma senza dimenticare Spiga e Fiamma a Hong Kong, e Roberto’s a Dubai. Mudec, Casual, La Trattoria, Glam, Locanda del Sant’Uffizio, Poggiorosso, Anima e, ora, Horus, in quel di Sanremo, all’interno del pentastellato Miramare The Palace, con meravigliosa vista sul Mar Ligure. Ogni tappa regala variazioni sul tema che confermano l’alta qualità delle proposte servite ai viaggiatori gourmet.
Nel corso della nostra cena presso l’Horus, che a pranzo propone un menù in versione bistrot più contenuto nella scelta, abbiamo provato i piatti della cucina guidata da Masayuki Kondo, chef di lungo corso, con alle spalle importanti esperienze, tra le altre, a Villa Crespi di Antonino Cannavacciuolo e al St. Hubertus di Norbert Niederkofler.
Kondo, sotto l’egida di Bartolini, ha dato vita a “Passeggiando in Liguria”, menù nato con l’obiettivo di omaggiare l’omonima regione garantendo tanto una riconoscibilità delle proposte quanto una ricerca sui sapori in grado, nei casi più riusciti, di creare delle portate ben ragionate e assai godibili. La mano dello chef si manifesta mediante una tecnica precisa e attenta capace di emancipare i piatti da eccessive semplificazioni tese all’immediatezza – impresa non certo semplice, contando che l’hotel è frequentato da una clientela internazionale – per puntare a un’originalità accessibile anche all’avventore meno esperto.
Pensiamo, per esempio, alle trofie al pesto con scampi, fasolari ed emulsione di crostacei: il più classico dei piatti liguri ai cui più evidenti richiami vegetali del pesto si sono unite le note iodate delle parti ittiche, con particolare lunghezza dell’emulsione. Il risultato è stata una portata non meno che ottima, in grado di abbracciare i profumi e i sapori dell’entroterra ligure con le suggestioni del mare. In poche parole: una fotografia della Liguria nel piatto.
Eppure, già nel passaggio precedente si erano palesate le potenzialità della cucina con seppia, cavolfiore e agrumi. La cottura millimetrica del cefalopode, connotato da sfumature grigliate che ne hanno garantito una buona lunghezza palatale, con la dolcezza del cavolfiore e la spiccata acidità della maionese di cipollotto e lime, hanno magnificato un piatto splendidamente bilanciato, incalzato, nel finale, dalla cialda croccante col suo lieve gioco di consistenze. Una portata ben eseguita e intelligentemente pensata. Da segnalare, sul reparto dolci, lo yogurt in diverse consistenze: gelato, meringa e sorbetto, in una soluzione dalle diverse texture nella quale l’acidità dello yogurt ha contrastato la dolcezza della zuppa inglese alla base. Un dolce diretto che ha fornita una gratificazione conclusiva tutt’altro che superficiale.
Un piccolo ammanco, che tuttavia non inficia la nostra valutazione, ad ora arrotondata per eccesso ma che, crediamo possa essere agilmente alla portata dello chef Masayuki Kondo, lo abbiamo riscontrato nella portata principale, ombrina, frutto a guscio e cipollotto, piatto in cui la lunghezza vegetale del cipollotto ha sovrastato le carni, di ottima qualità, incapaci però di esprimersi a dovere, compromettendo l’equilibrio terra/mare così ben riuscito, invece, nelle preparazioni precedenti.
Il servizio, guidato da Alessandra Veronesi, con una brigata di giovani spigliati e volenterosi, al netto di un innegabile impegno, è andato leggermente in confusione con la sala piena e ha manifestato delle difficoltà sulle presentazioni dei piatti. Sfumature facilmente correggibili con un poco di esperienza, che ci permettiamo di segnalare per incoraggiare a raggiungere obiettivi capaci di elevare questa bella tavola al rango che merita. Le potenzialità sono, del resto, già evidenti.