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Cannavacciuolo Café e Bistrot

A Novara c’è fermento grazie al Masterchef Antonino Cannavacciuolo

Il Teatro Coccia è il tempio della lirica novarese. Dedicato a Carlo Coccia, per più di trent’anni maestro di Cappella del Capitolo del Duomo nonché direttore del Civico Istituto Musicale “Brera”, è qui, in quelli che furono i locali del teatro, che Antonino Cannavacciuolo ha aperto la prima delle due “succursali” della casa madre, Villa Crespi. Il grande cuoco-Masterchef ha messo alla guida delle cucine del cafè e del bistrot Vincenzo Manicone, ragazzo cresciuto e maturato alla sua corte il quale possiede, invero, il dono dei predestinati: il senso del gusto, dote paradossalmente rara in questo mestiere.

Ed è proprio grazie a questo gusto che Vincenzo elabora creazioni eleganti, con le giuste geometrie e proporzioni tra gli ingredienti, con una grande capacità di saucier che lo rende, a tutti gli effetti, un grande interprete dell’alta cucina classica. Mai un tocco fuori posto, mai un eccesso e – del resto da un capofila partenopeo come Cannavacciuolo non potevamo aspettarci altro – grande elaborazione tecnica, soprattutto nelle prime pietanze. Come il riso, decisamente intrigante, con le note amare della cipolla bruciata e l’acidità del pomodoro giallo, che controbilanciano la dolce grassezza degli scampi. Un riso volutamente tenuto al dente, cucinato ed elaborato in modo tale che ricorda tanto una paella, con le sue ossidazioni pronunciate e il tocco amaro della parte leggermente e volutamente bruciata in padella. Splendidi, poi, anche gli spaghetti, serviti consapevolmente ancorché lievemente bassi di temperatura, così costruiti per non ossidare la componente iodata del piatto e mantecati con una splendida crema di anguilla affumicata e salsa aioli da manuale. Ed è proprio questo il quid: l’impiego equilibrato di salse e fondi di cottura non appesantisce, anzi, fa veleggiare leggeri nel mondo della classicità, senza rinunciare nemmeno a qualche guizzo creativo. Il risultato finale? Tremendamente buono, goloso, elegante e pieno, in una parola, ricco.

In questo contesto, anche la battuta, la capasanta e l’anatra erano compiutamente equilibrate, l’unico appunto che sentiamo di fare è che ciascuna di queste portate scontava una leggera flessione per quello che attiene la centralità del piatto rispetto ai collaterali. Dettagli che, se sistemati, potrebbero ulteriormente far volare questa cucina verso traguardi nettamente superiori.

Completano il quadro un servizio all’altezza, seguito da ragazzi molto giovani ma preparati e attenti, e da una carta dei vini interessante nelle proposte e articolata quanto basta. Nella bella stagione il vero lusso è poter pranzare o cenare sul terrazzo del teatro, con vista su Piazza Martiri della Libertà.

Peranto, se finora le rotte dei gastro-fanatici non prevedevano particolari fermate a Novara, adesso è d’uopo  pensare a una deviazione: perché questo chef e questa cucina meritano decisamente.

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Un simpatico bistrot di stampo contemporaneo a due passi dal lungolago

In posizione invidiabile sull’elegante area pedonale del centro di Lecco, a pochi metri dal lungolago – tra le non poche trappole per turisti disseminate sulla strada – spiccano le vetrine di questo bel bistrot voluto da Luca Dell’Orto, giovane, promettente chef che si è fatto le ossa nel locale di famiglia, il San Gerolamo a Vercurago a cui si è poi aggiunto, sempre a Vercurago, il bistrot-pizzeria Du Pass.

Il format è quello, oggi vincente, basato sulla ricerca delle materie prime e su un’offerta gastronomica ampia e originale che comincia dall’aperitivo, passa per la pizza e culmina con la cena, di impronta gourmet. Dall’apertura, circa tre anni orsono, ad oggi, il L’EK ha avuto un buon successo ed inevitabilmente sono cresciute anche le ambizioni della cucina. Dalla lettura della carta, assolutamente eterogenea, è difficile intuire quale sia tuttavia la linea. Si va dalla pregiata carne della vacca galiziana ad una selezione di “pizze gourmet”; dai crudi di mare al pesce di lago, dal filetto alla Rossini al babà. Si tocca un po’ tutto lo scibile gastronomico, insomma, senza vincoli di sorta fatta eccezione per il rispetto della stagionalità. È previsto, poi, anche un menu degustazione a sei portate – tra quelle presenti in carta – composto liberamente dallo chef.

Stagionalità, ricette classiche e un tocco di modernità

In tutto questo, abbiamo trovato intriganti e molto gradevoli le lumache con salsa al prezzemolo: perfettamente cotte, per nulla terrose, spinte da una spiccata nota erbacea, ci sono sembrate una bella versione contemporanea della classica “bourguignonne”. Ci ha favorevolmente impressionato poi anche la tagliata di vitella, carne frollata a mestiere e perfetta per cottura, temperatura, consistenza e sapore.
Belli carichi e connotati da una marcata rusticità gli spaghettoni con cipollotto e missoltini.

Dall’altra parte ci è sembrato un po’ forzato il matrimonio tra tonno rosso e salsa alla pizzaiola; non così soffice, poi, il petto d’anatra seppur accompagnato da un buon fondo di cottura e da un’equilibratissima mostarda. Ahinoi assolutamente da rivedere il babà per la consistenza (troppo poco soffice) e l’eccessiva stucchevolezza della crema in accompagnamento.

La carta dei vini, benché alquanto scarna nei numeri, non è priva di qualche proposta meritevole di attenzione.

Un locale che, sicuramente, ha portato una ventata di novità nel panorama della ristorazione lecchese, anche se confermiamo l’impressione di una cucina ancora priva di un’identità. Ma, forse, si tratta di un effetto determinato dall’intenzione di soddisfare qualsiasi tipologia di avventore e questo, a ben vedere, potrebbe anche essere un plus dal punto di vista commerciale.

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Una valida doppia identità, in via di definizione

Da quasi un decennio seguiamo con piacere il percorso professionale di Luca Dell’Orto. Partito dalle cucine di famiglia all’Hotel San Gerolamo di Vercurago, lo chef lecchese ha trovato col tempo la propria collocazione gastronomica. Dopo aver ampliato l’attività dei genitori con l’apertura, dirimpetto all’albergo, del Bistrot-pizzeria Du Pass, nel 2017 ha inaugurato, nel cuore dell’area pedonale di Lecco, la propria vetrina cittadina: L’Ek.

Il locale aveva puntato, all’apertura, su una doppia identità: bistrot di qualità con un occhio al turismo e alla clientela di passaggio da un lato, pizzeria gastronomica dall’altro, potendo contare, per quest’ultimo aspetto, dell’apporto di Marco Locatelli, giocoliere degli impasti di stanza al Rise di Vimercate.

Con la successiva uscita di scena di Locatelli e grazie soprattutto alla buona risposta da parte della clientela, la proposta di L’Ek ha gradualmente guadagnato in ambizione. L’asticella è stata così innalzata sia in termini di proposta che di attenzione ai dettagli. La lievitazione non è, però, completamente sparita dai radar: è sufficiente, infatti, scorrere la carta per constatare come le pizze – tuttora pregevoli – siano ancora presenti, seppur non più fra gli elementi centrali del progetto. 

In sala: femminilità ed attenzione

L’insegna gioca con l’originario toponimo celtico di questo luogo manzoniano ma la cucina ammicca, più che alla retorica localistica, a una classica contemporaneità (e da questo punto di vista non sorprende l’omaggio, alla voce dessert, a un evergreen di Enrico Bartolini) e a scelte un po’ à la page, come i tagli di carne e i pesci interi, che vengono lasciati al tavolo in condivisione fra i commensali. Lasciandosi indietro l’idea originaria di un bistrot a basso tasso d’impegno, Dell’Orto ha poi portato fra queste mura anche alcuni fra i suoi cavalli di battaglia come il risotto con crescione di ruscello, latticello e lumache di vigna (non gustato in questo occasione ma provato svariate volte e sempre notevolissimo) o il pollo arrostito intero con salsa Royale. 

La sala, tutta al femminile, regge adeguatamente il ritmo della cucina, con sorrisi e senza alcun’affettazione. Un applauso va poi alla cantina, contenuta nei numeri ma attenta a non sprecare spazio, con proposte mirate a diversi target di clientela.

Ciò detto resta l’idea, suffragata da un cospicuo numero di visite, di un locale che non ha ancora trovato un’identità definitiva: la conferma del trend attuale, senza passi indietro in direzione di una più conservativa linea commerciale, lascerebbe a Lecco, non esattamente il paradiso dei gourmet, una buona tavola sulla quale poter contare. 

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Una grande cucina in un piccolo bistrot

A due passi dai Navigli, da qualche anno ha trovato casa uno dei bistrot più interessanti nell’ambito della ristorazione milanese. 28 posti è cucina contemporanea interpretata dal talentuoso Marco Ambrosino che, oltre ad avere un’idea ben precisa di cucina mutuata dalle esperienze al Melograno di  Libera Iovine e al Noma di Copenhagen, ha a cuore l’etica del suo mestiere e le sorti del pianeta e, così facendo, va oltre l’idea di cucina fine a se stessa per diventare un progetto di inclusione sociale, un’idea di sostenibilità ambientale nonché una finestra sui piccoli produttori. 

Il locale, discreto e raccolto, è frutto di lavori di ristrutturazione eseguiti dai detenuti dell‘Istituto Penitenziario di Bollate e la Onlus Liveinslums che all’interno del carcere ha avviato un laboratorio di falegnameria, ha realizzato i tavoli e l’arredamento minimal del ristorante.

Ogni due mesi, un crescendo di sensazioni ed emozioni nuove…

Il menu cambia ogni due mesi. Si può scegliere fra 3 differenti menu degustazione di 5, 8 e 10 portate, con la costante presenza in carta di alcuni cavalli di battaglia.

Già le entrée manifestano ciò che accadrà di lì a poco: una combinazione di dolcezze, sapidità e acidità risveglia il palato, che difatti inizia a fremere, e accoglie l’ottimo  Brodo di cavoli e legumi, bevuto con una cannuccia di sedano a fare da consommé alla Verza col suo estratto  fermentato e una cialda di tartufo nero e al Chiajozza, un souvenir del mare, da cui lo chef proviene: crudo di canocchie, cavolo cappuccio, gelato di riccio di mare, olio di pino marittimo, sabbia di carapaci di canocchie. Simile ma già più urbanizzata l’Ostrica alla brace marinata nel suo garum, salmoriglio, rape in conserva, olio al caffè: un piacere per gli occhi e per il palato dove le sfumature aromatiche della brace, l’amaro del caffè e della rapa sono alleggerite dal salmoriglio a rilasciare freschezza. 

È quindi il momento della Palamita con tamari di cicerchie, capperi di sambuco, finocchio di mare, mela cotogna e caviale di cefalo – eccezionale, quest’ultimo – che precede i Bottoni di semola ripieni di fave secche affumicate, estratto di cavoli fermentati, olio di arance amare, foglia di mirto. Lo spunto è interessante, ma la temperatura di servizio (troppo calda) e il supporto non aiutano ad apprezzare completamente il piatto. Sempre la temperatura, troppo fredda, stavolta, è il tallone d’Achille dello Spiedo di agnello marinato nel suo garum.

…e sorprese

 Un Patè di cosce e fegati con polvere di carota fermentata  e una leggera Ricotta di mandorla ed erbe a chiusura, lascerebbero intendere che la cena viri verso i dessert.

Ma è in arrivo una sorpresa, un grande classico di Ambrosino, gli Spaghettini con acqua di orzo fermentata e miso di ceci neri. Senza dubbio un gran piatto: gusto rotondo e grande equilibrio, quasi un pre-dessert. I dessert, tutti nel solco del dolce-non dolce, sono interessanti e sostanzialmente ben eseguiti. Spicca però, per originalità e carattere, il Gelato di miso di tumminia, tempeh di orzo, gel di kombucha di cachi. 

Una bella esperienza in un posto informale dove soddisfare il vostro appetito tanto quanto la vostra voglia di conoscere, e toccare con mano, una cucina mai scontata e sempre sorprendente. E su Marco Ambrosino ci sentiamo di scommettere per una crescita ed evoluzione ulteriore, forse senza i difetti strutturali di una cucina che ne limita, per spazi e ingombri, il talento e le possibilità.

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Era uno degli enfant prodige italiani protagonisti della scena parigina. Oggi, con il passare degli anni, è diventato  un uomo adulto, un cuoco fatto e finito, che ha modificato in maniera significativa la sua cucina e il suo modo di porsi dai tempi del Roseval.

Da Racines Simone Tondo propone una cucina molto più semplice, con meno fronzoli e orpelli, e si concentra decisamente più sul gusto. Anche perché, è bene ricordarlo, questa deliziosa bomboniera in Passage des Panoramas ha spazi, e conseguentemente accessori di cucina, estremamente ridotti.

Con il fuoco primordiale e poco di più, Simone ci delizia con una cucina profondamente italiana, a tratti anche agricola e ruvida, come il luogo giustamente impone.

Una cucina in cui non manca il guizzo, certamente, come nel Gazpacho scampi e limone, in cui la punta di pepe di Gianni Frasi dona eleganza al piatto, nel bonito, un piccolo tonnetto, servito con cocomero e sesamo, o nelle Linguine con guancia all’origano, olive, pecorino e pomodoro. Piatto tutt’altro che greve, come l’immagine farebbe presagire.

La freschezza e la leggerezza dei dolci – a dispetto di ciò che la tipologia potrebbe far pensare – insieme a un servizio alquanto preparato e accogliente, seppur fin troppo sbrigativo, coniugano un luogo davvero incantevole, che meriterebbe degli spazi meno angusti.
Nota dolente? Il conto, impegnativo per la tipologia di locale. Ma una visita a questo delizioso mignon non dovete proprio mancarla quando sarete a Parigi. Evviva Simone Tondo, evviva Racines!

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