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The Quarantine’s Club – Manhattan

Manhattan

Uno dei componenti della sacra triade del bancone del bar, probabilmente il drink più famoso a base Whiskey (se la gioca con l’Old Fashioned), sicuramente uno dei più ordinati nei bar di mezzo mondo: nel Quarantine’s Club odierno parliamo di uno dei cocktail più famosi al mondo, il Manhattan.

A differenza di quello che ci si potrebbe immaginare da un cocktail a base Whiskey, il Manhattan può essere considerato un “all day cocktail“, visto che grazie alla sua composizione è possibile renderlo più o meno morbido, adattandolo a seconda delle esigenze e del momento della giornata.

Volendo dare al Manhattan una connotazione storica (anche se non siamo granché per la quale: le storie sono spesso molteplici e confuse, variando da campana a campana), si potrebbe inquadrarne la nascita nella seconda metà del 1800, in un luogo iconico di quei tempi: il Manhattan Club, all’interno del quale per festeggiare la nomina a governatore dello stato di New York di Samuel J. Tilden, in un banchetto organizzato da Jennie Jerome (o Lady Randolph Churchill, madre di Winston) fu servito per la prima volta quello che poi verrà ordinato come “Il cocktail del Manhattan” a base di Rye Whiskey, Sweet Vermouth e Angostura Bitter.

Una breve precisazione, giusto per chiarire ogni dubbio: generalmente si parla di Whiskey quando il distillato proviene dall’Irlanda e dagli USA, mentre di Whisky quando è proveniente dalla Scozia, dal Canada, dal Giappone, e più in generale dal resto del mondo.

Chiusa questa breve ma doverosa premessa, veniamo al nostro cocktail.

La ricetta IBA prevede 50 ml di Rye Whiskey, 20 ml Vermouth rosso dolce, tre/quattro gocce di Angostura, il tutto raffreddato e miscelato in mixing glass e servito in coppetta cocktail.

Abbiamo dunque inserito nel nostro Mixing Glass (un barattolo di Cetrioli Zuccato, da 1 litro di capacità, vuotato lavato e riconvertito ottimamente all’uso…), piena a 3/4 di ghiaccio, nell’ordine: 4 gocce di Angostura, 50ml di Knoob Creek Rye Whiskey, caratterizzato dal suo pieno e ricco corpo (grazie anche ai suoi 50°…) e 20ml di 721 di DiBaldo, un Vermouth anch’esso ricco e profumatissimo, uno tra non molti in grado di reggere l’accoppiamento al Knob Creek. Dritta da non dimenticare: scolate a dovere l’acqua formata nel mixing glass dal discioglimento del ghiaccio un secondo prima di inserire gli ingredienti, in maniera da non diluirli eccessivamente.

A questo punto mescolare delicatamente (“stirrare” tecnicamente, ovvero mescolato con lo stirrer, il lungo cucchiaio visibile in foto e creato a questo scopo) il tutto per una trentina di secondi abbondanti, poi filtrare il tutto in una coppetta da cocktail pre-raffreddata in freezer. Servire con ciliegina da cocktail, ma noi abbiamo preferito con zest di arancio spremuta delicatamente prima sul bordo del bicchiere e sul drink, e quindi inserita nel bicchiere.

La ciliegina per cocktail non la inseriamo più per idiosincrasia che per altro: essa non ha mai avuto particolare significato storico se non quello di conferire colore ad un drink, che in passato non era certo di bellissimo aspetto, soprattutto per via delle tecniche di produzione dei distillati che nella stragrande maggioranza erano white spirits. Oggi, che la tecnica riesce (anche) a venire in soccorso dell’aspetto esteriore, la ciliegina possiamo serenamente ometterla.

Varianti

Come per tutti i cocktail più famosi, decine sono le varianti degli stessi proposte in ogni angolo del globo. Una delle più note è il Dry Manhattan – sulla scia del Dry Martini – dove si usa un Vermouth Bianco Dry in luogo del Vermouth Rosso.

Una variante tra le più note, la più richiesta un tempo da quelli-che-la-sapevano-lunga, è il Rob Roy, che prevede un Whisky torbato di Islay (più da intenditore, certamente prestigioso) in luogo del Rye Whiskey, tipicamente -in passato- più alla buona, più dozzinale.

Quindi con il boom dei pregiati Whisky torbati, chi cercava di darsi un tono al bancone, di far capire che “a lui non la si fa mica”… lo esternava ordinando un Rob Roy.

Twist

Twistare un Manhattan non è certo cosa da improvvisare: abbiamo quindi chiesto un aiuto a Carlo Simbula, Bartender e Bar Manager del The Spirit, uno dei Cocktail bar più eleganti di Milano, per un twist sul Manhattan che resti riproducibile anche a casa.
Carlo ci ha proposto una sua versione del cocktail, una versione con una bella componente italiana a metà tra un Manhattan ed un Rob Roy, ma un po’ più fresco e morbido delle versioni classiche.

La preparazione è la stessa della versione vista sopra, ma cambiano gli ingredienti: Whisky single malt di Islay, Ardbeg Wee Beastie, il nuovo “entry level” della maison Ardbeg, caratterizzato dal poco invecchiamento e quindi dalla spiccata e netta nota di torba. Questa nota è davvero tanto esuberante presa a sé (ma comunque il whisky presenta una bella freschezza, adattissima al cocktail), e quindi lo abbiamo dosato insieme ad un Whisky giapponese, un Nikka From the Barrel, che con i suoi 51,4° ha alcool, struttura e carattere per non soccombere alla torba dello scozzese.

In sostituzione del Vermouth abbiamo usato Amaro Lucano, che con la sua nota erbacea apporta una bella componente speziata, attenuando il carattere esuberante dei due whisky.
Al posto dell’Angostura infine inseriamo Fernet Branca, per dare una componente fresca e balsamica al nostro Manhattan.

Dosi e costruzione praticamente le stesse del cocktail classico, con i whisky al 50 e 50: inserite in un Mixing Glass colmo a 3/4 di ghiaccio 25 ml di Ardbeg, 25 ml di Nikka, 25ml di Amaro Lucano ed un bar spoon -un cucchiaino abbondante- di Fernet Branca.

Stirrare una trentina di secondi, filtrare in coppetta ghiacciata (questa volta abbiamo preferito una coppa Martini, sempre da freezer) e finire con una scorzetta di limone.

Mangiar bene in Scozia. Un minuscolo ristorante, ricco di sorprese, nella remota Isola di Skye

Meravigliosa Scozia. Un distillato cromatico di bellezza bucolica, selvaggia, cangiante, Mentre in inverno neve e nebbia si confondono e durante la notte il paesaggio mozza il fiato.

Ogni luogo di questa bellissima terra è una scoperta. Non fa eccezione l’Isola di Skye, a ovest delle Highlands. Terra di pescatori e grandi whisky.

Dal centro urbano più grande dell’isola, Portree, si percorrono ponti e stradine anguste che regalano paesaggi suggestivi, fino a Stein, nella remota penisola di Waternish. Alla fine di una stradina a doppio senso, in un minuscolo lungomare con cottage bianchi a schiera fronte oceano, si nasconde un piccolo ristorante di una ventina di coperti: il Loch Bay. Qui la tradizione scozzese – specie quella ittica – incontra le solide basi della gastronomia francese grazie all’esperienza dello chef  Michael Smith.

L’atmosfera è calda, raccolta e si cena a lume di candela. La moglie dello chef e un gentilissimo maitre si premurano che tutto vada per il meglio.  Ci si sente coccolati.

Una cucina solida di stampo francese basata su frutti di mare scozzesi e cacciagione locale

Una carta molto ridotta offre piatti di carne e cacciagione, a volte da pelo, altre da piuma, ma soprattutto preparazioni incentrate sul pescato locale e sui frutti di mare cui è dedicato un intero percorso di degustazione.

L’esperienza nel trattare la materia prima ittica si ritrova subito con gli stuzzichini di accompagnamento, con una intensa brandade di sgombro da spalmare sullo “scone” caldo. Poi una zuppa di mare con spinaci, di stampo transalpino, per finire con l’abbondante trittico di molluschi, pesci e crostacei con la capasanta locale, scampo e merluzzo in una elegante salsa al granchio.

Bella mano anche sui secondi, con il cerbiatto (viene servita la sella al sangue e la coscia brasata) con verdure, porcini e cacao. In accompagnamento, se lo volete – e lo consigliamo! – delle patatine in tripla frittura, eccezionali nella loro semplicità.

Dessert buono, ma anch’esso in porzione molto abbondante come il resto.
Ci si alza da tavola satolli e un po’ appesantiti, ma è tutto molto goloso.
La selezione enoica può lasciare un po’ perplessi considerate e le pochissime referenze e qualche ricarico di troppo. Ma ricordiamoci che siamo in un posto davvero lontano da tutto.

Per un whisky a fine pasto, invece, la scelta è più che esaustiva. E ci mancherebbe.

La galleria fotografica:

L’insularità è una forma esistenziale

Poco importa che essa conduca a nord o sud dell’equatore; un cuore isolano, se naviga in continente, farà sempre ritorno alla sua isola.
Alcuni cuori, poi, lo sono così visceralmente, così intimamente che solo a guardarli si sente l’odore che spira dai flutti e, nelle belle giornate, lo sciabordio lento delle acque chiare onde intravedere quel mondo iridato fatto di pesci e di rocce sommerse.
Un’insularità più di terra che di mare, però, è quella di Rino Duca che, come tutti i veri isolani, non sembra intenzionato a scendere a patti coi lustrini e coi fuochi fatui della contemporaneità a cui preferisce le lucciole in amore del mar di Sicilia e, da qualche tempo, l’aurora boreale delle isole Orcadi.
Una luce che brilla a Il Grano di Pepe nel nuovo menu dedicato alla Scozia; un diario di viaggio che è anche un’altalena di durezze e di dolcezze, anche interiori, cui fa da contraltare un bel repertorio di whisky in più che plausibile abbinamento.

Le affinità elettive tra piatti e single malt

A cominciare dall’incipit, un highball a base di whisky e ginger beer fermentata della casa col fragrante benvenuto del suo pane e panelle e dello sfincione, «per ricordarmi da dove vengo». Cartoline à rebours della sua Sicilia, queste, a cui segue lo scampo scozzese con battuto di pecora cornigliese cruda servita su una vaporosa riduzione di stout: un boccone stavolta perfettamente Scottish, che rima naturalmente con le note dolci e iodate di alghe e il graffio della torba del Lagavulin Islay di 16 anni.
Ecco quindi la volta del piatto nazionale, l’haggis, un insaccato realizzato con la pecora di Ettore Rio di cui Rino mescola cuore, polmone, fegato e rognone con l’avena e che “insacca” simbolicamente in una patata cotta nel sale. Indicibilmente delicato, il suo haggis diventa vibrante col tornito sorso dell’Ardbeg Uigeadail.

In termini di abbinamento, tuttavia, la acme si raggiunge con l’eiglefin di baccalà su vellutata spumosa di porri; un idillio di contrasti in combinazione con le virtù placanti del Bowmore 12 anni che lo stesso Rino definisce «un whisky sotto le mentite spoglie di un cognac.»

Colpo di scena, quindi, con la McCacio, una quattro formaggi in lattina a scimmiottare le storpiature subite nel mondo anglosassone dalla cucina italiana. Soave, qui, l’idillio con le note agrumate e di camomilla del single malt Auchentoshan 10 anni.
Irresistibile benché più canonica la polpa d’agnello cotta nell’alloro con purè di patate.

La chiusura, in questo angolo di Emilia che è già Scozia, è poi ad libitum. Rino arriva infatti con una zuppiera debordante di gelato alla crema in ricordo della trasgressione più peccaminosa della sua infanzia: il cornetto al whisky. In abbinamento un Laphroaig Quarter Cask, il quale, per via della maggiore esposizione al legno, infonde le papille di un calore torrefatto ripulendole con un provvidenziale grip tannico.
Per i più motivati, il sipario con gli whisky più torbati al mondo, gli Octomore di Bruichladdich, pionieristica distilleria di Islay, è d’uopo.

La galleria fotografica:

Il Laida Weg, albergo a 4 stelle incastonato a Rima San Giuseppe, lembo estremo della provincia di Vercelli, 69 residenti e 1417 metri di altitudine, ha tutti i crismi per diventare un buen retiro gourmet, a conforto della qualità della ristorazione alberghiera, che in Italia sta facendo decisi passi in avanti.
Rima è una località raggiungibile comodamente e rappresenta il luogo in cui si è concretizzata la lucida e visionaria follia imprenditoriale della famiglia Tognon, sopratttutto di Flavio Tognon, che un giorno, capitato da queste parti con moglie e figli, ci costruì dapprima una casa di vacanza e successivamente, con un’operazione di ingegneria civile ed alberghiera con pochi precedenti, un albergo di tecnologia avanzata, dove nelle camere regna la domotica, ma che nel cuore conserva uno spirito antico. Come le case avvolte nel silenzio ultrasecolare di questo puntino sulla carta geografica, fondato dal popolo Walser nel XIV secolo (Laida Weg, il nome dell’hotel, deriva proprio dalla loro lingua), e come quella sensazione di caldo relax che cattura l’avventore.

Ai fornelli del Laida Weg, in una sala di compassata eleganza, i Tognon hanno chiamato Paolo Bullone, under 30 che a differenza di molti coetanei ha pochissima spocchia e moltissima umiltà. Sarà l’ispirazione che danno le montagne che circondano l’albergo, la sua ‘ascendenza culturale’ marchesiana, l’atmosfera ovattata ma di fatto, il ragazzo ha un’idea di cucina molto precisa, necessariamente in evoluzione, che interpreta al meglio la sua funzione: accompagnare, con discrezione, la fase contemplativa. Perché le grandi finestre, su cui s’affaccia il ristorante, offrono scorci da brivido. E farebbero sembrare deliziosi i più anonimi spaghetti allo scoglio della più anonima tra le pizzerie. Figuriamoci se in tavola arriva un Acquerello, che poi ti sognerai la notte.
L’esperienza gustativa è necessariamente complementare alle coccole della Spa interna all’albergo, alle migliaia di libri ordinati sulle mensole, ovunque, alla scoperta degli angoli più nascosti di questo minuscolo pertugio montano. Ma le sorprese arrivano anche alla fine di ogni pranzo o di ogni cena: già, perché Flavio Tognon, oltre a quella per l’edilizia fatta senza sbavature, nutre da decenni una passione divorante per i whisky scozzesi. Passione tramutata in attività di commercializzazione di single malt rarissimi con una società ad hoc che importata a Rima bottiglie uniche in quello che è il Whisky Bar di qualità più alto d’Europa.
Sveliamo un segreto, ossia che i whisky più buoni non sono quelli elencati nella carta poderosa: per accedere ad un piccolo tesoro nascosto, ossia ai whisky ‘fuori carta’, dovrete necessariamente conquistare gli occhi e il cuore di Flavio Tognon. Facendo attenzione, come diceva Indro Montanelli, perché “è un uomo che viene da lontano”.

Assiette di salumi d’autore con pan brioches per cominciare: il prosciutto crudo d’Osvaldo svetta sublime.
assiette, Laida Weg, Chef P. Bullone, Rima San Giuseppe, Vercelli
Rivoluzione caprese.
Rivoluzione, Laida Weg, Chef Paolo Bullone, Rima San Giuseppe, Vercelli
Riso Carnaroli Acquerello, crema di spinacio, toma di Piode e tartare di Fassone: risotto atto primo, cottura e mantecatura perfette, la crema cinge voluttuosamente formaggio e fassone.
Riso Carnaroli, spinaci, toma, Laida Weg, Chef Paolo Bullone, Rima San Giuseppe, Vercelli
Riso Carnaroli Acquerello al gorgonzola Dop e whisky Smokehead: risotto atto secondo, l’affumicatura e la piccantezza del Gorgonzola naturale.
riso con gorgonzola e whisky, Laida Weg, Chef Paolo Bullone, Rima San Giuseppe, Vercelli
Filetto di cervo in crosta di pane nero aromatico con spuma di patate, ravanelli e ribes: selvaggina e componente dolce, un classico intramontabile.
filetto di cervo in crosta di pane, Laida Weg, Chef Paolo Bullone, Rima San Giuseppe, Vercelli
Selezione di formaggi dal carrello: potrebbero crescere di numero, ma sono eccellenti. Nota di merito per le tome di latte vaccino che stagionano da queste parte sono rilevanti.
tome, Laida Weg, Chef Paolo Bullone, Rima San Giuseppe, Vercelli
Soufflè ghiacciato al frutto della passione.
soufflè ghiacciato, Laida Weg, Chef Paolo Bullone, Rima San Giuseppe, Vercelli
Mousse Bahibe cremoso al mandarino e glassa al pralinato, dolce marchesiano e non invasivo. Da rimarcare, benché manchi l’immagine, la qualità non usuale della piccola pasticceria servita col caffè.
mousse bahibe, Laida Weg, Chef Paolo Bullone, Rima San Giuseppe, Vercelli
I caldi spazi del whisky bar, dove concedersi bevute di malti leggendari…
whisky, Laida Weg, Chef Paolo Bullone, Rima San Giuseppe, Vercelli