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Trequarti

Incastonato tra i Colli Berici, il regno di Andrea Basso

Andrea Basso ha meno di quarant’anni eppure già vanta un curriculum di notevole profondità. Formato professionalmente dal 2003 al 2006 come capo partita ai primi e alla pasticceria nel tempio de La Peca, sotto l’egida della famiglia Portinari, completa la sua formazione presso il Villa Michelangelo nel 2007 e, l’anno successivo, all’Osteria Toni Cuco, sempre nel vicentino. L’anno di svolta è però il 2010, quando assieme all’amico e collega Stefano Leonardi (scomparso nel 2015) apre il ristorante Trequarti, tempio della sua identità in cucina dove Basso non disdegna anche di osare e di prendersi dei rischi a volte anche eccessivi. Coadiuvato da un servizio gestito dal direttore di sala e sommelier Christian Danese – collega di Basso prima a La Peca e ora al Trequarti – abbiamo vissuto un’esperienza interessante in un ambiente minimal ma tutt’altro che anonimo: il locale è, infatti, composto da tre sale dedicate alle diverse occasioni del pasto, divise dai colori rosso, blu (per i gruppi più numerosi) e bianco (per i tavoli da due).

Tra ‘carezze’ e ‘schiaffi’, un percorso con alcuni elementi di ricalibrare

La degustazione pesca da due macro-filoni: le “caresse” e le “man roverse”, carezze e schiaffi, ovvero la rotondità più confortevole e la creatività più spinta. L’idea è lodevole e permette al commensale di conoscere a 360° il concept culinario che anima il Trequarti; la realizzazione, però, alterna portate ottimamente riuscite ad altre che presentano piccoli dettagli da ricalibrare. Un esempio: il vitello tonnato 2.0 dove il girello di vitello viene cotto nel vino bianco per poi essere lasciato sott’olio un mese. L’intento è restituire un taglio che assomigli al trancio di tonno, da accompagnare alla salsa tonnata e alle foglie di cappero. L’idea è ottima, e la presentazione suggestiva, ma abbiamo riscontrato un eccesso complessivo di sapidità che ne ha, ahinoi, inficiato il risultato. Discorso non dissimile, ma per difetto, anche nei tortelli di baccalà, trippe in umido e nasturzio, in cui la farcitura del baccalà ha monopolizzato la riuscita complessiva, senza che nemmeno la componente vegetale spezzasse la monotonia gustativa.

Episodi minimali, questi che, con piccoli aggiustamenti, saranno agilmente superati anche in virtù della presenza di momenti davvero vertiginosi. Su tutti, impossibile non citare lo spaghetto con scampi, pomodoro confit e lime, in cui era tutto un rincorrersi tra la nota iodata dello scampo, la dolcezza del pomodoro e, in chiusura, la lieve acidità del lime, a pulire e rilanciare il boccone successivo. Un piatto squisito. In egual misura, meritorio di menzione anche il miglior piatto del servizio, ovvero salmone e caffè dove salmone, cotto solo da un lato, è stato salato dall’altro e adagiato su un infuso kombucha di caffè. Ne è uscito un incrocio potentissimo tra l’acidità del caffè e la sapidità della carne, che ne ha garantito una lunghezza a tratti sbalorditiva. Un piatto ottimamente pensato e splendidamente eseguito.

Sul versante dolci abbiamo molto apprezzato la spuma di aneto, finocchio croccante, frutti rossi fermentati e granella al cacao, un dolce non-dolce ben calibrato tra la nota balsamica dell’aneto, l’acidità della frutta e spezzato dalla croccantezza del finocchio. Una chiusura originale.

Possiamo dirci complessivamente soddisfatti dell’esperienza, augurandoci (ma siamo certi avverrà) che questa cucina possa arrivare a esprimersi al massimo della sua potenzialità, continuando a regalare emozioni.

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Carta canta e, se ha il mestolo intonato di Elena, non c’è storia

Benvenuto nuovamente ad un amico di Passione Gourmet e uno storico gourmet di fama planetaria, Giancarlo Saran.

Siamo a pochi passi dalla basilica palladiana, in piena Vicenza downtown. Contrà Santo Stefano è una di quelle viuzze un po’ appartate che recitano secoli di storia. Una storia un po’ particolare quella de Al Pestello. Il claim (molto) vintage recita bottega storica dal 1910. Trattoria di lungo corso ha ancora le stigmate di una storia d’antan che può sviare la curiosità dei palati golosi alla perenne ricerca di placare irrefrenabili pulsioni golose.  Sul web vi è un’antica scheda che dice poco o nulla. Alla carta l’orgoglio identitario recita le pietanze nella lingua di Goldoni, con flessione berica. Se avete qualche dubbio vi illuminerà la cortese traduzione bilingue anglo-francofona. Insomma, al momento di varcare la soglia vi aspettate scenari alla Mario Soldati, con il gestore che si aggira burbero tra il tovagliame a proporre piatti ripescati direttamente dalle pagine di Pellegrino Artusi. E invece niente di tutto questo. Sta qua la sorpresa. Ma siamo solo all’inizio.

A onor del vero proposta del menù goldoniano è pura proforma. È vero. C’è il bacalà à la vicentina, e “ghe xè anca” l’agnello venetocusinà con un fià de calor”, ma quando vi si presenta il bravo Riccardo Martinelli, maître e sommelier di rara passione, si aprono scenari di tutt’altro spessore. In sostanza, vi troverete davanti ad un menù in presa diretta proposto in italiano corrente e una sorpresa dopo l’altra dove colpisce, via via, l’indovinato equilibrio fra tradizione e modernità, senza birignao futuristi.

Al Pestello: una dipendenza

Ecco allora delle intriganti trippe fritte (in farina di riso), croccanti q.b. che meritano di essere inserite senza appello in un’ideale “frattaglialonga” del terzo millennio. Da allappo complice l’insalata di lingua con pere, marmellata delle medesime e radicchio trevisan. Intriganti e al volo i bignè baccalanti. Ma siamo solo al riscaldamento di papille. Si entra in coppia di cilindrata gastrica con i tortelli di rape rosse al baccalà, radicchio in resta. Mondatevi la coscienza pappandovi il radicchio e concentratevi sui tortelli. Lieve pressione linguo-palatale ed è un’esplosione dei sensi: il bacalao vi si sparge inondandovi di puro piacere orale. I ferormoni (calorici) a mille. Immaginate di avere davanti a voi una Monica Bellucci qualsiasi e il quadro è completo. Il segreto sta nel baccalà mantecato con pazienza lungo un arco di 48 ore. Vi si insinua il sospetto che deve esserci un mestolo illuminato in sala fuochi. Ma i fuochi d’artificio devono ancora arrivare, al piatto, quelli con Monica sono affare vostro. Filetto di maiale con cioccolato bianco e pistacchi. Quando Riccardo ve lo propone con l’occhio sulle ventitrè pensate, per un attimo, di essere a scherzi a parte, con l’immancabile Staffelli dietro l’angolo. E, invece, non ce n’è per nessuno. Frollatura e sostanza suina vanno in lambada multisensoriale con tutto il resto. Da applausi. Al dessert inserite la marcia di riserva con un intrigante tartufo al cioccolato farcito di nocciola, il tutto abbellito da pasta nocciolosa e crema pasticcera.  

Chiedere di poter omaggiare tanto inaspettato talento è conseguente, ed ecco che vi appare quella fanciulla vista entrare all’inizio dello spettacolo con fare da apprendista in prova. È lei, Elena Carta. Segnatevi il nome. 29 anni. Il suo debutto tra i banchi degli studi classici, intenta a tradurre Omero e, vuoi mai, quell’Apicio dell’arte coquinaria che lei mai avrebbe immaginato, dedita poi a percorsi di accademia economica. Ma lavorare nello studio del commercialista la faceva sentire fuori posto, senza sapere quale altra location le avrebbe riservato il destino. Poi viene a mancare lo zio (lo storico titolare de Al Pestello) ed Elena molla i bilanci di gestione e si immerge in un altro mondo, fatto di pentolame, fiamme in saor e tanta fatica. Ma ci riesce, con quel talento naturale che è dono di pochi. Se poi abbinato ad un sorriso disarmante e due occhi calamite gentili il quadro è fatto. Elena, con il suo Riccardo, esercita tra queste pareti dal 2016. Nessun pedigree stellato, tutto frutto di studio, passione e tanta grinta. Esercita nel suo piccolo regno di pochi metri quadri. I vari attrezzi acquistati, con orgoglio, uno alla volta, come quando ci si costruisce la propria casa, arredata dei propri sogni, resi realtà, pezzo dopo pezzo.

Una storia esemplare, con la forchetta di Cupido che vi colpisce al cuore come rare volte. Eppure, nelle vostre indagini inziali di Poirot golosi, mai avreste immaginato, con quel sito anni’90, il menù da calle veneziana all’ingrosso, seppur con logistica berica. Elena non la vedrete mai sui circuiti della cucina catodica dei vari master so tuto mi. Andatela a trovare a casa sua, al Pestello. Ne diventerete dipendenti. 

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La critica e Lorenzo Cogo

Dovendosi fermare a riflettere, e per una volta trovando lo spunto che dà al critico il la per fare autocritica su se stesso, dovendolo fare per forza o per volontà, verrebbero al pettine alcuni nodi trascurati. Peccati in buona fede, errori umani, valutazioni eccessive e così via. Una volta ogni tanto è utile e forse addirittura conveniente rallentare e fare il punto della situazione, anche solo per avere il polso del lavoro svolto e per legittimare di conseguenza il ruolo sociale della critica. Ecco, se questo davvero avvenisse come auspicato, con ogni probabilità ne risulterebbe un certo debito morale nei confronti di Lorenzo Cogo. Lo diciamo da ammiratori della prima ora, da forti sostenitori e attenti osservatori della sua crescita nel corso degli anni. Ma per un qualche strano disegno del destino risulta sempre che Cogo sia un grande cuoco, sia uno chef ormai affermato, che abbia reso la sua cucina riconoscibile e personale, però… c’è sempre un però. Una ricerca eccessiva dell’appunto da fare allo chef vicentino, che al cospetto di altri colleghi tante volte verrebbe risparmiata. 

Alla luce di questo non si prende mai in considerazione la reazione dell’altra parte, che nel caso specifico si prodiga in uno slalom sopraffino e leggerissimo, testardo e convinto, diretto al traguardo senza lasciarsi influenzare da alcun ostacolo. E poi con Lorenzo ci si parla, ci si confronta e lo si ascolta, ma più che ascoltarlo ci si accorge che è lui ad ascoltare il suo interlocutore. Ma allora? Allora crediamo che ci sia un però…

Alta densità gustativa in una cucina totalmente intellettuale

E in effetti ci sentiamo di dire che un però ci sia, eccome. Perché a seguito della nostra ultima visita abbiamo trovato una profondità di pensiero nell’evoluzione del menù proposto che si confà alla mente di un intellettuale puro, in grado di declinare certe sue idee apparentemente stravaganti con una eleganza e una sensibilità toccanti.

Ogni piatto si basa su un costrutto gustativo e su uno texturale. In questo modo l’attenzione del commensale viene calamitata sulle note dissonanti del piatto, attratta e imprigionata dalla tensione emozionale che ogni fase della masticazione fa scaturire. Si aggiungono a questo un approccio estetico che già di per sé potrebbe saziare e un ritmo cadenzato con mirabile dinamismo che non lascia libertà alla fantasia di emigrare. Il cervello è pieno di input, gonfio di suggestioni che rincorrono memorie, confuso da dolcezze che si toccano con note piccanti, acide, consistenze turgide, liquide, fumose ed eteree. Ogni piatto è un’esperienza a sé, involucro di una storia che nasce da una riflessione, rispettoso della cultura non solo del luogo che abita ma del mondo intero dal quale proviene. Non c’è scampo durante la degustazione di uscire dal recinto emozionale disegnato dallo chef. Non c’è scampo di astenersi dal voler approfondire e mettersi alla prova per vedere quanto le sfumature gustative di ogni passaggio possano far esplorare leghe abissali. Non c’è scampo quando alla fine della cena ci si emoziona di aver potuto prendere parte all’esposizione di un artista che di professione fa il cuoco. E se proprio bisogna aggiungere un però al capolavoro andato in scena potremmo dire che i margini di miglioramento di questo grande chef in forma smagliante ci sono e ci sembrano ancora molto ampi.

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La pizza gourmet – e non solo! – a Vicenza

Aperto a febbraio 2019, a pochi metri da Palazzo Chiericati, Fattore F  si pone come nuova realtà nel panorama vicentino per gli amanti della pizza gourmet e non.

Strutturato in due zone, nella prima si richiamano i bacari veneziani e a pranzo si possono gustare cicchetti, pizza in teglia alla romana e pizza in pala; più all’interni, però, ci si imbatte nella sala vera e propria, dove prende vita il servizio serale con, al centro, la splendida cucina a vista.

L’offerta per la cena si sostanzia in due soluzioni: la spontanea, ovvero la pizza bassa in stile napoletano con impasto a fermentazione spontanea (appunto), senza lieviti aggiunti; o sensazione, ovvero la pizza alta, simile alla focaccia, quella comunemente chiamata “pizza gourmet”, con farine di semi integrali e lievito madre.

Sensazioni complesse e ricercate

Optiamo per la seconda e dobbiamo dire che hanno particolarmente brillato due sensazioni: elementi di stagione 2 in cui l’equilibrio di consistenze tra la morbidezza degli ingredienti e la croccantezza della pasta dall’ottima alveolatura ci è sembrato davvero squisito e il nostro cervo, dove la burrata di Andria e la julien di patate e cipolla rossa accoglieva un controfiletto di cervo insaporito da una marinatura delicata di spezie, cotto a bassa temperatura con riduzione di pino mugo.

Ottimi i dolci, con Illusione di cioccolato e Le Tre Venezie a risaltare per l’intensa dolcezza, scevra però da ogni stucchevolezza. Un plauso dunque ai due giovani proprietari, Massimiliano Fraccarolo e Riccardo Furlani, cui diciamo, senza esitazione: continuate così!

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Sostanza e immediatezza, nel cuore di Vicenza

Daniele Renzi è un cuoco schietto e diretto. Già chiamarlo chef, anziché cuoco, potrebbe essere inappropriato per definire la taratura della sua cucina. Perché quella di Renzi è una cucina che affonda le proprie radici nella tradizione vicentina più agreste e più viscerale.

Nessun fuoco d’artificio, ma tanta sostanza nell’osteria gestita insieme a Sandra Voltan, ed è funzionale anche nella divisione degli spazi: la prima, appena varcata l’entrata, è dedicata agli apertivi; la seconda, vicina alla cucina, è la sala vera e propria. 

Menu manoscritto e ingredienti da fornitori locali

Tra i piatti più incisivi una ricetta tradizionale di Recoaro Terme, gli gnocchi con la fioretta, corposi e saporiti ma al contempo equilibrati nella sapidità e delicati nell’impasto; l’ossobuco con polenta, in cui la tenera consistenza della carne s’è sposata senza riserva con la forza degli aromi di cottura; il tris di formaggi fusi, la tosella, l’asiago e il morlacco con radicchio: né più né meno che una dichiarazione d’amore ai prodotti caseari vicentini. 

Al netto di tutti questi punti di forza va pur detto che, a volte, la forza gustativa è risultata eccessiva, come nel caso della frittata coi bruscandoli, ovvero le cime del luppolo selvatico, e friarielli piccanti, ma ci siamo consolati rapidamente con una soave torta a base di amaretti e cioccolato in chiusura.

Le premesse, insomma, sono buone. In futuro siam certi di trovare, qui, in una progressiva conferma.

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