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Fuori Modena

Nel cuore di Vicenza, il meglio della tradizione modenese

Duecento. Tanti sono i chilometri che separano Vicenza da Modena. Claudio Roncaccioli lo sa bene e si è adeguato di conseguenza: forte dei natali emiliani ha deciso di lasciare il lavoro di commercialista per aprire un locale che rappresentasse uno spaccato capace di proporre una tradizione culinaria parallela a quella vicentina. Missione riuscita.

Perché Fuori Modena è un locale intelligente e di buongusto, nel quale l’amore e la cura per la materia prima e la cucina modenese sono presenti dall’antipasto al dolce: Parmigiano Reggiano, Culatello di Zibello, gnocco fritto, ragù, pasta tirata a mano ogni giorno, zampone, aceto balsamico tradizionale. La scelta è ampia e confortevole e riesce in un’impresa tutt’altro che banale: unire un’anima rustica ma elegante a un format stilistico ricercato ma non altezzoso. Una trattoria di nuova generazione che si veste di contemporaneità, ammodernando le radici della tradizione.

Il progetto non si ferma solo alle vivande: in una carta dei vini ricercata e ben curata si possono trovare proposte del circondario vicentino unite a realtà modenesi di serie A a cominciare dal Lambrusco di Sorbara, troppo spesso relegato a comprimario privo di una precisa peculiarità. In cucina Lorenzo Roncaccioli, figlio di Claudio, ha mano solida nella preparazione delle portate. Nessun volo pindarico ma tanta concretezza che non disconosce un’attenzione tutt’altro che marginale alla presentazione dei piatti.

Tra i piatti più riusciti sicuramente Plin di ricotta e Parmigiano, salsa demi glace e finferli, in cui la sfoglia porosa e spessa ha regalato un buon gioco di consistenze dal quale è emersa una rotondità lattica del ripieno, enfatizzata dalla sapidità della salsa di accompagnamento, capace di creare inaspettate eco umamiche. I funghi hanno completato l’armonia regalando una morbidezza palatale in contrasto con la virilità della pasta. Discorso non dissimile è risultato valido per Zampone di Modena DOP cotto al vapore e crema di patate allo zafferano di Montefiorino: la cottura al vapore ha garantito la conservazione di umori e profumi in perfetto equilibrio con una consistenza che al morso ha evitato eccessive morbidezze di sorta. La purea allo zafferano, nella sua lunghezza dai risvolti speziati, ha rappresentato una buona spezzatura della grassezza dell’insaccato. Un piatto che conferma come il suo consumo durante il periodo natalizio sia solo frutto di una convenzione. In chiusura nota di merito sul versante dolci, con una Zuppa inglese ottimamente bilanciata tra la non invasiva alcolicità del pan di Spagna e la doppia dolcezza di cioccolato e crema pasticcera. Golosa, rotonda e appagante.

Fuori Modena rappresenta quindi una bella e inaspettata realtà, dalla notevole materia prima e dalla cucina di qualità.

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L’oasi culinaria di Renato Rizzardi e Sergio Olivetti nel nord-est vicentino

Nel mezzo del panorama industrializzato del nord-est veneto, si trova La Locanda di Piero, consolidata realtà culinaria con quasi 30 anni di storia e tradizione alle spalle.

Il locale, attivo dal 1992, è gestito Renato Rizzardi e Sergio Olivetti: il primo in cucina e il secondo in sala, duo in perfetta sintonia nel proporre al commensale un’esperienza dallo stampo classico che, pur presentando alcune imprecisioni da ricalibrare, si è rivelata di notevole pregio.

Il locale è diviso in due sezioni: quella interna, più intima, dagli arredi minimali e dal tono sobrio; quella esterna, in veranda, l’unica attualmente attiva, da cui poter gustare, oltreché le portate, le campagne circostanti.

Rizzardi è cuoco di lungo corso, con esperienze importanti tra Italia e Stati Uniti (nel 1985 ha ricevuto la nomina di Master Chef della California), la cui cucina affonda nella tradizione più classica, ma lo fa in maniera intelligente e salda, avendo una sensibilità tutt’altro che banale nell’uso della componente vegetale.

L’esperienza, però, non potrebbe dirsi completa senza riconoscere i meriti dell’ottimo servizio di sala garantito da Olivetti, sommelier professionista, le cui attenzioni e i cui consigli dimostrano una conoscenza del panorama enologico veneto, e non, davvero notevole e originale.

Nel nostro percorso abbiamo sposato una linea che desse ragione tanto delle componenti ittiche quanto di quelle di quelle più propriamente di carne. Se alcune soluzioni ci hanno convinto per precisione e immediatezza, altre ci sono parse da migliorare.

La Locanda di Piero: il valore della complicità tra sala e cucina

L’inizio è stato purtroppo una falsa partenza: la tartare di trota affumicata con insalata di primavera, fiori eduli e tartufo nero estivo si è infatti rivelata una portata che non ha ben coniugato intenzioni ed esecuzioni. La sapidità ittica era infatti eccessiva, tanto da sovrastare le componenti vegetali, le quali presentavano una carica gustativa non all’altezza delle aspettative – il tartufo, ahinoi, era sostanzialmente insapore e inodore.

Cambio completo di registro col piatto successivo, cappelletti di gamberi con zuppetta di orata e asparagi verdi, la portata migliore del servizio: la pasta si è presentata di media tiratura, dall’ottima consistenza tattile, e ha sprigionato un ripieno di gamberi dalla forte nota iodata, capace di trovare una bella armonia con la rotondità della zuppa. L’asparago, da comprimario, ha conferito un buono stacco amaricante e il crescione, on top, ha garantito lunghezza finale. Un piatto da ko tecnico.

Meno risolti i ravioli di maialino con salsa agrodolce alle mele Envy e prugne, la cui rotondità è risultata a tratti eccessiva, con l’acidità sovrastata da una dolcezza portentosa e ai limiti della stucchevolezza. Tuttavia, e qui sta la bravura del servizio, il piatto ha acquistato un valore diverso abbinato all’ottimo Ca’ Michiel, poiché ne ha risaltato le inaspettate note di goudron, spezzando, di rimando, l’eccessiva dolcezza.

Filetto di vitello in crosta di prezzemolo, verdure gratinate e salsa marsala è da considerarsi signature dish della cucina di Rizzardi. Dall’aspetto in apparenza in sottrazione, è risultato ben più ragionato di quanto non sembrasse: la perfetta morbidezza delle carni è stata garantita da una panatura, metà di prezzemolo e metà di erbe aromatiche, tra cui drangoncello, che ha donato un’insospettabile lunghezza, conferma di quell’attenzione all’uso oculato e fondativo delle componenti vegetali di cui abbiamo detto sopra.

In chiusura, da segnalare la bavarese alla vaniglia e cioccolato con composta di rape rosse, arancia e meringa, nella quale a sorprendere è stata la rapa rossa usata intelligentemente in chiave dolce.

Possiamo quindi dirci soddisfatti del pranzo, suggerendo delle lievi ricalibrature gustative, le quali, va detto, non hanno intaccato un’esperienza davvero piacevole.

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Ritorno alle origini o vera avanguardia?

Lorenzo Cogo è stato, un paio di lustri or sono, riconosciuto da tutti come l’enfant prodige della cucina italiana. Giovanissimo, con poco più di vent’anni sulle spalle e qualche piccola seppur importante esperienza estera, ha aperto il suo locale El coq a Marano Vicentino, affascinando immediatamente i palati di critica e pubblico. Un ragazzo che, con il suo talento e la sua determinazione, ha sempre bruciato le tappe. E anche questa volta crediamo che la sua scelta sia stata di un tempismo quasi disarmante. Ritorno alle origini o vera avanguardia?

Eh, sì, perché Lorenzo ha deciso, all’inizio della pandemia, di progettare il suo nuovo futuro cambiando radicalmente paradigma. Il ritorno alla trattoria di famiglia in cui portare il bagaglio accumulato con l’esperienza diretta nell’alta cucina in questi anni, per offrirlo a pubblico più vasto e con intensità modulata al contesto.

Rivisitando leggermente le preparazioni, che qui, in questa trattoria di provincia, si producono da oltre 30 anni ma andando ancora di più verso quella cucina d’istinto, di improvvisazione e di mercato che è l’anima della grande trattoria italiana.

L’anima della grande trattoria italiana

E allora vi capiterà di assaggiare, come noi, un cuore su purea di pastinaca accompagnato da morchelle fresche, con un fondo di carne e morchelle che vi farà letteralmente sobbalzare sulla sedia. Morchelle che hanno consentito a Lorenzo di preparare crediamo 8 o 10 porzioni al massimo. Perché la materia prima di questa qualità è quasi sempre esigua. Oppure le splendide cozze di Pellestrina in panzanella, carnose e intense; il baccalà, mantecato con tecnica sopraffina; le lumache all’aglio orsino – memorabili – e la coradea di pecora da antologia. Il risotto carota bruciata e caprino, poi, non sfigurerebbe sulle grandi tavole d’Europa. Dulcis in fundo, golosità ed eleganza alberga nei dolci.

La carta dei vini, stringata, si concentra sulle produzioni del circondario, consentendovi comunque di bere bene, a prezzi onesti, e di scovare anche qualche chicca (com’è successo a noi nel corso della nostra visita).

Ma il progetto per la democratizzazione dell’alta cucina di Lorenzo Cogo prevede anche altri risvolti: sebbene Trattoria dal Cogo è e rimarrà la sua casa, questo luogo degli affetti famigliari gli consentirà di mettere in pratica, anche per sé stesso, una rinnovata volontà di benessere e cura per l’individuo. Da qui, infatti, si propagherà un’importante attività di consulenza che, pian piano, lo porterà a misurarsi con realtà di tutta la regione. E ciò non stupisce, data la determinazione e la serenità che si assaporano nei suoi piatti, e in una cucina che è diventata nient’altro se non lo specchio del suo stato d’animo. E dunque da provare senza ombra di dubbio, anche solo per questo.

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La cucina di Matteo Grandi, nel cuore di Vicenza

Il 2020 ha rappresentato un anno di svolta per tutti. Oltre che per le note vicende in merito al COVID-19, per Matteo Grandi il cambiamento si è concretizzato con la presa in gestione del Gran Caffè Garibaldi nella splendida Piazza dei Signori, in centro a Vicenza.

Subentrato a Lorenzo Cogo, Grandi allarga ed esporta il concept del DeGusto, avendo sempre in quel di San Bonifacio la casa-madre.

Con l’ampliamento delle sedi si diversifica la proposta. Continuando sulla falsariga di El Coq, il nuovo format targato DeGusto si presenta in duplice veste: al piano terra il bistrot, con una proposta semplificata che spazia dalla colazione alla cena, con al centro aperitivi, pranzi veloci e caffetteria; al primo piano il ristorante fine dining, fresco della stella Michelin confermata quest’anno, con una proposta in linea con la cucina che ha portato lo chef veneto tra i grandi della ristorazione italiana.

A seguito delle contingenze nazionali, al momento della prenotazione la proposta disponibile era solo quella del bistrot. Limitazione che non ha sminuito la qualità del pranzo.

Una cucina semplificata ma golosa, confortevole e ben eseguita

Nella nostra visita abbiamo avuto il piacere di assaporare un lauto pasto nello splendido plateatico che dava sulla piazza, in cui troneggia la magnifica Basilica Palladiana. Location oltremodo suggestiva, che ben si è coniugata con la proposta del ristorante.

Sebbene la versione bistrot prevedesse una cucina meno sperimentale, con al centro una precisa attenzione sulla tradizione italiana e sul proporre piatti dalla spiccata classicità e rotondità, è altrettanto vero che Grandi non ha dimenticato le proprie esperienze in Cina e in India, e le ha inserite qua e là nel menù. A discrezione del cliente sposarle o meno.

Da parte nostra, abbiamo assaporato con gran piacere l’ottimo maiale glassato sweet e sour, il migliore dei “cicchetti” iniziali. Perfettamente calibrato nella gestione dell’acidità, ha trovato nella glassatura e nell’uso del sesamo una lunghezza notevole.

Proseguendo nel tour gastronomico, e tornando coi piedi ben saldi sullo Stivale, altro piatto ottimamente eseguito si è rivelato la lasagna al forno con ragù di vitello. Dalla sfoglia persistente ma non invasiva, la lasagna si è perfettamente sposata col sugo di accompagnamento, lieve nella consistenza delle carni e rotondo nella dolcezza del pomodoro. Funzionale la cottura la forno, che ha donato all’insieme una nota ai limiti dell’affumicatura, capace di rievocare antichi ricordi dei pranzi della domenica. Piatto da ko tecnico.

In chiusura altra menzione merita la cotoletta impanata con pane al lievito madre e grissini torinesi: umida all’interno, grazie alla tenerezza del vitello, ha regalato un ottimo gioco palatale attraverso la croccantezza della panatura a base di grissini. Il piacere della riconferma.

Leggermente meno riusciti si sono invece rivelati i ravioli di ricotta, cime di rapa e salsa al vino bianco, in cui la seppur ottima farcitura ha monopolizzato il gusto, impedendo alternanze gustative con gli altri ingredienti. Lo stesso dicasi per la guancetta di maiale all’amarone, che, pur proponendo un taglio di carne dalla squisita morbidezza, ha manifestato una certa insipidezza nella salsa di accompagnamento, che ne ha sminuito la portata.

Questi dettagli, però, non intaccano la qualità generale dell’esperienza, coadiuvata da un servizio dinamico e attento, capeggiato da Elena Lanza, compagna sentimentale e professionale di Grandi.

Avanti così, nella speranza i prossimi mesi possano garantire un ritorno alla normalità.

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Nel mondo di Elena Carta, a un passo dal centro di Vicenza

Superato di pochi metri il Santuario di Santa Corona, ci si inoltra lungo una viuzza un poco nascosta e defilata, Contrà Santo Stefano. Qualche passo più avanti si scorge un piccolo plateatico, al momento sguarnito di tavoli e sedie, che introduce a una porticina sopra la quale campeggia un’insegna minimale: Al PestelloCucina Vicentina.

La premessa è in sottrazione, quasi umile. Eppure, basta entrare nella piccola sala per respirare un’aria diversa, calda e accogliente. Al Pestello, infatti, è una delle Botteghe Storiche di Vicenza, aperto dal 1910 e gestito dal 2017 dalla giovane e talentuosa Elena Carta.

La chef guida la cucina da sola, affidandosi a qualche aiuto cuoco o lavapiatti, che la aiuti a smaltire la mole di lavoro, quando possibile. Il dato è, di per sé, indicativo della tempra che anima la giovane, a cui si aggiunge un background a dir poco sbalorditivo: Elena Carta non ha alcuna formazione culinaria.

Diplomata al liceo classico e immatricolata in un indirizzo economico, lascia presto l’università per dedicarsi alla cucina, da autodidatta. Passione per la professione, corsi di formazione per perfezionare le basi e poi la presa in gestione del locale subentrando a uno zio: voilà il suo curriculum.

Dianzi abbiamo usato l’aggettivo “sbalorditivo” non a caso: la cucina di Elena omaggia a piene mani la tradizione vicentina, ma lo fa con estrema intelligenza. Le preparazioni sono realizzate con acume, tendendo all’eliminazione del glutine e sposando cotture prolungate, spesso sottovuoto, di modo che la carica gustativa dei piatti resti invariata e pulita al netto, però, di una maggiore digeribilità.

Una cucina ingentilita, figlia di una sensibilità che onora la classicità, smussandone gli elementi più nerboruti.

Riorganizzare senza snaturare

Ottimo esempio sono state le sarde in saor. Preparate con la massima valorizzazione della componente ittica, spruzzata di aceto e fritta nella farina di riso, a cui è stata affiancata un accompagnamento a base di confetture di cipolle e una salsa verde senza acciughe. Risultato: nota iodata persistente, arrotondata dalla dolcezza della cipolla, con in chiusura un delicato gioco di consistenze tra la croccantezza delle carni e la morbidezza della guarnizione. Piatto da ko.

O ancora, i bigoli all’anatra: la tradizione vorrebbe la cottura della pasta nel brodo di anatra, con condimento a base di rigaglie. Qui il volatile è stato spolpato, non macinato, dopo precedente cottura per 40 ore a bassa temperatura e unito in chiusura alla pasta cucinata a parte. Ne è uscito un gioiello un cui la morbidezza delle carni risultava ineccepibile, con una precisa rotondità data dalla dolcezza dell’anatra.

Last but not least il baccalà alla vicentina: piatto principe della tradizione veneta, ha ritrovato l’utilizzo della farina di riso e della cottura a bassa temperatura, ancora sottovuoto. La materia prima è stata rispettata in maniera sbalorditiva, regalando una portata in cui nuovamente la nota iodata si è palesata con precisione lasciando che la dolcezza della guarnizione si insinuasse di quando in quando, scambiando un dialogo indimenticabile con le carni. Possiamo definirlo senza timori uno dei migliori baccalà assaggiati in vita.

Un pranzo davvero sorprendente, ottimamente bilanciato tra eleganza e persistenza. E il merito va anche a Riccardo Martinelli, sommelier e uomo di sala preparato e discreto, capace di proporre una carta dei vini molto attenta alle realtà locali.

Auguriamo il meglio Al Pestello e alla sua giovane cuoca, con l’auspicio che questi tristi tempi passino in fretta per dare lei la possibilità di continuare a esprimere il grande talento che la connatura.

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