Passione Gourmet Verona Archivi - Passione Gourmet

Osteria Ponte Pietra

Tra storia e riconoscibilità presso la cucina di Sebastian Branzi

Passeggiando per Verona risulta assai suggestivo regalarsi una promenade lungo l’Adige. Con un poco d’attenzione, a pochi passi dal Teatro Romano, ci si imbatte nel Ponte Pietra, il più antico ponte scaligero, i cui natali affondano in epoca romana (una prima costruzione era lignea, per poi passare all’attuale costituzione in pietra).

Le specifiche inquadrano il carattere che anima l’Osteria Ponte Pietra: il locale, sito a pochi passi dall’omonimo ponteggio, è connaturato da arredi ottocenteschi ed emana un’aria di eleganza e classicità, di cui la cucina guidata dal giovane Sebastian Branzi, già con un passato presso la vicina Osteria Fontanina, nonché sous chef del predecessore Michael Silhavì, rappresenta l’estensione. In questa prospettiva si inserisce una proposta che fonde assieme una rotondità vigile ad accontentare l’ampia platea turistica che transita per Verona e una puntualità esecutiva che azzarda qualche sperimentazione, senza tuttavia discostarsi da un registro prettamente classico.

Va detto che un approccio del genere, che sinteticamente potrebbe essere liquidato come poco coraggioso, racchiude in sé una seconda chiave di lettura: soddisfare un palato inesperto, o non consapevole, della tradizione italiana nella sue sfaccettature regionali, dunque lontano da stereotipi culinari, e proporre un percorso comunque personale, è impresa non da tutti, al netto della giovane età del cuoco. Acquista dunque un valore diverso anche il menù degustato, sperimentalmente migliorabile ma concretamente dai margini di audacia e sperimentazione aumentabili. Pensiamo, per esempio, a Capesante arrostite, inchiostro, pak-choi, salvia e yuzu, il miglior piatto del servizio, in grado di inframezzare note vegetali tendenti all’amaro a lunghezze iodate e sfumature acide dello yuzu. Un bel piatto, ragionato e sperimentale, capace di unire Occidente e Oriente con intelligenza, spingendo su caratteristiche non immediate ma nonostante ciò di universale comprensione. Faraona, radicchio, mandorle tostate e tartufo ha invece riportato le coordinate gustative su binari di più immediata decifrazione, con un interessante gioco di stampo acido del radicchio in agrodolce e una tecnica non meno che sicura nella cottura del volatile. Il piacere della riconferma. Leggermente sottotono Pappardelle, finferli, fegatini di pollo e tartufo, piatto ben eseguito ma incapace, per l’onere previsto dagli ingredienti, di rappresentare un punto di svolta, o di indirizzo, della cucina, soprattutto in termini di stagionalità.

Nel complesso possiamo comunque dirci soddisfatti dell’esperienza provata, sebbene al netto di leggere mancanze di coraggio in alcune preparazioni che, ne siamo sicuri, laddove superate permetteranno di esprimere totalmente le potenzialità del locale.

IL PIATTO MIGLIORE: Capesante arrostite, inchiostro, pak-choi, salvia e yuzu.

La Galleria Fotografica:

Da Simone Padoan, ovvero nel tempio della pizza gourmet

Nel panorama contemporaneo la realtà della pizza gourmet ha assunto dimensioni notevoli. Nell’approcciarci al fenomeno, abbiamo scelto un registro diacronico e siamo andati in quello che può essere considerato uno dei suoi templi più storici e rinomati: I Tigli di Simone Padoan. Il pizzaiolo veronese, classe 1971, ha una storia che parte da lontano, con la nascita della sua creatura datata addirittura nel 1994. Ma è nel 1999 che arriva la svolta, con un cambio programmatico dell’idea stessa di pizza, che porta Padoan a ricostruire il pasteggiamento, creando quella che, a tutt’oggi, è comunemente conosciuta come pizza gourmet. Non più una pasta standard da guarnire con diversi ingredienti, ma un impasto che assurge a ruolo di attore protagonista, diversificato di volta in volta per valorizzare il più possibile le farciture. Il tutto, in un ambiente che, dal 2012, è parte imprescindibile dell’esperienza: grazie a un profondo restyling del locale, si può infatti ammirare la brigata all’opera, Padoan in testa, dalla cucina a vista. A ciò, va poi ad aggiungersi la cura dell’ambiente, in cui ogni elemento concorre a ricordare cosa si sta esperendo: arredi in legno che rimandano ai ceppi del forno, bancone in pietra gialla di Vicenza a ricordare la crosta del pane, mise en place che richiama i canovacci per coprire gli impasti.

Due anime

Nella nostra visita abbiamo optato per una scelta che desse ragione delle due anime che sostengono il locale: la tradizione affiancata alla sperimentazione. Se le farciture presentavano una qualità di prim’ordine, siamo rimasti colpiti dagli impasti, capaci di valorizzare senza riserve gli ingredienti di accompagnamento. Margherita, nella sua variante soffice: l’impasto ha presentato una delicata morbidezza interna sbalorditiva, alla quale hanno fatto seguito la cremosità del fior di latte e l’acidità del pomodoro San Marzano, che hanno completato la gamma gustativa senza riserva alcuna. Ma è con la terza pizza che il livello si è alzato vertiginosamente: Lumache e Buon Enrico è stato un piccolo capolavoro, grazie all’impasto all’orzo, agreste e croccante, che ha funto da base ideale su cui adagiare la componente gastropoda. Il connubio con la componente vegetale ha conferito un’alternanza terrosa notevole e verace, dai tratti ferrosi e dalla lunghezza dell’impasto all’orzo persistente. Una pizza lontana dal facili accondiscendenze, rustica e ruvida, ma non per questo non riuscita. Discorso a parte meritano i dolci: Torta delle rose con gelato al pistacchio ci ha colpiti grazie alla rotondità del gelato, perfettamente sposata con la leggerezza dell’impasto della torta, ottimamente alveolato, umido e voluttuoso.Difficile uscire da I Tigli senza provare un senso di appagamento profondo e indimenticabile. Da anni Simone Padoan ci ha abituati all’eccellenza. E di questo non possiamo che essergli grati.

IL PIATTO MIGLIORE: Lumache e Buon Enrico.

La Galleria Fotografica:

La magnifica classicità della cucina di Marco Culeddu

L’Osteria del Guà si situa in un contesto più ampio. Il locale, infatti, ricopre parte della magnifica barchessa di Villa Pisani, progettata da Andrea Palladio nel 1542, struttura patrimonio mondiale dell’UNESCO dal 1996. Se parte della barchessa è dedicata al ristorante, parte è stata convertita a relais di classe dove gli ospiti, per lo più stranieri, possono soggiornare immersi nel panorama veneto.

Il dato inquadra il classicismo che si respira da quando si oltrepassa la soglia della villa, retaggio che viene elevato a punto di forza in cucina e, in certi casi, a esercizio di tecnica non meno che impressionante. A impressionare è la mano che sta dietro a tutto questo: Marco Culeddu, classe 1991, di competenze ne dimostra talmente tante che la sua età pare anagraficamente mendacia, poco credibile a fronte di ciò che si esperisce presso la sua tavola.

Emiliano di origine, Culeddu è cuoco cosmopolita che viaggia e sperimenta tra cucine più popolari e tavole fine dining quali quelle di Gianni D’Amato, Emanuele Scarello e Michelangelo Mammoliti, tra i più noti. Il palato è intelligente e applica un principio tanto semplice quanto sottile: adattarsi alla realtà circostante per soddisfare il cliente, non stravolgendo il contesto nel quale si lavora.

La classicità, vivaddio!

Facile a dirsi, più sottile a farsi. Perché il menù che abbiamo provato nella splendida cena presso l’osteria, dall’emblematico nome “MANABEL“, acronimo dei capilettera di tutti i nomi della brigata che lavora in cucina e in sala, sprizza classicità in ogni momento, senza remore né timori, portando il commensale a viaggiare per lo Stivale tramite i suoi piatti più iconici, Veneto in primis, senza per questo sacrificare un’identità che apre a viaggi con orizzonti che arrivano fino in Oriente. E in questo Culeddu dimostra personalità da vendere, utilizzando la tecnica per stravolgere forme e consistenze ma non idee e identità. “Doveva essere un risotto allo zafferano” è emblema di quanto sopra: il più classico risotto alla milanese viene frullato e reso cremosa spuma, con midollo ricostruito e gremolada costellata di chicchi di riso fritto. Risultato stratosferico nello stordimento delle consistenze e nell’intensità dei gusti, con la riduzione di ossobuco a conferire note umamiche non meno che emozionanti. Stesso dicasi per Quadratello, succo di bevarasse e scampi, nel quale i passatelli hanno conferito struttura alla morbidezza dello scampo, con note vegetali delle alghe ad anticipare la riduzione delle veneziane bevarasse in grado di donare una lunghezza iodata talmente intensa che solo la struttura dei passatelli ha sorretto e valorizzato. Piatto temerario e spinto. Nota meritoria va spesa pure per il reparto dolci, con Cioccolato, agrumi e capperi, nel quale la cottura al vapore dei ravioli di bergamotto e cioccolato, di richiamo orientaleggiante, ha mantenuto precise note amaricanti, smorzate e rilanciate dalle creme di accompagnamento, speziate al pepe e sapide ai cucunci (frutti di capperi essiccati). Siamo rimasti dunque assai soddisfatti, anche del servizio squisito e disponibile, e non possiamo che essere certi che l’esperienza provata sia la prima di una serie di evoluzioni che porteranno questa tavola presso traguardi importanti e interessanti.

IL PIATTO MIGLIORE: Doveva essere un risotto allo zafferano.

La Galleria Fotografica:

Il gran gusto della… semplicità

Giuseppe D’Aquino, napoletano, classe 1971, vanta tante esperienze all’estero: Dubai, Parigi, Los Angeles, Londra poi il ritorno in Italia, in Veneto sua patria di elezione dove ha animato per ben 10 anni la cucina dell’Oseleta, a Cavaion Veronese. Su di lui decise di puntare nel 2020 Gianluca Rana, per rilanciare il ristorante gourmet della nota famiglia, leader mondiale della pasta fresca. E mai scelta si rivelò più azzeccata. Il ristorante va che è una bellezza; e la gran parte del merito, riteniamo che sia proprio di D’Aquino. Napoletano doc, profondamente attaccato alle proprie radici ma con lo sguardo attento di chi ha viaggiato tanto, lo Chef non è semplicemente un cuoco bravo. Ad un palato fine e a tanta passione aggiunge grandi capacità organizzative e un’intelligenza viva (che non guasta mai).

Un professionista solidissimo e, non a caso, tutto qui è e pensato e studiato per far stare bene gli ospiti. Nulla è lasciato al caso. Dall’accoglienza calda, al servizio precisissimo, alla carta dei vini molto ampia e completa, con tanto Champagne e un focus particolare sul Veneto, Amarone in primis. La cucina è di impostazione classica, non spiccatamente creativa ed ha il dono, a differenza di tante altre, di non essere mai banale. Qui, banali, non sono neanche gli amuse bouche che raccontano perfettamente la stagione e il territorio, cinque bocconi, cinque variazioni su un unico tema, il radicchio ingrediente principe di questo territorio nel periodo invernale.

Una cucina che coglie nel segno, più interessata a piacere che a stupire

Altro grande dono della cucina di D’Aquino è  la capacità di concentrare i sapori. Altro aspetto tutt’altro che banale. Se la cucina non vuole essere di avanguardia non può, però, non essere perfettamente centrata gustativamente. Ogni elemento è calibrato perfettamente: dalle cotture, alle consistenze, dalle temperature agli accostamenti. Giuste le acidità, non estreme, ben dosate le note dolci, mai prevalenti neanche nel dessert, di grande livello le materie prime che, per l’elemento vegetale, attingono al bellissimo orto biologico situato tutto intorno al ristorante. E così ci si delizia con piatti come il Risotto al pomodoro giallo a cui la salsa ai crostacei e i gamberi rossi regalano dolcezza e grande eleganza e la polvere di limone bruciato apporta la giusta nota acida, con l’aggiunta delle teste dei gamberi fritte, croccanti, a dare un ulteriore tocco di godibilità. E, ancora, la Triglia cotta in olio induzione e servita con le sue squamette deliziosamente croccanti e una salsa Romesco assolutamente precisa ed equilibrata e l’Elogio al pomodoro, signature dish dello Chef, uno spaghetto al pomodoro (del Piennolo) che ha pochi rivali nel suo genere. Si esce con la voglia di tornare al più presto.

IL PIATTO MIGLIORE: Triglia, salsa Romesco, agretti e crescione di fiume.

La Galleria Fotografica:

Una cucina di contaminazioni

Madres, cioè le radici, la famiglia, le madri e donne presenti nella nostra vita, che ci proteggono e ci fanno crescere. Oppure Mad Res(taurant): il ristorante matto. Lascia spazio a più interpretazioni il nome di questo nuovo locale a Verona, nato nel quartiere giovane e universitario di “Veronetta”. C’è in effetti un pizzico di follia nel “laboratorio” di Hakim Bensalah, trentunenne di origini marocchine ma dall’accento veneto. Follia e belle vibrazioni: quelle che si respirano nei luoghi in cui tutto il gruppo tra sala e cucina gira all’unisono, in cui si vuole fare qualcosa di importante. La cucina di Hakim è frutto di contaminazioni: su una evidente base giapponese, si aggiungono elementi e strutture che disegnano una personalità affascinante. Ci sono idee, tante, supportate da una solidissima capacità tecnica, ma c’è soprattutto un pensiero che tiene unito il percorso Omakase. Ottima la precisione e concentrazione del gusto, senza confusione o sovrastrutture inutili: si va dritti all’essenza dell’ingrediente, nel puro stile del Paese del Sol Levante.

Omakase veronase, in salsa marocchina

Come nel katsusando di ventresca di tonno rosso e aglio nero, dove la ventresca è affinata nel sale e zucchero di canna e poi preparata in tempura: umami allo stato puro. O nella Thai omelette, con granchio blu e gambero bianco, piatto che definiremmo gourmand ma non per questo meno convincente. In alcuni piatti si intravede ancora più complessità dei sapori, con finali più lunghi e maggiori interazioni tra gli ingredienti, ed è probabilmente questa la strada da seguire con convinzione. La cappasanta curry e porcino è risultata uno dei piatti più completi dell’Omakase: una cappasanta con riso soffiato, salsa al curry e porcini appena padellati, profonda e lunga in bocca. O ancora la triglia con dashi di scoglio, miso di pomodoro, garum e infusione di cipollotto: la vetta della serata, in una preparazione che apre la strada a un nuovo modo di interpretare uno dei gusti italici per eccellenza.

È confortante accertarsi che c’è ancora tanto da dire nel mondo della ristorazione… Ovviamente mai nessuno sconto sulla qualità degli stessi, dai ricci siciliani tanto dolci da tornare buoni anche per dessert (e così è stato…) a un tonno rosso concentrato di umami. E poi l’ingrediente fondamentale per un grande locale: ci si diverte, tantissimo.  C’è un bancone, a cui assistere a tutte le preparazioni e vivere più da vicino il lavoro dello Chef, e alcuni tavoli perfettamente serviti da personale giovane e molto preparato anche sui dettagli delle preparazioni delle portate. Piccolissima selezione di ottime bottiglie (che buono il Clandestin, champagne Blanc de Noirs dritto e preciso come una lama) e Sake, ma alle volte è disponibile anche qualche Kombucha. Il gruppo è giovane, si avverte la tensione verso la crescita e obiettivamente i numeri ci sono tutti per portare quella che è già una ottima proposta a un livello ancora superiore.

La Galleria Fotografica: