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Osteria alle Testiere

Dal pescato di Rialto al Barolo da bicicletta. Quante storie… da rabaltarse 

A volte ci sono degli ossimori divertenti che potete incrociare in loco come, in questo caso, tra le calli. Prendete l’Osteria alle Testiere. Siamo a quattro ombre da Rialto. Ci siete stati anni fa, ma la memoria, oramai, è quella che è. Ecco allora che cominciate a chiedere ai locali, quelli delle botteghe intorno con l’insegna ancora nella lingua di Dante. Sembra di essere a un qualsiasi “Chissà chi lo sa”. Boh. Non so. Forse. Ebbene, siete a manco cento metri da un posto di cui parla il poliglotta mondo gourmet e qua, se non avete Allappo Maps, potreste vagare per ore. È vero, nemo propheta in patria. Tuttavia, quando inizierete a varcare l’insegna de Alle Testiere non ne uscirete più.

22 metri quadri per altrettanti posti a sedere. Pare di essere nel tinello di casa propria. L’arredo è quantomeno originale. Non avrete Tintoretto o Tiziano alle pareti, per questo ci sono le vicine Gallerie dell’Accademia, e nemmeno le foto di Roiter o Berengo Gardin (Museo Casa Tre Oci, alla Giudecca). Qua vi sono testiere di talami silenziosi. Tutto vintage, ovviamente, magari un lascito di quel bel tomo di Casanova o di Gaspara Stampa, la regina delle cortigiane veneziane. Questo è il regno di Bruno Gavagnin e Luca Di Vita, un sommelier che, se ci fosse ancora il Doge, se lo porterebbe a palazzo. Quando cercate info preparatorie il sito è molto laconico. “Il menù del giorno dipende solo dall’offerta del mercato del pesce di Rialto”. Vi scioglie ogni dubbio una citazione in appendice del Gastronauta per eccellenza, tale Davide Paolini: “i piatti sono decorati da quanto offerto dal mercato mattutino e non dal congelatore”. Una volta seduti avrete conferma del perché i locali lo conoscano poco. Il 75% della clientela è foresta (e ben rappresentata).  Quando vi si avvicina Luca con l’occhio gastrometrico vi prende già le misure. 

Ombreta? Xe destin…

A questo punto non ce n’è più per nessuno. A noi il mercato di Rialto, in transito per la cucina delle Testiere, ci ha deliziato in vari modi, a testimonianza dello storico cosmopolitismo ricco di contaminazioni foreste della tradizione serenissima. Non ci sono preclusioni papaline, ad esempio con il tiepido di calamari e puntarelle alla romana. W le terre sabaude con la vellutata di patate e porro di Cervere con gamberoni a vapore. Si viaggia di orizzonti lontani, con vista borbonica, assieme alle capesante al pesto di pistacchi di Bronte. Ma le sorprese non cessano di stupire. Ci troviamo idealmente al largo di Favignana, la cui tonnara è patrimonio dell’Unesco, seduti comodamente in laguna. Ravioli alle cime di rapa e ricotta al ragout di tonno rosso del Mediterraneo. Finora Bacco vi ha coccolato dal Friuli all’Alto Adige e, giustamente, in un ideale arco alpino, mancavano le Langhe assassine. Et voilà un Barolo presentato come neanche ai Grammy Awards: “è un Barolo da biciletta. Ci starebbe bene nella borraccia. Quando lo versi al calice, tocca a te pedalare.” Da allappi seriali, pensiamo noi. Ma non è finita.

Qua Bacco è a casa sua, con la morosa Vodka, una bella creatura partorita in Toscana che ve la spupazzate alla grande con mazzancolle al coriandolo fresco, zenzero e lime. Nel frattempo la risacca delle ciacoe in sala declina il mondo. Si va da Shakespeare a Rousseau, passando per Goethe. Qualche tenue sospiro di Dante e Petrarca.  Sui titoli di coda c’è ancora da sgranare occhi e papille. “La crema rosada veneziana è una specie di panna cotta (presentata con tritaggi di mandorle e nocciole, n.d.r.) che, un tempo, si dice, le cortigiane veneziane abbellivano con una polvere d’oro, frutto dei loro trescami amorosi. Qua noi usiamo solo tuorli d’uovo, belli rossi di gallina ruspante”.

Si conclude in gloria con un altro degli atout della casa. Il Nostrano, che gli fa un baffo alla brexit. Carciofi di sant’Erasmo, salicornia e acqua di laguna. Si mixano con il miglior gin di Sua Maestà. Un’ideaccia che getta un ponte ad alta gradazione tra le Testiere e il Polpo Restaurant, a Londra, di James Sandrini. Uscite solo perché la serranda deve abbassarsi… ma domani è un altro giorno. E così sia.

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Moulin Touchais 1981

Il pensiero, con il tempo, si trasforma in ricordo di un vissuto di cui conserveremo perennemente la sensazione ad esso legata. Cercando quasi invano di tramutare ciò che si è provato in parole, tessendone le lodi, ci si premunisce del proprio spirito critico migliore e aprano le danze ai sensi.

La cornice è Venezia, più precisamente il Glam di Palazzo Venart di Enrico Bartolini con Donato Ascani. La cucina di Donato Ascani riecheggia in ogni guida, articolo o commento degli ultimi mesi, avendo acquisito nel 2019 la seconda Stella Michelin. I piatti da Lui creati sono incisivi, diretti, alle volte spigolosi e ricchi di contrasti che confluiscono in una complessità aromatica notevole. Un attento osservatore e scopritore del territorio: nei suoi piatti vi è un costante omaggio a Venezia.

Non è un menù, è un racconto quello che si assapora, un continuum di stimoli per le papille gustative che sollecitate dall’alternanza delle portate, quasi arrivano a sentirsi spaesate.  Ogni piatto è una sinfonia con incisi in battere o in levare, composto da un susseguirsi di frasi con tempi diversi, incalzanti o più cantilenati, andando a comporre un periodo dettato da estrema delicatezza e irruente complessità. Una cucina concepita come oggetto su cui osare, non solo attraverso la materia prima, ma anche compiendo accostamenti audaci. Acido, amaro, speziato, fresco e tendenza grassa, questa la memoria sensoriale che vincerà sul tempo.

In queste circostanze sono i dettagli a fare la differenza e la collaborazione con i sommelier non è di minor importanza. In sala si respira conoscenza, rispetto ed eleganza. Un brigata tra sala e cucina forse tra le più giovani in Italia, composta principalmente da Alessandro Menditto – Sous-chef – Luciano Palmieri – in sala – e Francesco Vuolo – in cantina. Scegliere un liquido che si accompagni in modo consono a un menù caleidoscopico, non è semplice. L’intenzione percepita è quella di rispettare le portate del menù con vini che sostengano e non  sovrastino i sapori.

Piatti variegati per vini altrettanto non scontati. Nel dettaglio, la descrizione del piatto firma della cucina di Donato Ascani, “Seppia affumicata al mirto” in abbinamento a Coteaux du Layon 1981 Moulin Touchais.

Coteaux du Layon dell’azienda Moulin Touchais è un prodotto simbolo della sua regione d’appartenenza, la Loira. Più precisamente Coteaux du Layon è una zona a sud di Angers – areale rinomato per la produzione di vini dolci muffati – anche se come vedremo questa caratterista non appartiene a Moulin Touchais

Coteaux du Layon, prodotto con uve 100% Chenin Blanc, è un vino particolarmente conosciuto per la sua spiccata acidità e longevità. Il Pineau de la Loire – così anche chiamato il c.b. – è una varietà che tende a germogliare anticipatamente e a maturare piuttosto tardivamente; inoltre è un vitigno ricco di acidi (tartarico e citrico), sostanze che ben si accordano con i climi freddi della Loira. Oltre alla forte acidità, il  Chenin Blanc è caratterizzato da un buon grado zuccherino, il quale accresce la sua capacità di conservazione.

La longevità e la mutevolezza di questo prodotto è legata alla fase di raccolta operata in modo specifico secondo ripartizioni differenti. Il 20% delle uve vengono vendemmiate 80 giorni dopo la fioritura (frutto poco maturo e carico di acidi) mentre il restante 80% viene raccolto ad intervalli diversi nei successivi 100 – 120 giorni dopo la fioritura (quando la concentrazione zuccherina è elevata). Per quanto concerne la muffa nobile – poiché Moulin Touchais si trova a monte del fiume Layon – raramente vi è presenza sugli acini di botrytis, vista la quasi assenza di nebbie e umidità.

Tratti di un vino fastoso, elegante, acido e fresco che meglio si assaporano dopo una lunga sosta in cantina, di circa dieci anni, prima della commercializzazione. Oggi, il 1981 è un vino maturo e molto gradevole al palato.

Di colore giallo oro, il naso è intenso con sentori di mela cotogna, gelatine di frutta e agrumi. Un accenno di dolcezza è data dalle spezie, contornata da una leggera sensazione terrosa sul finale. Al palato colei che tesse le fila è l’acidità, che sinuosamente si insinua su di un epilogo timidamente dolciastro. Persistente, profondo e scattante.

“Seppia affumicata al mirto”, un piatto che racchiude diverse consistenze e sensazioni palatali, unite a profumi balsamici e giochi di acidità. Il corpo della seppia viene arrostito e affumicato al mirto,  mentre la testa viene passata nella farina di mais e fritta. Il tutto accompagnato da una salsa al nero di seppia e dal ciuffo di un cavolfiore cotto a bassa temperatura in vinaigrette. Entrambi gli elementi di accompagnamento presentano con una spiccata tendenza acida.

Il bouquet evoluto del vino riprende il flavour del piatto: la scelta che ha condotto il sommelier Francesco Vuolo, per l’abbinamento.

A livello olfattivo la frutta secca e la leggera evoluzione presente nel Coteaux du Layon, riprende la parte affumicata del piatto e la tendenza grassa, smorzandone l’intensità. La sensazione di tostatura, nel vino, si armonizza con la testa della seppia, quindi con la parte fritta. Mentre al gusto il moderato residuo zuccherino dello Chenin Blanc, smorzato dallo scorrere del tempo, controbilancia – senza annullare – le sensazioni di acidità e affumicatura del piatto.

Venezia dentro

Quella tra l’uomo e la città di Venezia è spesso la storia di una riconciliazione. E come una storia d’amore “che strappa i capelli”, dopo la naturale rottura, l’instradarsi di un’amicizia, e una collaborazione, di durata all’insegna del “do ut des“. Queste le premesse del ritorno di Giovanni Pietro Francesco Maria Cremonini, GP per gli amici, che dopo trascorsi parigini underground vi fa ritorno con l’intento preciso di farla rivivere non più solo nell’intimo del suo immaginario ma fattivamente, diventando oste contemporaneo di questo “ristorante per onnivori“.  

Il tramonto, qui, è a vista sull’isola della Giudecca, di fronte al Canal Grande, su Fondamenta delle Zattere. Al suo interno, l’edificio vanta un sapore antico, moresco in alcune nicchie ma con l’eclettismo del suo patron che ha imparato a far convivere piccoli elementi della contemporaneità con la tappezzeria damascata e la boiserie. Del tutto speculare, la cucina di Samuele Silvestri, che reifica questo mondo in piatti che sono la proiezione puntuale, spesso allitterativa, di questo universo lagunare, quindi “mare + terra”, senza preclusioni di sorta ma con la consapevolezza che “mangiare è un atto estremo“, perché interiorizza il mondo esterno. 

Riviera: una cucina lucida e precisa

Si diceva dunque delle allitterazioni ma anche solo a leggerlo, questo menu, la vena poetica e vernacolare si fa evidente come nel canto del gondoliere. In particolare, vi si ritrovano figure formali ricorrenti che concorrono a forgiare questo immaginario universale (Venezia) e personale (quello di Gp) che coinvolge le terre emerse di tutto l’orbe terraqueo nel raggio di 150 km. Si comincia con un’ecumenica selezione di filetti di pesce crudo, resi fondenti, quasi confettati dalla sapiente marinatura e si prosegue, avvicinando lo zoom, col branzino selvatico, l’ostrica e la mela verde: un climax ascendente, tornando allo spettro metrico, che si concretizza nella dialettale canoce in sauna e raggiunge la sua acme con la grancevola, il radicchio e la sua riduzione: un crunch dove l’umami si risolve in un succo dolce-amaro. Bello il  contrasto tra umido e asciutto, che si fa galenico nel candore “sporcato” di nero del bianco risotto e, della seppia, il nero, dalla cottura precisa e filante a tratti. Puntuale e preciso nel rispetto delle sue fibre anche il carnoso sgombro. 

Ma Riviera vanta anche una selezione affettiva, e molto divertente, in termini di vino, nonché un punto di vista molto lucido, e molto vero, sulla cucina veneziana contemporanea. 

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Venezia è sempre una buona idea

Che i grandi alberghi veneziani stessero rapidamente diventando una importante meta gastronomica, oltre che di ospitalità, era un segnale che avevamo accolto con grande piacere e curiosità già da qualche anno. Lo ripetiamo ancora, era impensabile mangiare a questi livelli a Venezia anche solo 10 anni fa.

L’esperienza che si può però provare oggi al Glam di Palazzo Venart è qualcosa che va oltre le più generaliste riflessioni sulla stato di salute della ristorazione lagunare: qui, semplicemente, officia uno dei giovani talenti più cristallini della cucina italiana. E quando il tutto si svolge sotto la supervisione di Enrico Bartolini (un Maestro, anche in termini di misura e senso del gusto), in un contesto evidentemente di gran lusso che può permettersi un servizio di sala altrettanto spumeggiante, la riflessione varca i confini veneziani. Donato Ascani, classe 1987, si muove con una padronanza di mezzi che non ci ha lasciato indifferente. Senza aver guardato preventivamente il suo curriculum, alcune delle sfumature dei suoi piatti ci avevano riportato al Lopriore della Certosa: la ricerca dello “spigolo” è ovviamente meno esasperata, ma gestita con grande intelligenza. E in effetti il passaggio ai Tre Cristi di Milano come sous chef del cuoco comasco ha lasciato un segno indelebile. Così com’è evidente, pure, il passaggio al Piazza Duomo nella scelta della lunga sequela di appetizer che, come succede ad Alba, sono in realtà piccoli piatti in miniatura.

La cucina dei mercati veneziani

Ascani non è però schiavo della sua formazione, sa coglierne gli aspetti più intriganti riproponendo una propria chiave di lettura. In particolare, ci è piaciuto molto il senso del viaggio che alberga dentro questa cucina, come è giusto che si sia in una città come Venezia, storicamente aperta agli influssi del mondo. Così come ci è piaciuta la scelta degli ingredienti, una vera cucina “dei mercati veneziani”, parola che rischia di svuotarsi di significato nella ristorazione odierna ma che in realtà è un valore aggiunto della cucina italiana quando si realizza nella sostanza e non solo nella forma o nelle idee.
I mercati quotidiani di Venezia sono infatti parte integrante della proposta del Glam, negli ingredienti e nelle idee. In questo contesto, due degli appetizer iniziali, è il caso di dirlo, ci hanno letteralmente stregato: Friselle fatte con l’albume, puntarelle e acciughe: la regione di provenienza dello chef – il Lazio – declinata in chiave alta cucina, per un boccone che concentra storia, concetto e gusto. Cozza, alga, sorbetto di limone, pepe, salicornia e wasabi: qui sì c’è tanto Lopriore ovviamente, ma il gusto va oltre il ricordo portandoci in un lampo al bancone di Kiyota Sushi a Tokyo, ai gusti più veri del Giappone rivisti dal pensiero italiano che sa unire studio di temperature e consistenze. Un vero capolavoro che annoveriamo, senza dubbio, tra i migliori assaggi dell’anno.

Ma tanti sono i dettagli da ricordare: dal cavolfiore cotto al cartoccio al vino bianco, frutto di un giro al mercato e di ricordi della cucina materna dello Chef, alla incredibile salsa allo zafferano, passando per un piatto iconico come le acquadelle fritte.

Una grande personalità

In questo contesto, i limiti vengono da un percorso di degustazione non perfettamente costruito, perché gli stimoli sono tanti e continui e si rischia di perdere il filo: la lunga serie di appetizer, qualche piatto eccessivamente dolce (il cremoso di patate e nocciole) o eccessivamente grasso (le mezzemaniche con ricci e pecorino), rendono il menù degustazione intrigante ma faticoso, con poche pause defaticanti; piatti che, singolarmente, dimostrano di avere senso e personalità, ma che all’interno di un lungo percorso possono portare facilmente a saturazione.

Ed è evidente anche la necessità di una maggiore maturità nello stile, ma questa, per un trentaduenne, è cosa assolutamente normale.

Infine, il dessert finale merita qualche riga: Meringa al balsamico di Modena, limone sotto sale, gelato al fiordilatte e noce moscata. Semplicemente perfetto in chiusura di percorso: fresco, aromatico, acido e con gli zuccheri in perfetto bilanciamento. Un dessert da grandissima scuola.

Così come merita un’altra breve riflessione la sala del Glam, perché a Venezia spesso ci erano capitate esperienze al limite del tragicomico anche in ambienti di prestigio: da Giorgio Munafò, il direttore di sala, fino al sommelier Luciano Palmieri, il personale di servizio è in grado di far passare una bella serata, divertente e in un contesto rilassato. Grande professionalità e abilità nella “lettura” dei tavoli.

E tutto questo, attorniati dalla bellezza di Palazzo Venart e dal fascino unico che solo Venezia sa emanare. E scusate se è poco.

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L’opera del gusto, in scena a Piazza San Marco

Di fatto il Gran Caffè Quadri, dal 1775, ha rappresentato il luogo per eccellenza dove figure come Stendhal, Byron, Chatwin e tanti altri illustri personaggi erano soliti trascorrere attimi di piacevole ozio. Nella molteplicità culturale veneziana, tra le tante arti meglio espresse tra calli e canali, spicca anche quella teatrale. Gli Alajmo, che qui al Quadri ora sono padroni di casa, cogliendo questa inclinazione hanno saputo creare un parallelismo gastronomico prezioso, nel menù realizzato dagli chef Silvio Giavedoni e Sergio Preziosa.

Perché non lasciarsi trasportare in un percorso dove gli atti di un’opera teatrale sono l’accurata sequenza gustativa di oltre 16 portate in un’originale trama tra temperature, abbinamenti e consistenze? Nell’impossibilità di raccontarli tutti, abbiamo scelto quelli più espressivi.

I Quattro Atti

Come tutte le pièce teatrali, l’opera si svolge su un fondale. Abbiamo già raccontato di boiserie fiabesche, carte da parati simili ad arazzi e leoni alati sul soffitto, ma va sottolineato come qui le figure di sala siano dinamiche e puntuali oltre che di inusitata, empatica freschezza. Formidabili i maître Stefano Munari, Marco Cicchelli e Roberto Pepe.

Atto I. Logica
Ovvero dove i piatti denotano una precisa riconoscibilità, una firma gustativa per una clientela eterogenea, che potrebbe non essere avvezza all’incognita gastronomica: su tutti, citiamo un crudo di dentice la cui texture carnosa sposa la voluttuosa cremosità dell’avocado, volgendo al passion fruit e al bergamotto per ripulire la nota grassa.

Atto II. Tradizione 
Venezia nobile e porto di mare. In arrivo il risotto di gò (prelibatezza lagunare) con grancevola, garusoli e fagioli borlotti. Un piatto dove si alternano dolcezze marine di varia natura, a corollario della farinosa compattezza del borlotto, legume prediletto dalla consuetudine veneta.

Atto III. Tecnica
Gli Alajmo sono sempre stati precursori di tecniche e lavorazioni tradizionali associate a ingredienti inusuali. Menzione d’onore per il filetto impanato ma NON cucinato al tartufo nero dove il filetto, ricoperto da un sale bilanciato, perde i succhi in eccesso fino a raggiungere la succulenza desiderata: godimento extra assicurato dalla croccante panure e il tartufo nero.

Atto IV. Semplicità
Ricapitolando quanto andato in scena, ecco l’atto finale, incentrato sul dolce. La logica: sorbetto di carote, agrumi, zenzero e ananas alla vaniglia. La tradizione: la classica crema della Serenissima. La tecnica: una frolla di mele più che perfetta, e il gelato di prugne all’Armagnac. Lo stile? L’immancabile pipa di frutta al Rhum.

La platea si alza in un applauso scrosciante, già incuriosita dalla prossima opera in scena. Dal canto nostro siamo pronti ad accaparrarci un altro biglietto per il grande spettacolo del Caffè Quadri, al grido di ciò che diventa, era!

Un grande passato, più contemporaneo che mai.

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