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Podere Forte: anteprima di Petrucci Anfiteatro e Petrucci Melo 2020

Tradizione, circolarità e avanguardia

Quando Pasquale Forte arriva in Val D’Orcia se ne innamora perdutamente. Fonda l’azienda agricola Podere Forte, deciso a recuperare la centenaria tradizione agricola valdorciana e lo storico Podere Petrucci, ormai abbandonato.
Un’azienda agricola certo ma anche un ecosistema in cui nulla è lasciato al caso e ogni dettaglio è attentamente studiato per essere in simbiosi con tutti gli altri: come le api che, col miele, presiedono all’impollinazione delle piante. Le pecore, oltre al latte per fare i formaggi, producono anche il compost necessario ai terreni, così come loro le vacche di razza Chianina.

L’azienda, biodinamica dal 2007, segue i precetti di Rudolf Steiner basati su correttezza e rispetto di terra, piante e animali con cui l’uomo vive in equilibrio. Tradizione, certo, ma Pasquale Forte è e rimane pur sempre un ingegnere, che nel suo caso ben aderisce al latino ingegnum, ovvero creatore/dalla capacità mentale: ed è questo che si ritrova nel suo Podere. Qui i terreni sono irrigati grazie a un’avanguardistica rete idrica pensata in modo da non creare ruscellamenti, per non togliere sostanze al terreno, e quindi alle piante. Tutta l’acqua utilizzata viene poi recuperata.

Nella cantina c’è un laboratorio per effettuare le molteplici analisi biochimiche, ma non solo: è infatti presente anche un grafico per l’analisi della cristallizzazione sensibile, utilizzato tanto per il vino, quanto per l’olio e per il miele, in cui ogni segno sull’immagine acquisisce un significato che può essere codificato grazie all’archiviazione delle medesime immagini nel tempo: interpretando le forme-tipo è così possibile determinare la capacità di invecchiamento di un vino, i bisogni della pianta e molto altro. Grazie alla cromatografia invece, sono analizzati i terreni in modo da poter avere un’indicazione della tipologia di compost necessario.

I terreni del podere, seppur vicini tra loro, sono molto diversi per conformazione geologica. Una conoscenza, questa, che ha permesso nel tempo, essendo che inizialmente veniva prodotto un solo tipo di vino, di dare vita a vini con caratteristiche distinte, come Anfiteatro (nome deciso in quanto l’inclinazione naturale del terreno è stata rispettata, coltivando i vigneti in pendenza) e Melo che deve il suo appellativo all’appezzamento sul quale vengono coltivate le sue uve.

Petrucci Melo e Petrucci Anfiteatro 2020: l’anteprima

In occasione della visita al Podere, abbiamo avuto il piacere di degustare precisamente l’anteprima di questi due vini: Petrucci Anfiteatro “il chiacchierone”, e Petrucci Melo, “il misterioso”. Pur trattandosi di vini del 2020, e di assaggi direttamente da botte e quindi destinati ad altri tre anni, tra maturazione e affinamento, appare chiaro che si tratti di vini di grande statura. Come detto, Petrucci Anfiteatro è espansivo, è di un colore rosso rubino brillante. Al naso si manifestano frutti e fiori rossi, agrumi e foglie. I tannini presenti già denotano morbidezza, un vino che, seppur in fase embrionale, è già piacevole. Petrucci Melo , è influenzato dal terroir più “povero” ed un microclima differente. Dal color rosso violaceo, al naso si percepiscono sentori di frutti rossi più scuri come l’amarena e la mora, le spezie e il pepe. In bocca i tannini sono più duri, indice che avranno bisogno di tempo per smussarsi, consegnando un vino che sarà sempre più austero di Anfiteatro, nella stessa annata. Le sue ombre ci consegnano un vino quasi mistico, per il quale il “non detto” è molto più di quanto è celato.

Podere Forte non è un’isola

Come detto, Podere Forte è un’azienda avanguardistica, un esempio virtuoso, certo, ma l’ingegnere non vuole che rimanga un’isola felice bensì sogna di esportare il “metodo Forte” dalla Val D’Orcia all’Italia e perfino all’Europa, per garantire futuro e sostenibilità alle prossime generazioni. Infatti, riguardo alla Direttiva Europea “Farm to Fork” attualmente in discussione in Parlamento, è indubbio che essa crei scontento tra gli agricoltori, fissando degli obiettivi di sostenibilità da raggiungere entro il 2030 ma senza dare i mezzi per raggiungerli. A questo proposito, Pasquale Forte, uomo del fare, invita chiunque desideri approfondire il tema della biodinamica a prendere contatto e fare pratica al Podere.

La sintonia del silenzio

Nel silenzio accogliente di quelle colline solo il terreno poteva udire le vibrazioni dei passi, assorbendo il profilo delle orme che lo avrebbero percorso in lungo e in largo e imparando a riconoscerlo come familiare. Andrea Franchetti incontrò la parte più remota della Val d’Orcia quasi per caso e subito se ne innamorò. Era evidente, era palpabile: quella località, poco lontana da Castiglioncello del Trinoro, sarebbe diventata casa sua.

Una vita spesa a contatto con i vini e con le realtà estere, una vita spesa a confrontarsi con il dire implicito degli artisti, degli scrittori, degli intellettuali di ogni tempo, finendo per diventarlo anche lui, in un certo senso. Un artista, Andrea Franchetti, un artista che si lascia trasportare dall’attrazione e dalla simbiosi con qualcosa, permettendo ad essa di scuotere la sua sensibilità e approfondendo lo spessore del silenzio. In questo silenzio Andrea Franchetti osservava ed esplorava le “sue” colline. Camminava instancabilmente per ore, senza seguire sentieri, senza tracciati, senza percorsi preimpostati da qualcuno. Il primordiale contatto di sintonia con quella terra si esercitava in ogni passo e, ad ogni passo, quella terra argillosa rappresentava una novità, una forma di vita complice ed estremamente loquace nel suo silenzio. L’illusione della parola si mostrava in tutta la sua lampante debolezza, difronte alla forza di quel silenzio.

A metà strada per il Lazio, intorno ad Asciano, la creta contorce già allegramente i fondi ed inclina i ripidi che si vedono per chilometri, arati fino ai ruderi rossi rimasti sulla cima. L’argilla schiarisce e si distende in ordine grandioso più a sud, nel salone onirico della Val d’Orcia. Là si fa, ogni tanto, un vuoto che si sente e fa trasalire. Mentre la strada per Roma devia per un tracciato più stretto, si va incontro alla parte più remota del Senese, che è pura adiezione confinaria, un’ascensione fantastica e disabitata di bastie di creta che stanno issate tra un vulcano e una montagna, alti, al centro dell’Italia, come spuma”. Con queste parole Andrea Franchetti descrive la zona di Tenuta di Trinoro, che divenne per lui casa negli anni 80.

Qualche anno dopo l’acquisizione dei terreni, Andrea Franchetti iniziò ad impiantare i primi vigneti. Erano i primi anni 90 e Andrea poteva contare su un’esperienza vitivinicola acquisita sul campo di Bordeaux, da cui ha tratto ispirazione di stile. Uno stile che scivola sulle uve di Trinoro come un abito in seta, sotto al quale esiste sempre e comunque la carne di un individuo. Ogni vino è a sé, ogni annata diversa. Talmente diversa che, a seconda delle condizioni irripetibili delle uve mutevoli di millesimo in millesimo, ogni anno si assiste alla novità del blend per il vino di punta dell’azienda, il Rosso Toscana IGT Tenuta di Trinoro. Solitamente si tratta di un alchimistico compenetrarsi di Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Merlot e Petit Verdot, ma non mancano eccezioni come l’annata 2011 – che ha visto una netta preponderanza di Cabernet Franc al 90% e un’assenza di Merlot – o l’annata 2000.

Chi ha avuto la fortuna di degustare nella sua vita alcune annate di Tenuta di Trinoro sa perfettamente che sono vini privi di dialettica, nati senza dizionario e cresciuti senza la rassegnazione ad un ripetibile copione. Sono vini di un’eleganza stupefacente, sono vini che chiedono il coinvolgimento di ciò che non ha parola. Sono vini nati nel silenzio ispiratore di un artista, che attratto da uno scorcio si siede a terra e, afferrando carta e pastello, dipinge la forma della sua suggestione, colma di una sintonia che la forma non sarà mai in grado di tradurre fino in fondo.

Rosso Toscana Tenuta di Trinoro IGT 2017

Annata difficile. All’inverno privo di piogge ha fatto seguito una primavera inaspettatamente fredda, per poi subire il contrasto di un’estate torrida. Le uve, quell’anno, erano poco turgide e piuttosto piccole, precursori di un succo denso e molto concentrato. Il blend di questo millesimo ha visto una preponderanza del Cabernet Franc al 69%, un 23% di Merlot e appena l’8% di Cabernet Sauvignon. Al giorno d’oggi questo vino si presenta senza la timidezza del suo trascorso difficile, dal quale le uve sono uscite fieramente a testa alta. La sua durezza è evidente, mostrata senza veli a conferma della piena capacità espressiva di questi meravigliosi vini. E nonostante tutto, anche la 2017 di Tenuta di Trinoro affascina con quella profondità senza fine che lo contraddistingue per natura e per indole. La schiettezza del frutto appare come un sorriso, che introduce alla vivace trama di terra, cenere, tabacco e liquirizia, con una traccia pungente di lampone, tipica di una giovinezza fresca. Il tannino è in primo piano, seguito immediatamente dall’acidità. Un vino attualmente duro, astringente, che però sa affascinare sempre e comunque. Il sorso pulito, preciso e la texture quasi setosa della sua materia definiscono il fuoriclasse che è, così energico, così fine. Così espressivo.

Rosso Toscana Tenuta di Trinoro IGT 2015

Annata meravigliosa quasi dovunque, la 2015. E, anche a Tenuta di Trinoro, la si ricorda come una di quelle da segnare nell’Albo dei Grandi. La predominanza è del Cabernet Franc, presente nella quota del 50%, seguito da un 36% di Merlot, 10% di Cabernet Sauvignon e 4% di Petit Verdot. Mitezza e calura in primavera, intermittenza di pioggia leggera nella seconda parte dell’estate: queste le condizioni di una stagione produttiva che ha portato ad una maturazione lenta e piena delle uve, vendemmiate tra il 21 settembre e il 22 ottobre. È un vino che interloquisce con il gusto attraverso una trama fatta di terra, cuoio, cioccolato, tabacco. Accenna all’incenso, senza snaturare la vitalità del frutto rosso carnoso. L’eccezionale maestria del sorso ripropone il ricordo delle medesime note scure e avvolgenti, che colorano lo sfoggio della cremosità. Una punta vegetale si lega armonicamente a quella tessitura elegante e composta di durezze, esplicitate nella fine tridimensionalità del tannino e nella determinazione fresco sapida che permane come fosse il profilo di un’impronta.

Rosso Toscana Tenuta di Trinoro IGT 2011

Il caldo e la siccità hanno appassito parte dei grappoli di Merlot, nell’anno 2011. A metà ottobre, tuttavia, una tempesta di particolare forza ha riportato freschezza e vitalità nelle uve di Cabernet Franc, che in questo millesimo di Tenuta di Trinoro compaiono al 90%, seguite da un 6% di Cabernet Sauvignon e un 4% di Petit Verdot. Al naso appaiono note più aspre e pungenti. Ribes, mirtillo e smalto, su uno sfondo omogeneo di terra e tabacco, rendono lo spessore del tratto, un tratto fine, incisivo e intrigante. La bocca, di peculiare morbidezza, si veste di note inebrianti di cioccolato e liquirizia, per poi virare nello sferzo fresco che rende la persistenza del sorso quasi agrumata. Un vino che mostra un esaltante percorso di evoluzione davanti a sè.

Rosso Toscana Tenuta di Trinoro IGT 2000

Ha già vissuto un lungo tempo, eppure sembra necessitarne di altro ancora. Un blend di Cabernet Franc al 55%, Cabernet Sauvignon al 35%  e Petit Verdot al 10% omaggia l’annata 2000 con una trama complessa, sinuosa e meravigliosamente armonica. A introdurre qualcosa di speciale sono le note balsamiche della felce e della menta, così come i fiori secchi. Il tabacco, il cuoio e il caffè sembrano essere ormai un tutt’uno omogeneo e setoso con la tessitura di spezie, liquirizia e cioccolato. Poi tamarindo, scorze d’arancia candite, una nota ferrosa, una nota finemente erbacea, un timbro di frutta secca… l’interminabile ricchezza di contenuti sfuma sulla solida scia della freschezza, perdendosi in un’eco indefinita di emozioni passate ma ancora molto vive. Difficile spiegare in parole, difficile condensare in una cosiddetta nota di degustazione qualcosa che è dato solo al palato e all’emotività di scoprire. Un tentativo quasi ironico e certamente limitato, che tutt’al più può riferire dei contorni, nascondendo la sua parte più preziosa fra le pause e gli accenti.

 

A Rocca d’Orcia nasce una nuova sfumatura di “Terra di Siena”

Il diapason, grazie alla vibrazione del LA, regola e crea il perfetto accordo tra gli strumenti musicali. Ingredienti ideali nella sinfonia dei cibi. Come onde fluide e sonore, nel cuore del Simbolo irradiano Tre Cerchi: la Natura, l’uomo e l’Arte della Cucina. Il diapason è orientato verso l’alto, a indicare ciò che è oltre, la via dell’eccellenza che il Nome PER-IL-Là esprime.

Questa la frase in apertura di menu che accoglie gli ospiti sul bel dehor dell’Osteria Perillà. E, anche se potrebbe sembrare iperbolico, l’estratto è quanto di più verosimile e attinente alla metamorfosi che il locale ha subito negli anni. Dalla consulenza di Enrico Bartolini che cercava e creava un’atmosfera agile, con piatti della tradizione alleggeriti e accompagnati da un servizio informale, si è passati ad una concezione decisamente controcorrente che decide di aggiungere laddove tutti tolgono, di sofisticare quando tutti semplificano e di approfondire mentre tutti alleggeriscono. Come a voler sottolineare l’irruenza dell’indole toscana, pura e decisa in tutte le sue forme, ecco allora comparire le tovaglie sui tavoli prima lasciati nudi, le opere d’arte affisse alle pareti impreziosiscono l’ambiente mentre il savoir-faire di sala, ricercato e mai banale, completa un quadro dai toni caldi in perfetta armonia con il paesaggio mozzafiato che fa da cornice.

La carta dei vini lancia un messaggio forte e chiaro, accompagnando per mano ogni appassionato, spostandosi e presentando in maniera formale i grandi della viticoltura nazionale e internazionale senza tralasciare, con fare malizioso, qualche piccolo artista indipendente e stravagante. Lo chef Marcello Corrado, già a Casa del Nonno 13 di Mercato San Severino, celebra i sapori e le memorie gastronomiche regionali con sensibilità contemporanea. Il risultato è una cucina dai tratti delicati, dalla curve morbide che rassicura e mette in luce una materia prima davvero ineccepibile. Dalla mano sicura e dal buon palato del cuciniere nascono interpretazioni che non si discostano mai dal territorio, proposte però sotto forme diverse dalle canoniche concezioni. I “ravioli farciti di pappa al pomodoro, ravagiolo e pesto” sono un inno alla toscanità, in cui la pasta sottilissima del raviolo abbraccia il ripieno che con il dovuto effetto sorpresa esplode in bocca in un gioco di piacevoli contrasti dal carattere dolce-acido. Il “maialino di cinta senese, indivia, cenere alle erbe e arancia piccante” non presenta sbavature tecniche, esaltando la proteina di assoluto livello, mentre le sfumature delle erbe aromatiche contestualizzano il piatto alla stagionalità, richiamando i profumi dei campi stanchi del sole estivo. Intrigante, anche se leggermente squilibrato, lo “spaghettone ajo, ojo, peperoncino, paprika e lumache” che ammicca alle locali lumache al pizzico, ma non riesce ad essere esaltato dal formato della pasta che conferisce poca finezza ad una ricetta che di certo ne avrebbe bisogno.

L’Osteria Perillà splende di una luce nuova. In un luogo come la Val d’Orcia, nata magica, stupire non serve, e la cucina di Marcello Corrado svolge perfettamente il ruolo di colonna sonora di uno degli spettacoli più affascinanti del globo.