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Une

L’Umbria che scorre a Capodacqua

A capeggiare tra le righe introduttive scorse nell’introduzione di menù, una sembra sintetizzare al meglio questa insegna: “Une è la somma delle persone che sono al suo centro, è il plurale di uno e di una”. Ci siamo immersi nuovamente in questa bellezza di pluralità tutta umbra, in quel di Capodacqua, locus amoenus dove ha sede l’Une di Giulio Gigli e brigata annessa. Il torrente Roveggiano, con il suo lento ma incessante incedere ispira idee del giovane cuoco, che con la sua proposta gastronomica ha intrapreso la rilettura antologica dell’abbondanza di prodotti e culture che il territorio ha da offrire. È bene ribadire, come questa regione, cuore verde d’Italia, stia vivendo una nuova primavera in termini di creatività e intraprendenza con i tanti cuochi che vi fanno ritorno. Gigli è uno di questi.

Tutto scorre

Nella precedente visita, ciò che emerse maggiormente fu un’arguta valorizzazione oltre che del capitolo “ciccia” (che da queste parti ovviamente non va messo in discussione!) anche del versante vegetale. In questa tornata invero, constatiamo a tratti la mancanza di quest’ultimo rendendo la sequenza, seppur ben fatta tecnicamente, tendenzialmente sbilanciata sulla proteina animale, considerando anche la ricchezza stagionale estiva nel momento in cui proviamo il menù. Premesso ciò la mano di Gigli dimostra comunque una profonda expertise e delinea una comune golosità in ciascun piatto, agganciata a una profonda cultura territoriale. La Tigella riproposta in antipasto, segreta, racchiude nel suo copioso ripieno una crema di patate e pollo arrosto dove la preziosa pelle croccante del volatile è posizionata in modo da dare struttura al morso fondente.  Gli anni spagnoli al Disfrutar di Gigli regalano un’innovativa Torrija in salsa umbra, dove il pain perdu iberico è proposto qui con un pane di segale bagnato nel brodo dello stesso cereale, arrostito e accompagnato dal ciauscolo. Lo Spaghetto, trota fario, lievito tostato e olio al prezzemolo racconta cristallino l’identità umbra per il mondo d’acqua dolce, ragionando sulle diverse consistenze spaghetto/trota supportate da una mantecatura ben congegnata in cui la salsa è data dal lievito tostato e non da un’eccessiva estrazione amidacea della pasta. Imprescindibile la nota balsamica dell’olio al prezzemolo a chiudere. Infine, sua maestà il Cinghiale, nella versione ispirata alla tradizione siriana del kofta kebab, ossia macinando la carne e condendola con spezie ed erbe aromatiche, tra cui il sommaco, e abbinato alla freschezza di una zucchina osmotizzata alla maggiorana seguita dall’immancabile salsa a base di yogurt.  Piatto convincente nella sua godibilità tecnica, meno nella valorizzazione delle specificità della carne scelta, poiché sovrastata dalla speziatura.

A presentare la cucina di Une, una giovane brigata di sala che a tratti sconta l’ampiezza del locale (e la sua dislocazione su due livelli con una ripida scala) rendendo l’avvicendamento un passaggio non così scontato. Siamo comunque pronti a scommettere nuovamente sull’intraprendenza e il piglio che Une saprà mettere in campo. D’altronde tutto scorre, proprio come l’acqua del Roveggiano lì vicino.

IL PIATTO MIGLIORE: Spaghetti trafilati in oro, trota fario, lievito tostato e olio al prezzemolo.

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Il mare visto dalla campagna

L’Umbria cuore verde d’Italia. L’Umbria dal fascino medievale. L’Umbria dal sapore marino? Chimera? Non in questo nuovo caso, almeno per le forchette curiose che hanno potuto sperimentare la cucina di Ottavi Mare, dell’omonimo chef Vittorio Ottavi. Il luogo è il grazioso borgo di Bevagna conosciuto ai grandi appassionati di rievocazioni storiche per il celebre Mercato delle Gaite, pallio in cui i diversi quartieri si sfidano. Nel nostro caso in una di queste gaite trova spazio questo ristorante quasi un unicum gastronomico nel panorama della cosiddetta “ciccia umbra” proprio alle pendici dei monti Martani. È bene notare come la cucina di Ottavi, non poggi su pretenziose velleità di stupire con una cucina totalmente diversa dal luogo che la ospita, bensì la prospettiva offerta è quella di un mare visto però dalla campagna umbra, preservando forme e sfaccettature, in particolar modo vegetali, che queste terre sono in grado di offrire. Il mare scelto è quello è Adriatico, indagato nelle sue diverse latitudini della Penisola. Dalle cozze dell’alto Adriatico alle seppie e ai calamaretti dei piccoli pescherecci pugliesi. Tuttavia il versante ittico dell’Umbria è rappresentato dal pesce d’acqua dolce approvvigionato dal vicino fiume Nera da cui provengono le sue preziose trote. Sul versante enoico, particolare la scelta di mantenere una carta totalmente incentrata sia su vitigni a bacca bianca locali sia, è il caso di dirlo anche extra moenia internazionale, con vantaggioso rapporto di etichetta-prezzo.

Diverse latitudini della Penisola

Venendo all’analisi del nostro percorso sicuramente tre sono gli assaggi degni di grande interesse di questo menù, indicativi del fatto che questa struttura, nel futuro, saprà sempre più far parlare di sé. Ostrica, sedano rapa e porcino fermentato è forse il piatto che meglio delinea quel mare visto dalla campagna, con la dolcezza terragna del sedano rapa e del porcino (con note quasi torrefatte grazie alla fermentazione) maritati alla bilanciata carnosità sontuosa dell’ostrica Gillardeau. Da non perdere il Calamaretto alla brace, fegato di seppia, cappero e peperone dove questi ultimi due elementi spesso troppo vigorosi sono domati dalla dolcezza della seppia e dalla ficcante nota iodata del fegato di seppia. D’obbligo la scarpetta con la spugna al peperone. Infine la Terrina di trota Fario, salsa al trebbiano spoletino, caviale di trota, patata mantecata al tartufo e misticanza di Bevagna distilla chiaramente elementi tecnici che dimostrano il giovane valore di Vittorio Ottavi, come nel caso della salsa come antologica sorella della transalpina sauce au beurre blanc o nell’esecuzione della terrina stessa.

Unica nota, auspicando in un miglioramento, allineandosi così alla parte salata è dedicato al capitolo della pasticceria, ancora troppo distaccato considerando il trascorso felice che ci ha condotto fino al dessert. Il tempo e le prossime visite ci daranno sicuramente modo di valutarlo, nel frattempo godremo ancora di quest’angolo di mare tra merlature e castelli da sogno.

IL PIATTO MIGLIORE: Ostrica, sedano rapa e porcino fermentato.

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L’acqua è tutto

Il nome, “acqua”, in umbro antico, nasce dal desiderio di omaggiare, il vecchio mulino che accoglie fra le sue mura questa giovane cucina, il paese di Capodacqua che li ospita, ma soprattutto l’elemento che più di ogni altro restituisce la vita. La struttura è affascinante; le mura in pietra, l’alto soffitto a travi e la semplicità della sala richiamano una elegante tenuta bucolica, consentendo all’avventore di allontanarsi, appena entrati, da stress e frenesie cittadine, per abbandonarsi nella lenta agiatezza che la campagna è in grado di regalare.

La formazione dello Chef, Giulio Gigli, ha una forte impronta internazionale, dalla Francia alla Spagna, passando per gli Stati Uniti, senza dimenticare l’illustre cucina de Il Pagliaccio; la sua proposta è però estremamente radicata nella tradizione. Tecniche e preparazioni ossequiano il territorio circostante; un approccio “globale” alla cucina è evidente, ma la matrice umbra è presente, intensa, esaltata e mai corrotta. Non si dimentica, per fortuna, nemmeno un per istante di trovarsi al centro dell’Italia. 

Una svolta al vegetale

La Trota, cotta a bassa temperatura, con mandorle fermentate, è esaltata dall’ottimo fondo bruno di ravanelli; la chips di pelle con lattume, tartufo nero ed acetosella completa deliziosamente il piatto. Mangiata a metà portata, non serve solo a rinfrescare il piatto, già di per sé delicatissimo, ma lo esalta, quasi stravolgendolo, merito dell’acetosella, dosata alla perfezione.

Anche per le Animelle, ottime e perfettamente scaloppate, la svolta arriva dalla terra. Gli Spinaci selvatici sono precisi, perfettamente integrati, da comprimari sul menù diventano la chiave di volta per la riuscita del piatto; il burro elicriso è la ciliegina sulla torta. Più in generale, in quasi tutte le portate che abbiamo potuto assaggiare, l’elemento vegetale è più che un semplice ingrediente utilizzato per accompagnare o esaltare, è il protagonista, magari nascosto alla vista, ma imperante nel gusto. È un motivo ricorrente, dal finocchietto selvatico e l’aglione del Risotto al germoglio di pino e l’achillea fondente dei due dolci; i prodotti del loro orto e della natura selvatica sorprendono, stupiscono, ma soprattutto convincono.

È evidente un lavoro di ricerca, di approfondimento, di studio e applicazione sugli ingredienti green che presenta numerose analogie con un’altra cucina giovane, preparata e di successo, quella immaginata dai ragazzi di Retrobottega, anche loro germogliati nella romana fucina di talenti capitanata da Anthony Genovese. Sarebbe interessante poter approfittare di una proposta vegetariana che, siamo certi, anche in questo caso sarebbe interessantissima. Probabilmente non a caso l’unica piccola imperfezione del pranzo l’abbiamo riscontrata in una portata dalla connotazione carnivora: la Gelatina al salame della tigella aerea, tecnicamente accattivante, si avvicina, anche nel sapore, alla consistenza eterea della base, risultando leggermente troppo delicata.

Imperfezioni assenti, invece, nel Piccione. La cottura della carne è da manuale, l’accompagnamento con i fagioli, il tuorlo d’uovo sferificato e il fondo di pomodoro, con la sua acidità, alimenta ricordi di una english breakfast. L’aggiornamento in chiave umbra è certificato dalla preparazione all’uccelletto dei legumi e dall’ottimo paté di fegato a contorno. Questo indissolubile legame lo ritroviamo anche nell’albicocca farcita, il classico abbinamento miele e amaretto, proposti come Parfait e Panna cotta, bilancia l’acidità del frutto, la grattata di tartufo nero fresco convince e suggella definitivamente il patto con la terra. Il Germoglio di pino, da consumare a metà portata, non è un vezzo stilistico, ma una sorprendente trovata balsamica, l’asso nella manica che stravolge ed amplifica il gusto, completando il percorso innovativo intrapreso dal tubero estivo.

Molto ben strutturata la carta dei vini, decisamente focalizzata sulle cantine locali, contiene numerose etichette di livello. Decisamente giusti i ricarichi di prezzo. Da segnalare una buona selezione di passiti e rum, ottimi per un’allegra conclusione del pasto.

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Minimal e fine dining convivono a L’Acciuga, in quel di Perugia

Un incontro decisamente vincente quello avvenuto fra due coppie, una di imprenditori nella ristorazione e l’altra, quella di Marco Lagrimino e Nadia Moller, lui in cucina e lei in sala. Marco è uno chef che vanta esperienze importanti a Londra, Nobu, Pierre Gagnaire allo Sketch, Blumenthal al Mandarin, torna poi in Italia per aprire un ristorante in quel di Firenze e poi passare all’Osteria di Volpaia. In pieno periodo COVID, a Perugia, si sono trovati appunto con un’altra coppia che voleva rinnovare la proposta culinaria di uno dei loro locali: L’Acciuga.

In una zona decisamente fuori dal centro, defilata e abbastanza anonima, c’è L’Acciuga, un locale che sorprende, invece, per la cura degli interni, con tante opere di modernariato provenienti da tutta Italia , minimal e di raffinata personalità, esattamente come l’impostazione di cucina, aggraziata, dello chef. L’Acciuga, nel nome, si presta anche perfettamente ad identificare l’offerta gastronomica, per analogia con la dimensione piccola e asciutta e quella del gusto e del sapore.

Un percorso nella semplicità del gusto

Il percorso degustazione è di solo cinque portate, a parte gli amuse bouche e la piccola pasticceria, e ha un prezzo decisamente competitivo, esprimendo la volontà di far conoscere una proposta di fine dining ad una clientela più ampia possibile. Gli ingredienti usati in ogni piatto sono scelti con attenzione e mai ridondanti, essenziali alla riuscita del piatto. Ci sono piatti decisamente più riusciti rispetto ad altri, con un risotto che spicca in assoluto per intensità e profondità: cottura perfetta, terminata con centrifuga di sedano, mantecato poi con burro affumicato e rafano, con polvere di levistico a chiudere. Altro piatto decisamente riuscito è la rana pescatrice, grazie a una pregevole laccatura con mosto cotto e l’accompagnamento del peperone sia in crema, con vermouth, che intero e grigliato, e la senape in grani, messa in ammollo con aceto.

Gustosi e piacevolissimi anche gli altri primi assaggiati, mentre la parte iniziale non è altrettanto forte: la lingua di manzo con le lumache, piatto concettualmente interessante, pecca di una slegatura di fondo fra i due elementi e con le lumache decisamente sciape. Sulla capasanta si sarebbe potuto spingere maggiormente sui contrasti fra il dolce della pesca e l’amaro della mandorla, anche qui non particolarmente amalgamati.

Sul comparto dolci, piacevoli soprattutto quelli meno dolci grazie alla componente vegetale che porta originalità e freschezza: è il caso del sedano nella torta di noci farcita con ricotta di pecora e spuma di miele, così come della spuma di latte e Aglione della Chiana e il gelato ai fiori di finocchio, in accompagnamento al biscotto. Il Paris Brest invece un po’ troppo pesante, con il pistacchio fin troppo pastoso.

In conclusione una cucina con una chiara personalità, che esce dai percorsi già visti, e che fa un uso interessante del vegetale a livello trasversale, con grazia ed eleganza di fondo unita ad una mano decisamente valida. L’alter ego di Lagrimino, Nadia Moller, in sala, si destreggia con abilità, spontaneità e professionalità. Una proposta quindi interessante e consigliabile, con possibilità concrete di arrivare a punteggi più elevati a breve, innalzando ogni portata del menù degustazione allo stesso livello raggiunto dai piatti più interessanti.

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Nel segno del biologico

Umbria Grechetto IGT “Fiordaliso” 2019 – Cantina Roccafiore

Siamo a Todi, regno del Sagrantino, Trebbiano Spoletino e, soprattutto, del Grechetto di Todi. Qui, la cantina Roccafiore vinifica uve che ricalcano la tempra e la finezza dell’Umbria. Il tutto è valorizzato attraverso la scelta della viticoltura sostenibile e naturale confermata con l’ottenimento della certificazione Green Heart Quality, il marchio della Regione Umbria a garanzia delle pratiche di sostenibilità ambientale.

Il vino ha già al naso si esprime con un profilo elegante, sottile ma tenace nell’affermazione fruttata e gessosa. Ricorda il passion fruit, l’ananas e il melone. La componente erbacea rinfresca il bouquet con le note pungenti del timo, del rosmarino e della menta, sfumando su una traccia floreale di mughetto, dalla bellissima finezza. Il palato corrisponde al naso, nell’incisività fresca e nella tensione sapida che rifinisce un sorso equilibratissimo e piacevole. Lo consigliamo in abbinamento a un risotto cozze e limone.

Prezzo online ecommerce Tannico: 8.50 euro

Castel Del Monte DOC Vignuolo Rosso 2016 – La Cantina di Andria

Nero di Troia, Aglianico e Montepulciano: questo il blend del Castel Del Monte Vignuolo Rosso della Cantina di Andria. La Murgia viticola dell’intorno di Castel Del Monte si tinge di rosso, portando con sé la franchezza del terreno calcareo. Questo vino biologico è nato dalla volontà di preservare queste colline incantate che sanno di mare e di terra. Cantina di Andria è una cantina sociale che ha dato lustro all’espressione viticola della zona fin dal 1959, e che oggi conta 40 associati per un totale di ben 200 ettari vitati.

La succosità del frutto si palesa in questo naso carnoso, scolpito nella polpa della prugna e della ciliegia, sullo sfondo scuro e spesso della terra e del caffè. Possente e poderoso, al sorso, si compone in una forza che non manca in alcun modo di equilibrio. Si fa ricordare a lungo in una trama di caffè, tabacco e cacao, dentro l’abbraccio della freschezza e il sostegno della struttura. Da provare in abbinamento a un capretto in umido.

Prezzo online ecommerce Tannico: 8.80 euro