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Piazza Duomo

Un microcosmo magico in continua evoluzione

Piazza Duomo ad Alba è ormai da tempo nell’olimpo della ristorazione italica e lo Chef Enrico Crippa, oltre a rappresentarne l’anima, è il deus ex machina che ad ogni servizio spinge tutti a dare il meglio col carisma e la leadership di chi non ha bisogno di alzare la voce ma a cui basta dare l’esempio e conservare l’umiltà. È lui infatti dai tempi dell’apertura ad essere tra i primi al mattino che arrivano in cucina dopo essere passato a selezionare le verdure e le erbe nel suo orto, così come non è raro vederlo reggere il vassoio delle portate che qualcun altro servirà al vostro tavolo. Dettagli, questi, che si colgono ancor di più quando si è seduti allo chef’s table, immersi tra i ragazzi di cucina che si muovono con un ordine e un silenzio quasi assordante.

Nella cucina di Piazza Duomo sono nati, e siamo certi continueranno a nascere, alcuni dei piatti entrati nella storia della cucina italiana e spesso fonte di ispirazione per molti giovani Chef, basti pensare all’Insalata 21, 31, 41 che oggi si è evoluta e conta più 100 erbe al suo interno. Parliamo di una cucina legata al territorio, ricca di vegetali, che il più delle volte è proposta in maniera elegante ricercando anche nell’impiattamento dei richiami al mondo dell’arte.

Eleganza estetica e palatale

La nostra ultima visita è stata un mix di piatti storici, sempre graditi, e nuove creazioni, in un percorso che ci ha regalato molte emozioni. Si inizia con un divertente appetizer e l’evocativo Gingerino e foie gras, che in tanti provano a replicare ma che qui resta nella sua versione migliore. La prima vera portata è in realtà una miriade di assaggi tutti a base vegetale che invadono letteralmente il tavolo e stimolano il palato con un caleidoscopio di sapori dolci e acidi.

Tra le portate successive, eccezionale l’Omaggio ad Anselm Kiefer (pittore tedesco a cui si ispira anche l’estetica del piatto) a base di seppia e cardo, dove il mollusco è crudo e ridotto a una sfoglia coperta da una salsa al cardo, servito anche di fianco in una versione assoluta. Un piatto giocato sulle note dolci, incredibilmente piacevole e persistente al palato. Spiazzante sia per sapore che per consistenze il Riccio di mare, ingrediente particolarmente amato dallo Chef, con peperoni e mandorle. Qualche passaggio come il Rombo e la zucca, sebbene mirabilmente eseguito, mancava di quella spinta in più che ci si aspetterebbe in una sequenza di piatti ad alti livelli. Molto buono il reparto pasticceria, che oltre a servire e presentare le portate al tavolo in cucina, è capace di creare ottimi dessert, golosi oltre che scenici.

Complementare alla cucina è poi la sala, da qualche mese nelle mani del bravissimo Davide Franco il quale, a dispetto della giovane età, vanta una lunga esperienza ai vertici della ristorazione internazionale oltre a una naturale propensione nel far sentire a proprio agio tutti i tipi di clientela, senza mai essere troppo invadente. Enciclopedica la carta dei vini nelle mani del talentuoso Jacopo Dosio, dove oltre al Piemonte c’è tanto spazio per la Francia e qualche chicca per gli appassionati.  

La Galleria Fotografica:

Da dove iniziare per raccontare l’ennesimo strabiliante pranzo dal grande Enrico Crippa? Forse, per noi che abbiamo la pretesa di fare critica gastronomica assegnando dei voti, una strada potrebbe essere quella di partire da un numero.
Diciannove.
Quasi il massimo per PG. Anzi il massimo, dal momento che abbiamo deciso, per adesso, di lasciare inutilizzata la casella con il Venti. Cosa spinge un critico ad assegnare il massimo? Com’è un ristorante da Diciannove? Non è facile spiegarlo ma ci proviamo partendo da cose concrete, isolando tre piatti monumentali della nostra ultima esperienza.
Piatti non solo buonissimi, ma emozionanti. Ecco il Diciannove. L’emozione. Che ti accompagna anche nei giorni successivi in cui ti capita di ripensarci e ti tornano in mente sapori, sensazioni.
Diciannove.
Insalata di uova e uova. Ma che volete che siano due foglie di insalata? Piatto fenomenale, di rara eleganza, assoluta nettezza di sapori, esorbitante freschezza. Presentato da Crippa durante l’ultima edizione di Identità Golose, già si era capito che era stato concepito l’ennesimo capolavoro.
Diciannove.
Cavolfiori e animelle. Due caratteri assai difficili per il matrimonio del secolo. Piatto incredibile.
Diciannove.
Famolo strano? Ma no, facciamo un Risotto. Alla Piemontese. Da Diciannove. Salsa di fegatini, brodo di castagne, polvere di capperi, qualche porcino e una spruzzata di cacao. Semplice no? NO!
Per il resto solo una serie di piatti eccezionali, perfetti, con ben impressa la cifra stilistica del loro creatore.
Perché Diciannove significa anche cucina d’autore, in cui deve essere ben riconoscibile lo stile del cuoco.
Che nel caso di Enrico Crippa risiede nel sapiente e frequente uso degli elementi vegetali e floreali (questi ultimi reali o anche solo disegnati), nel rigore stilistico tutto marchesiano in quell’essenzialità per cui in un piatto è sempre meglio togliere che aggiungere fino ad arrivare ad esaltare l’Ingrediente che è al centro di tutto, in quel senso estetico, quel gusto marcatamente orientale che Crippa si porta dentro sin dalla sua fondamentale esperienza in Giappone.
Ma non basta avere uno stile riconoscibile e originale. Bisogna anche saperlo declinare in forme e modi diversi. Saper toccare differenti corde, con piatti che raccontano storie mai uguali. Non cadere mai nella monotonia. Non limitarsi mai a replicare se stessi.
Quanti pranzi in un pranzo al Piazza Duomo.
C’è l’omaggio al territorio delle Langhe con la crema di patate e tartufo bianco a cui viene aggiunto, immancabile, un pezzo di Oriente, il Tè affumicato Lapsang Souchong.
C’è la tradizione reinterpretata con grande tecnica ed originalità nel Cotechino racchiuso in un boccone e nel “bis di primi” Cannelloni e Malfatti di ricotta e bietole, in cui della pasta c’è solo la sensazione.
C’è l’Ingrediente assoluto in una fantastica Insalata di funghi e tutta l’essenziale eleganza di ispirazione marchesiana in un piatto come Rape e salsiccia.
C’è la Francia nella Torta di mele e indivie, che al gusto rimanda fortemente alla tarte tatin arricchita dall’indivia caramellata tanto presente nella cucina d’Oltralpe.
Non può mancare, poi, l’omaggio all’amato Giappone in un altro dessert: Caco, castagne e cardo.
Potremmo continuare ma rischieremmo di annoiarvi e di farvi perdere inutilmente tempo.
L’unica è venirci.
Almeno una volta nella vita.
Piazza Duomo: Diciannove.
Lunga vita al Samurai di Langa.
Ad Majora

L’insuperabile sequenza degli appetizer. Un vero e proprio festival di tecnica e sapori. Amaretto e Umeboshi.
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Gauffre di parmigiano.
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Nuvola di cioccolato.
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Finto peperone.
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Foie Gras e Ginger.
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Rape marinate.
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Sgombro e Alghe.
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Spugna ai porcini.
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Si parte davvero. Con una splendida Tinca in carpione.
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Insalata di funghi.
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Insalata di uova e uova: l’insalata è rosolata in un burro aromatizzato alla salvia. Quindi caviale, tuorlo d’uovo e panna acida.
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Capesante Ricci di mare e Pecorino.
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Rape e Salsiccia. La salsiccia è quella di Bra (a base di carne di vitello si mangia fresca ma cruda). L’amaro della rapa si armonizza perfettamente con i cubetti di foie gras.
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Mandorle e Merluzzo. Ancora un grandissimo piatto di contrasti con il brodo di merluzzo e i capperi a bilanciare il dolce delle mandorle.
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Omaggio al territorio e alla stagione: Crema di patate e Lapsang Souchong Tartufo bianco.
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Si gioca: Cotechino e Lenticchie.
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Cavolfiori e Animelle. Chapeau!
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Risotto alla piemontese.
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Cannelloni e Malfatti di ricotta e bietole. Il bis di primi. Da una parte il cannellone costituito da una pellicola ottenuta dalla lavorazione di un ragù napoletano. Dall’altra la sfoglia è pura bietola. Si gode!
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Compagni di viaggio.
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Cavoli e Piccione. Il cavolo è nero, il piatto è grandioso.
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Torta di mele e indivie.
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Caco Castagne e Cardo. Un omaggio al Giappone dove castagne e cachi (quelli vaniglia, più duri) sono assai amati. Notevole la nota aromatica di Tè verde.
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Qualche piccolo coccola finale così, tanto per gradire.
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Notre métier, notre mission, consiste avant tout à donner du bonheur à nos clients. Jour après jour”.
Le parole di Dominique Loiseau esprimono alla perfezione la filosofia che qui impera.
Bernard Loiseau dal 1975 al 2003, anno della sua tragica e prematura scomparsa, ha portato questa maison alle stelle, anzi alla terza stella conquistata nel 1991 e mai più persa, coronando così il sogno che cullava fin dai tempi dell’apprendistato dai Troisgros: “un jour, j’aurai 3 étoiles !”.
Quante storie potrebbero raccontare questi muri.

Quella di un uomo che non ha sopportato il peso del mondo, il brusio della gente, fino a farsi divorare da quel buco nero che, grande o piccolo, alberga in ogni uomo.
O quella di un secondo, Patrick Bertron, che da un giorno all’altro si è trovato tre stelle puntate sul petto, lui, che dopo 10 anni di totale controllo sulla cucina, è ancora per tanti solo un onesto esecutore, niente di più, un eterno secondo. Un grande cuoco invece, con due spalle enormi per reggere un’eredità che avrebbe messo in difficoltà chiunque e che invece lui ha condotto con personalità negli anni duemila. Del resto era lo stesso Loiseau a dire: “Patrick cucina Loiseau meglio dello stesso Loiseau”.
E poi lei, Dominique, tanto carisma da poterlo percepire nell’aria: al suo ingresso in sala, siamo certi di aver contato almeno cinque secondi di totale silenzio, come se una regia nascosta avesse calato il buio e acceso un riflettore solo su di lei. Una sola parola: classe.
Eppure, entrando nel Relais Bernard Loiseau, non ci si sente schiacciati dalla storia né tantomeno aleggia una sensazione di malinconia o di stanchezza. La prima sensazione che si prova è quella di trovarsi in un posto bello, curato, vivo e al passo con i tempi. Non è certamente un tre stelle in formalina.
Nessun dettaglio è lasciato al caso: si prende l’aperitivo, si studia il menù e la monumentale carta dei vini comodamente seduti in salotto. Una sala di grande mestiere, precisa e puntuale: vedere sporzionare al gueridon la poularde è l’immagine migliore di quanto possa essere sublime l’arte del servizio.
La cucina è oggi il regno di Bertron, una cucina di territorio, ma non statica, molto attenta al prodotto, rigorosa e tecnicamente ineccepibile. Il motto del suo Maestro non è caduto nel vuoto: “le goût, le goût, toujours le goût!”
Lo chef porta in tavola i prodotti di stagione e del territorio cercando di esaltarli attraverso cotture delicate, salse leggere con il minimo indispensabile di grassi aggiunti, senza stravolgere la texture, ma puntando esclusivamente a concentrare ed esaltare al massimo il gusto nei piatti proposti.
E’ celebre il lavoro di alleggerimento delle salse svolto da Loiseau assieme al suo fido scudiero: le famose salse all’acqua, riprese ultimamente anche da un famoso chef italico che cerca nell’ingrediente la risposta a tutte le domande, proprio come faceva il duo Bernard-Patrick.
Ma non si può capire Bertron senza prima capire Loiseau. E niente può spiegare meglio la cucina di Loiseau-Bertron delle parole di Loiseau stesso. Ecco cosa diceva Bernard in una delle sue numerose interviste:
Bisognerebbe poter riconoscere quello che si sta mangiando, per cui io non faccio evaporare nella ricetta vini o altri alcolici, perché questo farebbe cambiare il gusto. Non faccio nemmeno raddensare le salse con la farina o l’albume. Nemmeno panna, né fond, né demi-glace, nessun fumet, niente grassi salvo per un pochino di burro quando faccio saltare le cose, che poi asciugo con un panno di carta. Non c’è ristorante in Francia che usi tanta carta quanta ne usiamo noi. Quando si tratta di fare una salsa, gli altri mettono mano ai vasetti di crème fraîche. Io uso l’acqua. L’acqua è la cosa migliore del mondo. E’ completamente neutra, per cui adotta esattamente il sapore dell’ingrediente. Si ottiene il vero sapore. I clienti non vogliono più mangiare la panna. Qui puoi pranzare e serbare ancora un po’ di appetito per la cena. Sto ribaltando tutto quanto. Fra dieci anni tutti vorranno mangiare in questo modo”.
Forse troppo avanti per la clientela dell’epoca: qualsiasi esercizio commerciale deve confrontarsi con l’impatto che hanno le idee sui gusti della gente. Bernard fu costretto a fare una leggera marcia indietro, lui che stava pericolosamente per essere identificato come il Crociato anti-salsa. Una posizione troppo forte per la Francia di venticinque anni fa, ma forse anche oggi.
Si racconta che un grande amico di Loiseau, il mitico Bocuse, amante alla follia di battute e scherzi , camminando con alcuni colleghi vicino a un fiume disse: “Bisogna dirlo a Bernard! Guardate quanta buona salsa sprecata!”. La frase fece il giro di Francia.
Chissà se fu questo a convincere Bernard, fatto sta che smise di parlare di salse all’acqua.
Ma non si mosse di un passo rispetto al suo vero credo, quella “cuisine des essences” a cui aveva dedicato una vita intera di lavoro.
Tornando al presente, in carta ci sono, come è logico, i classici della Maison e del Maestro, ma accanto ad essi troviamo anche preparazioni più legate a Bertron, che viaggiano su binari paralleli senza mai scontrarsi, ma integrandosi alla perfezione in questo ingranaggio ultra collaudato.
La nostra visita ha ampiamente superato le attese, abbiamo trovato la cucina in grande forma: cotture millimetriche, salse tirate alla perfezione.
Non tutto impeccabile: un appetizer discutibile, una entrée leggermente sapida.
Certo, dettagli di fronte alla cesellatura delle verdure o all’intensità di gusto di quel jus iodé aux accents de tourbe.

Un capitolo a parte merita la Poularde à la Vapeur Alexandre Dumaine: un piatto storico, ripreso e alleggerito da Loiseau che eliminò del tutto la panna. Non abbiamo dubbi a inserire questa Poularde nella lista dei capolavori gastronomici che qualunque appassionato di cucina dovrebbe provare almeno una volta nella vita. E’ necessaria un’ora e 45 minuti di preparazione per questa meraviglia (quindi ricordatevi di prenotarla in anticipo se non volete aspettare troppo al tavolo).
“…in una grossa casseruola di cotto sigillata con un panno, l’animale, ripieno di una julienne di verdure arricchita con fegatini di pollo, foie gras e tartufo, sta su un treppiede sopra un ricco bouillon composto di tre jus, di pollo, ali di pollo e vitello, e un contenitore separato pieno di cognac, porto ed essenza di tartufi. Ripieno all’interno e abbigliato a lutto all’esterno, cioè annerito da fettine di tartufo inserite sotto la pelle, il pollo viene cotto al forno dal vapore che sale dal bouillon e dai liquori al tartufo…”
(tratto dal libro “Il Perfezionista – Vita e morte di un grande chef”, Ed. Ponte alle Grazie, 2006).
La pasticceria non è da meno: Benoît Charvet si muove con disinvoltura sia nei classici, vedi la fantastica Saint Honorè (che ci ha fatto pensare al grande Philippe Conticini) che in preparazioni più personali come il Saveurs exotiques croustillant-fondant di mango e patata dolce al cocco di rara perfezione.
Carta dei vini importante e ricca, ma anche fruibile e corretta nei prezzi: esempio lampante il nostro Chambertin proposto ad un costo più che allettante.
Insomma, una grande sosta, che consigliamo vivamente di visitare almeno una volta nella vita, per conoscere la cucina di quell’autentico mito che è stato Bernard Loiseau, ma anche per comprendere come può ancora essere attuale e stimolante una grande Maison francese.

L’aperitivo: salatini al formaggio.

Da sinistra: bon bon di foie gras e gelatina al vino, bicchierino con pomodoro, aglio e origano e crocchetta fritta di pesce.


Burro, sale di Guerande e burro salato.

Il pane

Amuse-bouche: bouillon di melone, prosciutto croccante, spuma di latte, un inizio così così, troppo brodoso, poco incisivo, da rivedere.

Jambonnettes de grenouilles à la purée d’ail et au jus de persil: uno dei piatti simbolo di Loiseau, ancora attualissimo. Tenere, suadenti, succose, cotte alla perfezione le coscette, accompagnate in un matrimonio d’amore da un concentrato e persistente, ma non invasivo, puré d’aglio e da un delicato succo di prezzemolo. Un sicuro metro di paragone per chiunque voglia cimentarsi con un ingrediente complesso e delicato come le rane.

Pavé de bar côtier doré sur la peau, accompagnato da un involtino di asparagi verdi farciti di salicornia e “jus iodé aux accents de tourbe”: uno dei piatti della serata, uno splendido filetto di branzino di grande qualità cotto alla perfezione in modo da conservare tutti gli umori e la caratteristica consistenza, accompagnato da una salsa leggermente torbata in cui indulgere senza ritegno.

Langoustine Royale poêlé au beurre de citron accompagnati da cannelloni farciti con le parti meno nobili degli scampi, verdure di stagione e bouillon all’aglio orsino: ottima la qualità degli scampi, grossi e succosi, deliziose le verdure cesellate in maniera certosina, ma un pizzico di sale di troppo soprattutto nel cannellone ha parzialmente pregiudicato la piacevolezza del piatto.

L’incredibile lavoro di taglio e intarsio delle verdure.


E finalmente la poularde, in una sequenza che mostra il lavoro e la maestria del maître nel porzionare al gueridon: il profumo che inonda la sala all’apertura della pentola di coccio è indescrivibile. L’obiettivo è raggiunto: tutta la sala volge lo sguardo verso il certosino lavoro di sporzionamento, l’attenzione è catturata e certamente qualche cliente avrà già segnato nel suo taccuino di ordinare la poularde alla prossima visita.






Il piatto finito: il petto sapientemente tartufato sotto la pelle, gustoso e consistente come raramente capita di trovare al giorno d’oggi.
La coscia saporita e con la carne ben attaccata all’osso, la farcia di verdure, foie gras e fegatini di pollo, il riso basmati al tartufo, il bouillon di cottura di pollo e vitello completano un piatto che affascina e commuove, un pezzo di storia della gastronomia.



Il nostro fedele compagno di viaggio: lo Chambertin 2006 di Armand Rousseau, dal bel colore rosso rubino vivo. Al naso parte un po’ chiuso con note vanigliate dovute alla giovane età, ma con l’ossigenazione dovuta all’ampio bicchiere si apre donando note di ciliegia rossa, spezie, terra. In bocca è largo, strutturato, pieno, un gran vino già oggi, ma che sicuramente avrà una lunga vita davanti.


La Saint Honoré per due persone: Benoît Charvet dimostra di avere stoffa con questo classico dell’alta pasticceria, la sua versione è di gran classe: una base di sablè, poi pasta sfoglia leggerissima, panna di gran qualità, golosi profiterole, il tutto legato da una perfetta salsa chiboust.


Croustillant-fondant de mangue et de patate douce à la noix de coco. Un dolce di impostazione moderna, leggero e gustoso adatto a chiudere una cena importante.

La piccola pasticceria, di rara bellezza.



Il caffè.

Una fila di anelli da un capo all’altro dell’ampio parcheggio, interrotti da un cavallino che pare lì quasi per caso, ci fa venire il dubbio che Brusaporto, complice il tourbillon delle province che da qualche anno continua a rimescolare le carte in tavola, sia finito in provincia di Ingolstadt.
Ci avviciniamo titubanti all’ingresso, cercando disperatamente l’App traduttore Italiano-Tedesco-Italiano sull’iPhone, quando la calorosa (e soprattutto a noi comprensibile, senza alcun dizionario) accoglienza del ristorante ci fa capire che Brusaporto è rimasto, per nostra fortuna, in provincia di Bergamo.
Da Vittorio è uno tra i ristoranti d’eccellenza assoluta nella scena italiana, uno dei sette trois-étoilée italiani, che possiamo ridurre a quattro se consideriamo tra tutti solamente quelli di impostazione squisitamente classica, di scuola transalpina.
Eccellenza riservata a pochi ristoratori, e che in questo caso viene mostrata senza discrezione, non sussurrata anzi, gridata a pieni polmoni: nei maestosi piatti, nell’efficiente servizio, nell’elegante ambiente, il fil rouge che fa da collante ed unisce il tutto è l’opulenza, la ricchezza, una sorta di grandeur tricolore. La macchina creata dalla famiglia Cerea è sicuramente tra le ammiraglie nella ristorazione italiana, con dotazioni di prim’ordine ed un motore ad alte prestazioni, potente ed efficiente. Ecco quindi che i piatti, neanche a dirlo, sono perfettamente concepiti ed altrettanto magnificamente eseguiti, senza funambolismi particolari, “solamente” golosi, piacevoli e lussuriosi, forse anche fin troppo.

Ma eccellente non significa scevro di difetti, tutt’altro. E’ questo un indirizzo che senza alcun dubbio mira ad appagare l’ego prima che il palato, dove il mostrare a tutti la propria presenza è ancora più importante della stessa. E’ la versione gastronomica del terrificante, nonché tremendamente lombardo “lavoro-guadagno spendo-pretendo”, o se preferite, per i non autoctoni, una sorta di “rogito ergo sum”.
Poco meno di quattrocento euro in due per due piatti alla carta, un dessert ed un calice (!) di Champagne è fuori da ogni umana ragione; eppure durante la nostra visita, in un comune e piovoso martedì sera come tanti, la non certo piccola sala era trionfalmente piena, senza nemmeno una sedia che fosse una rimasta vuota.
Un fatto vale più di cento parole, un plauso ai Cerea ed alla loro superlativa macchina, in grado di procedere a gonfie vele anche con strada in salita e assenza di vento.

E’ innegabile che vi siano alternative sulla carta razionalmente migliori, più economiche o più efficienti, altrettanto e anche maggiormente performanti, più misurate nei consumi o sensibilmente più emozionanti… ma non si vive di sola razionalità, ed infatti di anelli sono pieni i parcheggi, soprattutto quelli di Brusaporto.

Un calice di Champagne.

L’altro calice di Champagne.

Entrée

Grissini, di diverse tipologie.

Il vassoio dei pani (!)

Insalata tiepida di pesce al vapore.

Risotto cappesante, bisque di zucca, crema di dragoncello.

Capretto da latte, infuso di salsa al curry, piccole verdure al grasso d’anatra.

Scamponi alla brace, hummus, chutney mango, mousse allo zenzero.

Predessert.

Mela, curry, cioccolato e banane
Spugna di mela, gelatina liquida di salsa al martinica, banana caramellata aromatizzata al curry.

Pastiera à la coque
Leggero di pastiera in finto guscio di latte di capra aromatizzato all’arancia.

Piccola pasticceria.

Bon Bon di gelato.

Un giorno di marzo del 1973, un uomo suona alla porta del ristorante Pic a Valence, dove officia il quarantunenne Jacques, figlio d’arte e erede di una lunga tradizione familiare. Sua moglie Suzanne dice allo sconosciuto che la maison è chiusa il mercoledì, senza riconoscerlo: si tratta di André Trichot, direttore della guida Michelin e non è lì per mangiare.
E’ lì per annunciare a Jacques Pic la terza stella, come l’aveva presa suo padre André nel 1934.
Quasi quarant’anni dopo, e a quasi venti dalla scomparsa di Jacques, le tre stelle brillano ancora da queste parti ma al piano c’è una piccola grande donna. Anne-Sophie, che non lo sognava da bambina, ma che dal 1996 ha deciso di consacrare la sua vita alla continuazione di questa fantastica epopea gastronomica sino a riprendere il massimo riconoscimento gommato nel 2007.
Passando da queste parti, il rischio sarebbe di perdersi nei ricordi, nel mito, celebrato dalla vetrina in cui si raccolgono le “rosse”, ma approcciandosi con il dovuto rispetto a questa tavola la domanda era: è un posto che valga la pena di visitare per la sua cucina, oggi?
La risposta è senz’altro sì, come sintetizza il voto in alto, avendo chiari un paio di presupposti: qui si fa alta cucina, contemporanea, ma ancorata nella classicità (quindi: astenersi se cercate scoop); il conto da pagare è salato, a meno di non venirci a pranzo optando per il menu midi/plaisir che, invece, ha un prezzo davvero interessante.
Il percorso fino alla tavola è il più lungo della storia, ma all’arrivo sarete messi comodi in una sala luminosa governata da un’équipe di professionisti abilissima nell’assecondarvi senza eccessive piaggerie ma senza la minima sbavatura.
Il menu è di quelli da tre stelle, che emozionano anche per qualche presenza “storica” in carta (ah, la bar de ligne…), ma l’idea era quella di stare sul contemporaneo e magari verificare se la partenza di Philippe Rigollot (MOF che officiava ai dessert) aveva fatto danni.
Preceduto da piccole golosità di bellezza e bontà notevoli, notiamo che l’amuse bouche è lo stesso provato da chi ci ha preceduto due anni fa: sarebbe un male, se non fosse che la crème brûlée al foie gras con mousse di granny smith è, senza possibili discussioni, perfetta.
L’entrée è di gran lunga il piatto più bello visto da tempo ed è anche molto interessante nella concezione: l’”uovo di pollo e chipirons”, nasconde sotto una bellissima copertura di oeuf mollet un cuore liquido di piccoli calamari in un quasi ketchup di pomodoro, capperi, galanga e miele millefiori. Molto elegante, fresco, giusto un po’ trattenuto sulle note acide per essere perfetto.
La triglia cotta dolcemente sulla pelle, con piselli, gallinacci e bouillon spumoso alla cannella e caffè è una preparazione d’alta scuola: la triglia rispettata nella cottura millimetrica, gli accompagnamenti di verdure e bouillon dosati con maestria. Il genere di preparazione che situa una tavola nei quartieri più alti della ristorazione.
Ai dessert riservavamo i dubbi maggiori: Rigollot è ormai ad Annecy a curare la sua pasticceria (chiusa ad agosto, per nostro grande disappunto) e al suo posto c’è Audrey Gellet, sua allieva, dal 2007 chez Pic con passaggio nella sede svizzera e rientro a casa nel 2011. Ed è un altro fenomeno, Audrey, capace di farci provare in successione dei piccoli capolavori tra cui svettano i piccoli babà al rum con coulis di fragole “mara des bois” aromatizzato alla menta. Questo, insieme alle altre delizie riportate in basso e alla piccola pasticceria finale, è il prototipo del dessert d’alta scuola, sempre più una rarità (e un classico dessert da pasticcere e non da chef, una cosa difficile da trovare da noi anche ai più alti livelli).
Carta dei vini non impressionante per altisonanza dei nomi (ci sono, ovviamente, grandissimi flaconi ma meno numerosi che in altri tristellati) e, invece, lodevolmente aperta a vini interessanti e più abbordabili: a poco più di una sessantina di euro ci accompagna benissimo il Vouvray 2006 Haut Lieu di Huet.
No, non è un’esperienza che stravolgerà le papille dei gourmet più smaliziati: ma quanta cura, quanta precisione, quanto mestiere.
L’alta cucina classica ai giorni nostri, ed è bello ogni tanto farsi coccolare in un posto così, a prova d’errore.

Il momento più bello

Piccole meraviglie per fare conoscenza

Quante ne avrà viste…

La crème brûlée di foie gras

Uovo e chipirons

La triglia

I petit-fours

I piccoli babà

Una piccola bavarese al cassis per la commensale meno golosa

Albicocca e crema alla vaniglia

Cremoso acidulato di yogurt alla vaniglia e mirtilli confit