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Cacciatori

Il grande fascino della cucina con la stufa

Ha origini nel 1818 questa trattoria, con una cucina che si tramanda da generazioni e che ora ha Massimo Milano in sala e Federica, la moglie, in cucina. Una cucina che risente della storia e di un territorio di confine fra Piemonte e Liguria, cui si accedeva da questa strada dove, appunto, negli anni sono nati vari ristoranti. Ma con l’autostrada l’unico locale sopravvissuto è proprio l’affascinante Cacciatori, che ha saputo crearsi una forte identità e attrattiva necessaria per portare gli avventori a spingersi fino a Cartosio, meta che non è, ovviamente, di passaggio. Qui c’è, del resto, il grande fascino di una bellissima cucina con stufa a legna gestita con grande maestria da Federica e protagonista della cottura, perfetta, di tanti piatti.

Fra le Langhe e la Liguria

Testa in cassetta, acciughe, burro e salsa verde introducono questo viaggio in un mondo di sapori evocativi, di equilibrio e di attenzione alla ottima materia prima. Federica è brava, ha assimilato le tecniche, ha vissuto le ricette tramandate e le ha rese attuali e ingentilite. Il cardo gobbo di Nizza in gratin è perfetto nel rispetto al vegetale che ne esce da protagonista grazie all’equilibrio dei diversi componenti. Lo stinco di manzo è cotto per ore sulla stufa, solo con olio e qualche erba aromatica, perfetto nella sua essenzialità e nella cottura, delizioso. Il pollo alla cacciatora è di prima qualità materica e il sugo è squisito. I tagliolini sono di ottima fattura, con abbondante burro fuso e si prestano all’ottimo abbinamento con il tartufo bianco d’Alba.

Massimo in sala è un ottimo padrone di casa, dispensatore anche di aneddoti e storie della ristorazione piemontese, a cui va anche il plauso per averci servito un gelato alla nocciola, preparato da lui in giornata, dalla mantecatura vellutata, davvero notevole. Ci si sente davvero accolti e coccolati qui a Cartosio, in una delle “Premiate Trattorie Italiane”.

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Una repubblica che tende alla diarchia

Per Burrhus Skinner “cultura è ciò che resta nella memoria quando si è dimenticato tutto”, una definizione che potrebbe essere benissimo traslata al concetto di cucina della Repubblica di Perno. Infatti, Marco Forneis lo chef e patron di questo avamposto gastronomico, dopo varie peregrinazioni e una carriera nei ristoranti fine dining, ha deciso di cambiare rotta e proporre una cucina piemontese dall’esecuzione tecnica ineccepibile. Completamente solo in cucina, gestisce la piccola manciata di coperti del ristorante con un menù di impronta langarola e sempre disponibile a esaudire le richieste dei commensali.

In sala l’alter ego di Marco, Elena Miori, sua compagna anche nella vita, è abile nel consigliare i clienti sia sul cibo che sul vino, supportata da una carta transnazionale originale e ricercata.

Una moderna cucina di Langa

Come si è detto la cucina attinge a piene mani dalla tradizione piemontese e si fa ricordare non solo per la bontà dei prodotti impiegati ma anche per le tecniche di esecuzione e le cotture millimetriche. Un esempio è la finanziera, che colpisce per l’equilibrio e la “delicatezza” dei sapori: giardiniera, filone, animelle, creste di gallo, polpettine di vitello e un odore di Marsala a sublimare e armonizzare il tutto, per un’esecuzione da applausi

Molto buona la battuta di carne, quasi francescana nell’aspetto, condita col tartufo bianco. Il tubero pregiato è stato protagonista anche di un perfetto tajarin al burro e un classicissimo uovo fritto. Piccolo capolavoro, invece, il coniglio con i peperoni, tanto semplice quanto gustoso, portata che ha richiesto un doveroso bis. Nel segno della tradizione anche il reparto dolci con un’ottima torta di nocciole e zabaione su tutti.

Qui alla Repubblica di Perno ci si diverte e si vedono anche i proprietari divertirsi nel rito dell’accoglienza; una piccola bomboniera consigliatissima per chi volesse mangiare una classica cucina piemontese eseguita in maniera davvero esemplare.

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A Grazie il tempo si è fermato

L’orologio sembra essersi fermato a Grazie, in una tanto minuta quanto affascinante frazione di Curtatone (MN). Nel piccolo borgo, raccolto intorno al Santuario delle Grazie, da cui il nome, il negozietto di souvenir si presta anche da parrucchiere o tabaccaio. All’esterno, una sedia e un tavolino, muniti degli apposti strumenti del mestiere, fanno da cornice alle caratteristiche locande presenti a bordo strada, fornendo un’atmosfera quasi ovattata in cui sentirsi viandanti per una sera.

Sulla strada pedonale, protetta da una siepe, c’è la Locanda delle Grazie. Un luogo in cui si assapora la cucina della tradizione mantovana, protetti dalle piante e dall’accogliente veranda resa ancora più intima dalle tende. Coerentemente con l’atmosfera, anche la Locanda delle Grazie sembra aver incapsulato il tempo: la cucina del territorio è sempre fedelmente messa in tavola anche dopo il cambio di gestione, Daniela Bellintani e Fernando Aldighieri hanno infatti passato il testimone a Giuseppe Maddalena e Nicola Reggiani.

Locanda delle Grazie: la tradizione è servita

Seduti al tavolo ci accoglie un cesto con grissini, pane e piccola pasticceria salata come i panini con il cotechino. Un preludio a quello che sarà il menù: generoso e casalingo. La sala, d’altra parte, si dimostra presente, puntuale e discreta. Il cuoco, come un direttore d’orchestra, compone equilibratamente ogni piatto dell’antipasto Luciana, sinfonia dove trovano spazio le sfiziosità tradizionali mantovane: il cotechino si accompagna ai crauti che sgrassano l’insaccato; il luccio in salsa verde viene sdrammatizzato dai capperi; gli immancabili salumi vanno a braccetto con la giardiniera fatta in casa.

Di produzione propria anche la mostarda di mele: moderatamente piccate e dalla consistenza interessante, accarezza senza offuscare la spalla cotta di San Secondo, ben sostenuta dalle spezie. Leggermente stonata la polenta, ricca di amido e dalla consistenza gelatinosa.

I primi piatti sono ricchi e rassicuranti: apprezzati i maccheroncini al torchio con sugo di stracotto, in cui la consistenza della pasta contrasta con la cremosità del ragù, dove il vino rosso presente si sente e alleggerisce, per quanto possibile, il piatto. Altro primo da segnalare è il Sorbir (in dialetto mantovano “a piccoli sorsi”, riferito al vino) di anoli in brodo di cappone, leggermente troppo sapido il brodo ma con l’immancabile aggiunta di Lambrusco secco, a donare acidità al piatto.

Per quanto riguarda i dolci, il cavallo di battaglia del locale è sicuramente lo zabaione, che non si risparmia, orgogliosamente proposto in accompagnamento a ogni piatto, come una festa di fine pasto. Nota di merito per la torta Miascia e la Sbrisolona Mantovana: i due dolci più interessanti poiché più ricchi di contrasti. La prima, nata come dolce di recupero a base di pane e frutta, in questo caso proposta con le mele, si dimostra una scelta azzeccata, nostalgica, vicina ai ricordi dell’infanzia. La seconda, quasi all’opposto, è croccante e di carattere: una punta di scorza di limone aggiunta all’impasto le regala un piacevole tocco d’audacia. Peccato, invece, per il budino al cioccolato amaro, con qualche imprecisione nella consistenza e la nota amara del cioccolato rimasta troppo timidamente sullo sfondo.

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La Romagna è una terra di emozioni uniche, racconta storie in ogni borgo dell’entroterra così come in Riviera. È una terra schietta, verace e autentica. D’altra parte un genio come Federico Fellini non ha fatto altro che osservare e raccontare la sua terra, ricca di contraddizioni ma anche di profonda umanità, sincerità e, non ultima, allegria.

È qui, nella Valle del Savio, a Mercato Saraceno, che alberga un luogo ricco di quella umanità e sincerità che è la firma della Romagna più vera.

La porta d’ingresso al ristorante pare un tunnel spazio-temporale che vi trasporta in un luogo sospeso nel tempo e nello spazio, un luogo dell’anima. Troverete i vecchi del paese seduti a un tavolo che, sorseggiando il loro Sangiovese, litigano per un punto a scopa di troppo. E poi il tavolo imperiale, quello della famiglia dei proprietari, che è sempre apparecchiato per ospiti più o meno parenti. E poi c’è lui, il cuoco, soprannominato Paz (diminutivo di pazzo), che vi accoglierà con tutta la sua verve e la sua sincera profondità, sciorinandovi quale prelibatezza gli ha offerto il mercato oggi.

Eh, sì, perché qui a fare allegria, appunto, non è solo il racconto e l’atmosfera, ma anche tanta profonda e sincera qualità. Nelle preparazioni schiette e nel valore intrinseco degli ingredienti. Qui i funghi porcini li troverete solo in stagione, qui le uova, per quella monumentale zuppa inglese che pare che ci siano avventori che vengono da tutta Italia solo per provarla, sono fresche di giornata. Le tagliatelle, splendide, i ravioli di erbe amare sono frutto della raccolta spontanea dei pensionati della zona. Il castrato è prodotto e allevato a pochi metri di distanza dal ristorante.

Tutti, qui, è vero, autentico e incredibilmente buono! Non mancate dunque di fare un salto a Mercato Saraceno, non ve ne pentirete.

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La cucina di casa 2.0

Immaginiamo un’accogliente e confortevole cucina casalinga; ingredienti tradizionali, magari desueti ai giorni nostri, proiettati nel futuro con accostamenti particolari e contaminazioni dal mondo. Siamo da Marzapane.

Il ristorante “ha attraversato Villa Borghese”, spostandosi all’estremo opposto, direttamente alle porte di Piazza del Popolo. Al vecchio chef (eufemistico vista la giovane età!) Francesco Capuzzo Dolcetta si è aggiunto Guglielmo Chiarapini. Il risultato è un ristorante dove trovare rifugio dalla frenesia urbana, in un ambiente curato nel dettaglio, ma semplice e rilassante.

Il bancone sociale, con la formula chef table e molte proposte fuori dalla carta, consente di sperimentare l’estro della cucina, in un contesto all’insegna del reciproco coinvolgimento. La sala al primo piano offre, invece, una maggiore intimità e tranquillità. Le varie proposte di degustazione e le diverse opzioni disponibili durante la settimana lo rendono perfetto, sia per una piacevole pausa pranzo che per una più prolungata distrazione culinaria.

Grande cucina con qualche dettaglio da rivedere in sala

La focaccina ripiena di patate e kefir e la mammella di mucca rappresentano pienamente la filosofia del ristorante. L’aspetto tradizionale della prima, cotta al forno e rifinita alla brace, nasconde il sapore deciso, ma perfettamente dosato, del kefir che ci spinge a est. Il tradizionale ingrediente alpino della seconda è, invece, aggiornato da una cottura alla francese nel burro e dalla deliziosa riduzione di panna acida, perfetta per rinfrescare il palato. Una simile freschezza sarebbe stata apprezzabile anche con i capellini al grasso di rognone dove la liquirizia aiuta ma la persistenza lipidica al termine del piatto resta comunque importante. La parte del leone è però affidata alla braciola di maiale, leggermente tenace al taglio, ma foriera di una vera e propria esplosione di sapori, grazie alla salsa di accompagnamento impreziosita dall’intenso umami dei funghi shiitake e dalla freschezza del cavolo viola.

Ma il bancone riserva ben altre sorprese

Ma la vera esperienza e il valore di Marzapane lo si può vivere sedendosi al bancone situato al pianoterra e, qui, osservare come dalle loro mani gli ingredienti vengono jazzisticamente forgiati, in senso letterale, attraverso il fuoco vivo di una griglia appositamente ideata da un artigiano siciliano, vero e proprio plus del nuovo Marzapane.

Affumicature, cotture, rifiniture, fermentazioni, preparazioni estemporanee anche grazie a questo nuovo strumento sono la marcia in più del nuovo corso del locale che nel menù degustazione del bancone ne offre l’anima più espressiva perché più istintiva, quasi cruda, per un’esaltazione della materia prima, in particolar modo del quinto quarto, procurata da maestri come Varvara o Pulicaro, che ne rappresentano garanzia di assoluta qualità.

Le salse e intingoli prodotte di volta in volta per ogni singola preparazione nappano golosamente piatti come le deliziose animelle di vitello di “cainiana” memoria o l’aceto aromatizzato al pino di montagna che conferisce nuances esclusive a un gran carciofo alla brace. Più in generale ogni preparazione è caratterizzata dalle esaltazioni quasi primordiali dei substrati su cui i due chef lavorano. Le foto con dida dal chapati in poi, raccontano della straordinaria esperienza qui vissuta e raccontata dal nostro Claudio Persichella.

La carta dei vini è adeguata al format, con una certa convergenza verso la Sicilia, senza però offuscare le presenze d’Oltralpe nonché alcune interessanti proposte biologiche.

Impeccabile il servizio che ci ha fatto sentire i veri re della casa, nonostante non avessimo trovato la fève nella nostra gallette des rois.

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