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Waraku

Occhio alla sostanza

Dimentichiamoci degli eccessi e delle luci scintillanti di Shibuya, l’eleganza e la ricercatezza dei moderni ristoranti di sushi. Da Waraku, a Roma, con il suo locale semplice, a tratti spoglio, siamo in una vera e autentica trattoria giapponese. La sostanza è la vera regina del locale; è il cibo a portarci in Oriente, più che i pur presenti rimandi alla cultura del Sol Levante. Questo bistrò ha l’intento di avvicinare il cliente ai vari mondi della cucina giapponese che, troppo spesso, sono completamente dimenticati alle nostre longitudini a favore del sempre più celebrato sushi che, però, rappresenta solo una piccola parte del patrimonio culinario nipponico, per giunta ascrivibile solo alle occasioni particolari. La cucina quotidiana, familiare, di casa, è altra cosa e qui riusciamo ad averne un chiaro esempio.

Oltre al ramen c’è di più

Il ramen rappresenta sicuramente l’architrave della proposta: tradizionale o vegetariano, viene declinato in moltissime sfumature, passando dal piccante all’agro fino alla dolcezza del cocco. La versione con la zuppa di miso ci ha conquistato; leggermente meno salata della classica zuppa di soia, risulta molto equilibrata e delicata, consentendo di apprezzare al massimo l’apporto dei singoli condimenti, garantendo la sensazione di una zuppa diversa ad ogni assaggio. Molto apprezzata la possibilità di richiedere il “Kaedama”, la ricarica di un’intera porzione di spaghetto alla zuppa.

Da atteso protagonista, il ramen lascia il palcoscenico a quelli che, paradossalmente, sono presentati come accompagnamenti. I famosi gyoza risultano impeccabili nella tradizionale farcia e nell’ottima chiusura a mano, perdendo però di personalità nel condimento, risultando troppo appiattiti sugli stessi gusti. Il contrario accade per il meno celebre buta kimchi, fettine di maiale marinate nella soia con verza coreana, che sorprende per il gusto che strizza l’occhio all’umami.

E sul gusto si concentrano tutti gli sforzi della cucina, trascurando, forse anche troppo, il lato estetico dei piatti; anche la sala e la mise en place (praticamente assente) non si sottraggono a questo giudizio. Pur comprendendo che, per chi aspira ad essere una trattoria familiare, la presentazione del piatto non rappresenti un aspetto centrale, una maggiore cura consentirebbe di valorizzare la qualità della preparazione, permettendo di mangiare con gli occhi, oltre che con le bacchette.

Non esiste una vera carta dei vini strutturata, mentre dello spazio è riservato ad alcune birre giapponesi e ad una selezione di tè, da gustare durante il pasto o come digestivo. Anche la selezione di dessert è piuttosto limitata, con molte influenze italiane; tengono alta la bandiera nipponica i simpatici mochi.

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Più che un “Via Vai”, la dimora inamovibile della tradizione

Stefano Fagioli è stato per molti anni il volto gastronomico di Alice Tv. Ma Stefano Fagioli è prima di tutto oste e cuoco della Trattoria Via Vai, una istituzione ormai trentennale per i dintorni di Crema. Qui, infatti, la tradizione sempre attualizzata e ammodernata si sposa con un locale dagli arredi eleganti seppur semplici, supportato da una cantina che, per tipologia profondità e millesimi, ha poco da invidiare ad altre, ben più conosciute e blasonate.

In cucina Via Vai è il regno incontrastato della tradizione, dicevamo, dove poter gustare un ottimo antipasto di Terrina d’anatra affumicata, buon salame locale e una giardiniera fatta in casa corretta e ben bilanciata. Poi il tripudio dei primi: vi consigliamo vivamente di non perdere i Tortelli cremaschi, piatto che trae origine addirittura dalla dominazione della Serenissima Repubblica di Venezia. Un mix di impasto dolce-salato in cui spiccano gli amaretti, il mostaccino, l’uva sultanina, il Grana Padano e tanti altri piccoli tocchi segreti, diversi da famiglia a famiglia, che rendono questa preparazione il perfetto incontro tra umami, dolce e sapido. Un tripudio che continua con lo splendido Cosciotto d’anatra al ristretto all’arancia e approda infine a un agnello davvero intrigante. Come non terminare, poi, magari per finire una delle bellissime bottiglie attinte dalla cantina, con una selezione di formaggi non estesa ma davvero molto piacevole?

Una gita fuori porta, nella stagione più calda, vi regalerà panorami di campagna agresti e un sorriso pieno per aver degustato una ottima cucina tradizionale con ritmi lenti, accuditi e coccolati in una ambiente davvero gradevole.

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La leggiadria del quinto quarto

Angelo Koyfalas, bergamasco di origine greche, ha girato varie cucine in Europa, per quattro anni in Svezia, è tornato a casa e ha aperto, in una via del centro di Bergamo bassa, la Trattoria Brosetti: una trattoria “contemporanea”, arredi minimalisti, ambiente un po’ freddo, materie prime rigorosamente orobiche, trattate con una bella mano, una scelta interessante di vini biodinamici, prezzi contenuti.

Carne, pesce di lago ma anche proposte vegetali in una carta, non particolarmente estesa, che prevede però spesso dei fuori carta, molto sfiziosi. Se da una parte ci si può orientare su piatti più classici, come le pappardelle all’uovo con ragù di pecora gigante bergamasca e il polletto alla brace, in molti piatti c’è un uso di elementi fermentati, siano salse al miso e garum, che vivacizzano le varie cotture alla brace. I fuori carta della serata prevedevano cervella e animella, ma possono capitare anche zampe, così come creste di gallo, nel nostro caso in menù, servite alla brace su un risotto con pepe di Timut.

C’è una attenzione particolare al quinto quarto che viene trattato con rispetto e delicatezza, con leggiadria. Ecco, forse, ci si potrebbe aspettare un po’ più di incisività in alcuni piatti: il risotto, l’animella alla brace con spinaci, topinambur e “soia” di caffè, la cervella con brodo di carne e miso di caldarroste, tendono invece leggermente ad una deriva dolce. Non è ovviamente il caso della lingua, a cubotti, con una nduja che parte aggressiva ma, in chiusura, scalda piacevolmente il palato. Abbiamo decisamente apprezzato il salmerino alpino, crudo, con barbabietola, melograno, capperi di aglio orsino, una ottima partenza, fresca e leggermente acida. Interessanti le parti vegetali, sia come portata principale, con il sedano rapa, salsa tartara e conserva di funghi, sia nell’ibisco e radicchio con un eccellente fondo di trota, che accompagnano una trota, leggermente scarica di sale.

Nota di merito per il pane, prodotto in casa con lievito madre, una passione per lo Chef che, originariamente, voleva aprire proprio una panetteria. Una esperienza nel complesso sicuramente piacevole che incuriosisce e invoglia a tornare per scoprire le novità sia in carta che fuori.

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Un’istituzione nel panorama delle trattorie storiche fiorentine

Sessantanove. Tanti sono gli anni di attività della Trattoria Mario, a un passo da piazza San Lorenzo e dal Mercato Centrale. Il locale, una vera e propria istituzione a Firenze, già esercizio storico fiorentino, è infatti aperto dal 1953, prima come fiaschetteria e, poi, dal 1957, come trattoria vera e propria. Merito di tanta longevità va al proprietario, il verace Romeo Colzi, coadiuvato dalla presenza silenziosa ma indispensabile della moglie Amalia. A loro, si uniscono il fratello e il figlio di Romeo: Fabio in cassa e Francesco in sala. Un’impresa familiare che si propone di far sentire, come tale, ovvero in famiglia, il commensale.

E ciò accade non tanto, però, avvolgendo l’ospite in un’atmosfera accondiscendente, magari dai tratti formali e poco spontanei, quanto, piuttosto, attraverso un’immediatezza di gusti e una chiarezza d’intenti che spesso si ritrovano stando seduti alla tavola domenicale. Perché appena ci si siede al tavolo, ci si immerge in un ambiente pulsante, tattile, a volte ridondante, nel quale già la mise en place chiarisce senza possibilità di fraintendimento che la “fiorentina” non viene servita ben cotta e che, soprattutto, non sono accettate eccessive “stuccherie” (ovvero orpelli, per dirla in modo elegante). Può sembrare una formula scostante ma, accettate le premesse, ripetiamo: assolutamente chiare e scevre da retro-pensieri. Qui ci si diverte parecchio e, non di meno, si gusta un menù di classica e tradizionale memoria, preparato con attenzione alla soddisfazione più immediata e pantagruelica, a volte anche troppo.

Cornice mutevole e solo tre costanti: ragù, ribollita e fiorentina

La proposta non è fissa: si cambia di settimana in settimana, in base a ciò che offe il mercato. A non mancare mai sono il ragù della signora Amalia, la ribollita e la fiorentina. La bistecca è servita in tre versioni: in costata, in filetto o in monoporzione, se la si vuole assaggiare da soli. Il dettaglio non è banale, poiché indica una volontà di accontentare il palato del cliente anche in soluzioni non scontate per il panorama culinario fiorentino.

L’“antipasto toscano” è stato una piacevole sorpresa: a base di salame fiorentino (col grasso macinato a maglie grosse), finocchiona, prosciutto crudo, pecorino e crostini di fegatini, ha trovato in quest’ultimi i suoi punti di forza grazie alla cottura lenta che ha conferito alle interiora un gusto dalle sfumature dolci, a smorzare l’intensità ematica che questo taglio spesso riserva. Meno riuscita la pasta al pomodoro, la quale ha presentato uno squilibrio di sapidità nel condimento che ne ha condizionato la resa finale, rendendola, purtroppo, troppo intensa.

Ma l’inciampo è stato presto risolto col pezzo forte del pranzo: il “Tocco di costata”, da 600 grammi. La carne, cotta rigorosamente al sangue, proveniva da razza Limousine allevata in Veneto. La cottura è stata effettuata su piastra, non griglia. La scelta può sembrare straniante ma ha permesso alla superficie esterna della portata di andare incontro a una reazione di Maillard di rara precisione, capace di conservare gli umori in maniera quanto più efficace, e conferire a ogni boccone morbidezza di consistenza e intensità di gusto, soprattutto nelle note ematiche. La qualità della carne di partenza, di circa due anni di età, ottimamente marezzata, ha fatto il resto; talmente ineccepibile nell’equilibrio tra sapidità e lunghezza dei succhi, da rendere superflua la salatura finale. In chiusura, gli immancabili Cantucci e Vin Santo, preparati da pasticcere di fiducia, in cui ha spiccato il vino, lunghissimo nelle note di frutta secca, soprattutto dattero e fico.

Un pranzo diretto, familiare, senza le famose “stuccherie”, come direbbe Romeo, ma che regala all’avventore occasionale la possibilità di scoprire la cucina fiorentina più verace e, al cliente abituale, il piacere di un pasto rassicurante. Come l’ambiente che accoglie chi varca la soglia del locale e ha il piacere di conoscere la famiglia Colzi.

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Unica e inimitabile

Se chiedete a Diego Rossi come è nata Trippa, lui, con quel pizzico di saccenza che può permettersi solo il fuoriclasse, vi dirà che l’ha creata perché non c’era nulla che a lui piaceva in giro. Infatti, fin dai primi mesi dopo l’apertura di questo locale, sono stati in molti a voler replicare la creatura di Diego Rossi e Pietro Caroli, tutti tentativi poco riusciti perché Trippa non è una trattoria e neppure un ristorante, è un vero e proprio microcosmo. Ne fanno parte i fornitori, la brigata di sala e cucina, i clienti (più o meno affezionati), le modalità di prenotazione e quella voglia di rompere e sovvertire le regole che sono l’essenza intrinseca di ogni avanguardia. Volendo paragonare Diego Rossi a un artista, la migliore similitudine è quella con Michelangelo Merisi, perché questo cuoco, come Caravaggio, padroneggia la tecnica ma eleva a protagonisti i vegetali più bistrattati così come i pesci e le carni dimenticate. Il tutto innovandosi sempre mediante la leva di quanto stagioni e mercato offrono ogni giorno.

La nobiltà delle materie “povere”

Tra i piatti più riusciti ci sono sicuramente la zucca arrosto con la bagnacauda oppure il cavolfiore, dal sapore schietto, con fonduta e tartufo nero. Croccanti e delicati invece i carciofi, proposti in insalata con sarde di lago e pompia, un agrume, quest’ultimo, quasi sconosciuto ma di estrema bontà.

Tra i primi sono imperdibili le paste fresche col ragù del giorno, nel nostro caso un sugo di daino dal gusto ricco ma non invadente. Eccellenti anche i secondi, dove meritano di essere citate le cotture alla brace eseguite sempre a puntino. Lo chef è bravissimo anche a nobilitare il quinto quarto in tutte le sue forme, non solo la classica trippa, quasi sempre in carta e proposta in vari modi, ma anche qualcosa di meno usuale come il fegato di coniglio alla veneziana oppure il lampredotto all’amatriciana.

Se si è fortunati tra i fuori carta si possono trovare le parti meno nobili del pescato, dalla buzzonaglia di tonno ai sottogola alle teste del pesce arrostite, da mangiare rigorosamente con le mani.

Ma quando si parla di Trippa non si può dimenticare Pietro Caroli, l’alter ego di Diego, tra i tavoli, e tutto il personale di sala, per metà rimasto immutato dall’apertura e capace di instaurare un rapporto diretto con gli avventori, pur restando molto professionale. La carta dei vini è cresciuta col tempo, purtroppo anche nei prezzi, conservando la sua originalità e offrendo un’abbondante scelta, comunque per tutte le tasche.

Dopo varie visite, pensiamo sia arrivato il momento di valutare Trippa alla stregua di un ristorante, perché si può fare avanguardia e ricerca anche riscoprendo le tecniche di cottura classica come avviene tra questi tavoli, oppure proponendo dei prodotti vegetali alla stessa stregua di ingredienti più nobili e costosi. E poi ci sono piatti iconici come il vitello tonnato o la trippa fritta, ormai “classici” della cucina italiana d’autore.

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