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L’Osteria Colombina

I viaggi golosi assieme al Marco Polo del terzo millennio, Giannantonio Candiani

Ci sono storie che si possono concentrare su di un piatto e aprono poi finestre verso mondi che mai prima avresti immaginato. Canal è un piccolo borgo, due tornanti più in là di Feltre, un tempo storico avamposto tra i confini della veneziana Repubblica Serenissima e le terre di Cecco Beppe. Merci e uomini comunicavano lungo quella che era poco più di una mulattiera, magistralmente descritta da Matteo Melchiorre ne “La via dello Schener”. L’Osteria Colombina era uno dei riferimenti storici delle quattro case del borgo. Un tempo casoin, ossia negozio di alimentari, poi enoteca e, da poco più di un anno, il piccolo regno di Giannantonio Candiani. E qui si apre un altro capitolo.

Trevigiano genere natu sentiva la vocazione di scoprire il mondo, storie di uomini e tradizioni diverse. Entra a lettere in quel di Padova, ma dopo poco si trasferisce a Londra, dove si iscrive ad antropologia culturale, mantenendosi agli studi servendo al banco e tra i tavoli nei pub sulle rive del Tamigi. Si laurea praticamente in contemporanea in entrambe le discipline e, non contento di questa performance, entra nel prestigioso team della Dante Alighieri, l’ambasciata della cultura italiana nel mondo. Viene spedito a Kathmandu, la capitale del Nepal, due milioni di abitanti con vista Himalaya. Un melting pot di civiltà e culture diverse che è la linfa vitale delle sue curiosità. Anche qua viaggia a paso doble. Fuori dall’istituto confeziona ravioli e lasagne che poi va a vendere nei mercatini locali. Il made in Italy funziona e apre Piano B, nomen omen, perché non si sa mai cosa ti possa capitare il giorno dopo: una trattoria tricolore che diventa il riferimento affidabile per chi voglia bearsi di polenta e sopressa come di prosciutto e un calice di prosecco. I tempi cambiano. È tempo di tornare a casa. La famiglia aveva un vecchio rustico in quel di Canal, e lui coglie la palla al balzo. Lo inaugura il 15 febbraio, quasi a dare un seguito ai sogni di San Valentino. Una scommessa ben riuscita. Come era stato ambasciatore del Made in Veneto all’ombra del K2, ora lo diventa di quelle terre lontane in terra dolomitica. Una sorta di Marco Polo del terzo millennio.

Il Dalai Lamon

L’esordio è con quella che diventerà la madeleine del buon ritorno. Le alici a Kathmandu. Classiche alici in saor, ma diversamente speziate con pepe rosa, zenzero e mango, una macinata di pinoli e frutta secca. Non c’è storia. Fareste il bis automatico se non fosse che merita il test di papilla pure il Baccalà alla nepalina. Un classico mantecato speziato con coriandolo, zenzero e cipolla. È tempo di Momo non momo. Una radicata tradizione nepalina, in uso nelle famiglie come nei locali di lusso. Ravioli che gli autoctoni farciscono di agnello o yak (il bovino locale), il nostro Gian con più autoctone ricotta, gorgonzola e mandorle. Il tutto messo a pucciare in una salsa a base di peperoncino. Libidine pura. Vi sentite uno sherpa di arrampicata golosa. Divertente il Coniglio con le mele. Le scambiate per patate al forno, ma è solo un effetto ottico, il gusto ben temperato così come la Scottona al curry e patate, stavolta reali. Un tocco di edibile design montanaro il Mirga ko polpette, che altri non è se non il cervo locale (ribattezzato alla nepalina) con salsa di avocado e wasabi. Sempre il mix di tocco esotico e locale con la panzanella di frutta e zenzero. Si conclude coerenti con una Tarte tatin con noci pesca e gelato al latte.

Se siete incuriositi a sondare meglio il vissuto di questo personaggio che è disponibile a raccontarsi con una discrezione che fa la differenza è solo valore aggiunto. Una citazione per tutte sulle spezie. “Sono molto usate, su tutte zenzero, peperoncino, il coriandolo è presente dappertutto, come il nostro prezzemolo”. Al saluto della staffa divertente la vignetta che gli ha dedicato l’amico Beppe Mora che lo definisce il Dalai Lamon, un singolare incrocio tra il signore delle montagne tibetane, il Dalai Lama, e il più ruspante fagiolo dei colli feltrini, quello di Lamon appunto, giunto da noi per un omaggio di Carlo V, Imperatore di Spagna, a Papa Clemente VII nel 1532 e portato tra la sua gente da Padre Valeriano, illustre canonico feltrino. Ma questa è tutta e ancora un’altra storia…

IL PIATTO MIGLIORE: Le alici a Kathmandu.

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Il richiamo della tradizione: una tavola classica tra i luoghi imprescindibili dello Stivale

Nel 2005 Giancarlo Tavani, Gianpietro Stancari e Mattia Serventi – tutti con importanti esperienze maturate in Italia e all’estero – hanno rilevato una storica insegna legata ad una terra profondamente intrisa di tradizione gastronomica, “sentendo la responsabilità derivante dalla lunga storia e dal nome del locale”, con l’intento di tutelare ciò che a Parma è da sempre considerato, appunto, un luogo di culto in cui sono ben custodite le tradizioni gastronomiche.

Il risultato, allo stato attuale e lo abbiamo già detto in passato, si traduce in un caposaldo della cucina classica italiana. Nel solco dei fasti del passato, Ai Due Platani continua a raccogliere consensi non soltanto dalla numerosa clientela locale. Insieme a poche altre tavole di tradizioni regionali è, difatti, meta di pellegrinaggio da distanza siderale rispetto alla anonima campagna parmense in cui è ubicato

Una esemplare trasposizione del territorio nel piatto

Armatevi di pazienza, quindi, perché per prenotare bisogna muoversi con qualche settimana di anticipo esclusivamente telefonando in orari prestabiliti, lontani dal servizio del pranzo e della cena. Un’esemplare trasposizione del territorio nel piatto sono i Tortelli ripieni (che siano alle erbette o alla zucca), ormai leggenda, con il loro ripieno suadente e la sfoglia sottile ed elastica; per i salumi c’è l’imbarazzo della scelta, il gelato alla crema con vaniglia è, infine, un’istantanea del passato che rivive oggigiorno al termine di ogni servizio. La sicurezza con la quale viene eseguito l’intero comparto classico delle vivande proposte consente alla cucina di divertirsi con qualche divagazione interpretativa più moderna anche se non proprio con i medesimi risultati: l’Anguilla di Comacchio fritta con maionese all’acetosella e pomodoro affumicato, che denota comunque un prodotto del territorio di primaria qualità, satura il palato con maggiore velocità rispetto a preparazioni anche più opulente che però sono graziate da un’irresistibile aurea evocativa golosa. Parliamo in particolare del vorace assaggio in cui ci si imbatte degustando la Tagliatella verde ripiena di pecorino, ragout di anatra germana, cipolla rossa e rosmarino in cui gli ingredienti sono dosati con maestria in termini di proporzioni, contrasti e consistenze.

In chiusura, come già detto, sarebbe un peccato perdersi il Gelato alla crema con vaniglia del Madagascar mantecato al momento con un “Carpigiani” del 1964, servito al tavolo, a piacimento del commensale, con nocciole piemontesi caramellate, praline croccanti al cioccolato, Grand Marnier, cioccolato fuso e altri dolci ammennicoli.

Fornitissima cantina con tante sfumature internazionali, bollicine italiane e francesi e bianchi di Borgogna. Qualche vino alla mescita selezionato giornalmente. I prezzi, tuttavia, non li abbiamo trovati indicati nella lista digitale alla quale si ha accesso con il QR code.

Il servizio di sala è puntuale e affidabile, oltre a mostrarsi caloroso e sincero come il cibo che arriva in tavola. La cucina italiana non può prescindere da queste tipologie di locali, finalmente, autentiche trattorie. 

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Una cucina sincera nel cuore delle Langhe

Nel cuore delle Langhe, nel comune di Serravalle, i fratelli Dellaferrera sono gli artefici di questo avamposto gastronomico in cui è sempre un piacere fermarsi. Parliamo di La Coccinella, una trattoria moderna con una proposta di cucina tradizionale ma al tempo stesso ricercata.

Di fianco, infatti, a una classica proposta legata al territorio c’è un’insolita proposta ittica a base di pescato del Mediterraneo, e, durante il periodo autunnale, alcuni piatti a base di tartufo bianco. Il locale ha due salette, riscaldate da un fascinoso camino, a cui si accede dopo aver superato un bancone bar all’ingresso. Si viene accolti da un servizio puntuale ma al tempo stesso non invadente, che mira a comprendere i desideri degli avventori e metterli a proprio agio.

Il tempo vola in fretta alla tavola di questa trattoria assaggiando delle delicate Acciughe marinate oppure una sostanziosa ma elegante Cipolla al sale ripiena con un fondente capocollo di maiale. Meritano il bis di diritto i “Macaron del fret”, ovvero una sorta di fusilli lunghi fatti a mano conditi con un saporitissimo ragù bianco di coniglio. Si potrebbe recriminare una certa fissità al menù, che difatti non varia mai molto, ma il Fritto di scamone, zucca e porcini, per morbidezza e bontà, sarebbe difficile da sostituire.

Bella e intelligente la carta dei vini, con ricarichi corretti e alcune belle opportunità per gli avventori più attenti e curiosi.

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Quintessenza di sicilianità in un dammuso di Noto

Non siamo a Pantelleria. Ma a Noto. E allora vi chiederete il perché, un’osteria incastonata in un vicolo del centro storico di una delle perle del Barocco della Sicilia sud orientale abbia preso in prestito il nome della arabeggiante struttura architettonica in pietra, caratteristica tipica dell’isola pantesca. Ebbene, la risposta la ritroverete una volta varcata la soglia di questa gettonatissima insegna, caratterizzata da un soffitto con volte in pietra che evoca, appunto, un Dammuso.  

Piccola divagazione a parte, la famiglia Baglieri, che in città sa il fatto suo quando si parla di ristorazione, è custode di una cultura gastronomica antica, quella familiare, tramandata nel tempo, capace di far riaffiorare ricordi ma anche di far scoprire il gusto nuovo della tradizione. 

Al Dammuso bastano soltanto pochi minuti per capire che si è seduti ad una tavola rassicurante, dove la schietta cucina della tradizione viene attualizzata quel tanto che basta da renderla gradevole per ogni avventore, senza rinunciare ai connotati golosi delle ricette dimenticate e qui recuperate con grandi consensi della clientela. È il caso della Ricotta fritta o delle Polpette di patate. Ma in carta, oltre ai “superclassici” come la Parmigiana di melanzane, le Sarde a beccafico, il Macco di fave o la Pasta alla norma non mancano proposte ittiche che trovano la massima espressione nella lavorazione del Tonno, presente in diverse preparazioni tra antipasti, primi e secondi piatti. Eccellente, in tal senso, si è rivelata la cottura del pesce sia servito a tagliata sia nella versione – un classico della casa – in Crosta di pistacchi e caponata. Meno entusiasmanti i primi piatti, serviti a una temperatura che, a nostro avviso, risultava eccessivamente elevata e in un formato di pasta (fatta in casa), a metà strada tra una mezza pappardella spessa e un pacchero liscio, aperto, che abbiamo trovato difficile da maneggiare. Dolci semplici, fatti rigorosamente in casa.

Le ragazze e i ragazzi di sala si muovono con garbo e disinvoltura e il servizio scorre rapido anche durante le serata sovraffollate (quelle estive) dove viene imposto di rispettare un doppio turno che, però, si rivelerà intelligente e determinante per la piacevolezza complessiva della cena. La cantina è ben fornita, soprattutto in termini di etichette siciliane.

Complessivamente possiamo affermare che quella del Dammuso è una cucina solida, in crescita rispetto al passato, anche in termini organizzativi: una insegna che merita sicuramente una visita se siete a Noto in quanto, elemento non scontato da queste parti, vi riserva una tavola di ottima qualità.

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Il paese, la piazza, la trattoria

Chi è padano di nascita sa bene che, nelle piazze dei tanti paesi, paesini e paeselli (buon esempio dello Strapaese di Mino Maccari e Leo Longanesi) della Pianura, è facile – anzi, è difficile assai il contrario – che si incontri un locale che funge da osteria e trattoria. Insegne ‘storiche’, che quasi sempre risalgono a prima della guerra, e spesso addirittura all’Ottocento, quando ancora l’industrializzazione non aveva sfregiato le terre del Po.

Ebbene, e gli esempi potrebbero essere innumerevoli, in quelle osterie, su quei banconi e a quei tavolini che affacciano sullo slargo cittadino, si sono succedute generazioni e discussioni: la politica e lo sport, l’amore e l’amicizia; la religione e il lavoro. E si sono succeduti pure, di padre in figlio, di madre in figlia, pranzi familiari, feste di ricorrenze comandate, banchetti d’anniversario. Luoghi quindi che, nei propri muri e nei propri storici arredi, custodiscono il vissuto storico e sociale di una terra e dei suoi abitanti, con le loro idee e i loro slanci. E che nelle loro cucine, con altrettanta cura, serbano il ricordo di piatti antichi e di ricette di famiglia.

Non ci si può non emozionare – quindi – quando si varcano le soglie di questi luoghi. Quando si vede che le giovani leve, secondo capacità, indole e inclinazione, raccolgono il testimone di genitori e nonni. Come non ci si può non dolere quando, per i casi della vita, uno di questi baluardi di storia ‘cambia pelle’, o chiude i battenti.

Caffè La Crepa: il passato vivo e presente

Per fortuna, e lungimiranza, più che viva è una di queste insegne: il Caffè La Crepa di Isola Dovarese (CR), della famiglia Malinverno. Adagiato su una magnifica piazza d’impianto gonzaghesco, in quello che secoli fa era il Palazzo della Guardia, questo locale (la cui fondazione risale al 1832) è uno degli esempi più fulgidi di quel ‘vissuto collettivo’ di cui si scriveva sopra. Ma è anche un vivo modello di un modo di intendere la cucina come patrimonio culturale, inscindibile dalla terra circostante e da coloro che l’hanno abitata. In un simile contesto sarebbe riduttivo – quindi – usare il termine di «cucina di tradizione», perché alla Crepa non si propone una banale ‘cucina di tramandamento’, di mera riproposizione. Ma una cucina che, continuamente, attualizza il passato, rendendolo vivo e presente.

Ovvio è che la strada imboccata dai Malinverno non è delle più agevoli. Si deve essere all’erta: il rischio di scivolare verso la banalizzazione e la semplificazione di ‘ciò che è stato’ è sempre in agguato. Come anche si deve evitare quel senso di routine che può portare a disattenzioni e sviste le quali, seppur minime, ‘sfregiano’ piatti che, per poter venire realmente apprezzati nella loro ‘essenza’, non devono essere meno che perfetti.

Del pesce di lago e di altre delizie

Ecco allora che, senza tema di smentita, perfetto si riconferma il “Savaren” (scritto proprio così) di riso con ragù classico e lingua salmistrata, che tanto ricorda un altro savarin, ormai mitico, sino a quattro decenni fa cucinato in un’altra osteria di paese, poco lontano, appena oltre il Po, a Samboseto… Alla Crepa la superficie del chicco è liscia, la cottura da manuale (né troppo, né troppo poco), la mantecatura comme il faut: per un insieme godurioso e profumato che merita l’applauso.

Più di maniera appaiono invece altre proposte, sì centrate in gusti e aromi ma meno memorabili. La Faraona «alla creta» (si legga, a proposito di questo piatto, il passo a lui dedicato nel lunghissimo articolo-intervista a Mirella e Peppino Cantarelli, firmato da Marco Guarnaschelli Gotti, su un fascicolo di «Panorama» del marzo 1983) – per esempio – sconta un eccesso di untuosità. Mentre il trancio di storione – pesce che sino agli anni Cinquanta abitava le acque del Grande fiume, fino a che l’inquinamento, gli sbarramenti e la pesca indiscriminata non lo hanno cancellato dal bacino idrografico padano – appare un po’ troppo impersonale, ‘diviso’ com’è fra il trito di spezie ed erbe aromatiche che lo avvolge e le verdure che lo accompagnano.

Qualche dubbio solleva l’antipasto, il Piatto di pesce all’isolana, non perfetto come meriterebbe di essere. Costruito come una tavolozza sulla quale sono ‘dispiegati’ i pesci delle acque che circondano Isola Dovarese, ognuno in una sua specifica preparazione, propone: luccio in salsa, anguilla marinata, tartare di salmerino, tinca e alborelle in carpione. Sorvolando sul fatto che il salmerino non è pesce di pianura ma esclusivamente di alta quota, lascia perplessi la presentazione. Posti tutti sulla medesima stoviglia, i liquidi dei cinque assaggi fanno presto a mischiarsi fra loro, con il risultato che tutto sa un po’ di marinata e di aceto. Un peccato.

Un’ultima nota la merita la carta dei vini: vasta, spostata decisamente sulla filosofia del naturale e del biodinamico, e assai di ricerca. Una carta così tanto personale che, chi vuol bere ‘convenzionale’ (anche ad alti livelli), fatica a trovare un ventaglio di alternative sufficientemente ampio.

Una riflessione…

Su cos’è – o cosa dovrebbe essere – la trattoria c’è una certa confusione. E spesso l’uso improprio, o quantomeno impreciso, delle parole non fa altro che aumentarla. La trattoria non è un ristorante. E nasce assai prima di quest’ultimo (per motivi storici e sociali ai quali ora non accenniamo), con il preciso compito di essere luogo di ritrovo con cucina (tant’è che i termini osteria e trattoria, fino a non molti decenni fa, potevano essere usati tranquillamente come sinonimi). Alla stufa regnava la donna di casa che proponeva agli avventori pochi piatti di tradizione, preparati secondo le ricette imparate da madri e nonne, codificate nella pratica da una sorta di ‘palato assoluto’ affinato di generazione in generazione. Gli ingredienti erano quelli di stagione e del circondario, e le pietanze erano di sostanza, curate ma senza fronzoli, in porzioni abbondanti e a prezzi modici.

Cosa è rimasto di questo ‘piccolo mondo antico’? E cosa è, ora, invece, la ‘trattoria contemporanea’?

Il crinale da percorrere, per chi vuol essere vero oste e trattore, non è dei più agevoli, tant’è che per gli avventori è più facile individuare una insegna autenticamente gourmet che una insegna autenticamente ‘trattorista’. Perché, per la stragrande maggioranza dei pubblici esercizi che si autoqualificano ‘trattoria’, la semplicità è in realtà sciatteria. Il ‘tradizionalismo’ è folklore. I prodotti sono di scarso valore. Il sapere gastronomico è assente. E il ‘palato assoluto’ è sacrificato sull’altare di porzioni sin troppo abbondanti e di prezzi preoccupantemente bassi.

All’inverso, proprio perché il sentiero è difficile, altri – molti fra coloro che vorrebbero essere ‘trattori di qualità’ – scivolano nell’inverso: nella fake-trattoria. Locali leccatissimi che parodiano una ideal-trattoria che nei fatti non è mai esistita. Qui la semplicità è di parata. Il tradizionalismo è scimmiottatura. I prodotti, seppur di valore, sono slegati dal territorio. Il debole sapere gastronomico è contaminato da accenti fusion fuor di luogo. I piatti, assai esigui in fatto di quantità, sono proposti a prezzi sproporzionalmente alti.

…e un decalogo sull’ontologia della “trattoria

E allora si ritorna alla domanda di partenza: cosa dovrebbe essere oggi una trattoria? Fornire una risposta sintetica e univoca è arduo ma ci sono – ad avviso di chi scrive – alcuni punti che non si possono eludere. Il primo è che la trattoria ha una ‘missione’: divulgare culturalmente il proprio territorio (storia e usanze), custodendone il passato e creando concrete prospettive per il futuro della tradizione. Il secondo è che la trattoria deve essere riconoscibile per identità e proposte.

Il terzo è che la trattoria deve essere vera e autentica, accogliente e conviviale, senza affettazione e forzature. Il quarto è che le ricette, seppur arrivino dal baule della memoria, non sono sacre: vanno riviste e aggiornate alla luce dell’evoluzione del gusto, dell’ispirazione del momento e delle nuove possibilità che la tecnica mette a disposizione dei cuochi. Il quinto è che le materie prime devono essere di qualità, possibilmente ricercate nel territorio, stabilendo un contatto diretto coi produttori, e non acquistate dai grandi distributori dei prodotti d’eccellenza.

Il sesto è che i piatti, nella loro realizzazione, vanno studiati e contestualizzati con estrema attenzione, alla luce di palato, luogo e stagione, sfuggendo routine e manierismi. Il settimo è che l’attenzione ai particolari deve essere massima. L’ottavo è che gli elementi che concorrono alla creazione della pietanza non vanno snaturati o banalizzati ma esaltati nella loro qualità e genuinità. Il nono è che porzioni e prezzi devono essere correlati e ‘giusti’. Il decimo (visti i tempi che corrono) è che tutto deve essere improntato a un approccio ‘etico’, consapevole e rispettoso. Se così, viva le trattorie!

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