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Il Sangiovese di Fontodi

Nel cuore della Conca d’Oro

Ha appena terminato di piovere, e un arcobaleno sovrasta le colline del Chianti: Panzano con la sua Conca d’Oro. Ed è un segno che proprio là dove Iride, la messaggera degli dei, poggia il suo ‘ratto’ e ‘multicolore’ piede, ci sia uno dei tre vigneti dai quali provengono le uve di una delle etichette più note e celebri della Toscana: Flaccianello della Pieve. Dai giardini di Fontodi si ammira lo spettacolo: la vista abbraccia tutta la Conca, e buona parte dei 220 ettari che compongono la vasta tenuta della famiglia Manetti. Sicché, facendo scorrere lo sguardo dalla base dell’arcobaleno è facile scorgere, in successione, le tre curate vigne da cui giunge la selezione dei migliori grappoli per il Flaccianello. E quindi, più in giù, i pascoli e la stalla delle Chianine, e poi gli uliveti, e di nuovo a mezzacosta gli altri filari della proprietà, sino a giungere, appena al di sotto del cancello che porta alla cantina, alla prima vigna, quella dalla quale prese vita, nel 1981, Flaccianello. Ma se si sposta poi lo sguardo a destra, ecco la romanica pieve di San Leolino. È dai filari reimpiantati nel 2004 (un cabreo della metà del XVI secolo dimostra che su questo appezzamento in antico cresceva la vite) che giunge Terrazze San Leolino, apparso per la prima volta sul mercato con l’annata 2019. E quindi, poco distante, l’altro cru di Fontodi, l’antica Vigna del Sorbo, da cui nasce l’omonima etichetta.

Una tenuta, quella di Giovanni Manetti, che è un ‘piccolo regno’: qui la sua famiglia, e quella di suo fratello Marco, vivono dal 1968. Ma la storia dei Manetti rimonta a ben prima, sino al 1780. È in quell’anno che la famiglia inizia a dedicarsi alla produzione di Cotto Imprunetino. La loro fornace (ora chiamata Manetti Gusmano & Figli) lavora argilla di galestro, e si fa presto conoscere per la sua manifattura di qualità. È il papà di Giovanni e Marco – Dino – ad acquistare il nucleo iniziale di Fontodi, e a produrre i primi vini, già con visione pionieristica («mio papà – ricorda Giovanni – non ha mai usato diserbanti»). La generazione successiva si appassiona presto a questa nuova avventura, sposando sempre più l’idea di una agricoltura rispettosa e sostenibile. D’altronde perché rovinare con prodotti di sintesi il paesaggio della Conca d’Oro? Una terra ‘benedetta’ questa: un anfiteatro naturale di variegati terreni di volta in volta a prevalenza di galestro, di alberese, di pietraforte. Eppoi la buona altitudine, la bella insolazione, la perfetta ventilazione, l’ottima escursione termica fra il giorno e la notta. Insomma un luogo da preservare, in tutta la sua naturale complessità. Ecco quindi che Giovanni Manetti decide, all’inizio degli anni Novanta, di imboccare la strada del biologico certificato, cercando – laicamente – di creare un circolo virtuoso, «un sistema chiuso improntato all’autosussistenza», che leghi fra loro, senza forzature, la terra, gli animali, le piante, il vino, l’uomo. Sicché la prima non è trattata con la chimica, i secondi contribuiscono a mantenere la biodiversità, le terze, inerbite, sono concimate con un compost autoprodotto con gli sfalci delle potature, le vinacce e il letame delle sessantacinque Chianine che la famiglia alleva libere, il quarto viene prodotto rispettando l’integrità naturale delle uve, il quinto mette al servizio dell’intero ciclo le sue capacità (per esempio, giusto per dirne una, tutti i processi in cantina sono effettuati su livelli discendenti, in modo da operare per gravità, senza forzature).

Un esempio che è stato poi seguito anche da altri produttori di Panzano, tanto che, nel 1995, qui è nato il primo biodistretto vinicolo del Chianti Classico, e d’Italia, con lo scopo da un lato di produrre vini salubri, dall’altro di salvaguardare l’originaria armonia di questi luoghi. Un biodistretto «che ora – dice con orgoglio Manetti – raggruppa ventitré aziende, su 700 ettari». Le vigne di Fontodi, che hanno un’età media di quarant’anni, sono tutte allevate a guyot, «scelta che ci permette di controllare le gemme», e si estendono su 100 ettari. La raccolta e la selezione delle uve viene compiuta manualmente da persone che lavorano con la famiglia Manetti da tanti anni, e che conoscono le vigne alla perfezione: «E questo fa la differenza – ricorda Manetti – sia nella gestione delle piante, sia al momento della vendemmia e della vinificazione, che avvengono per partite separate. Perché, per ottenere un buon vino il territorio è più importante della cantina».

La degustazione

Ovvio che tutto questi aspetti abbiano poi trovato un evidente riscontro nella degustazione durante la quale si è potuto apprezzare da un lato la coerenza stilistica complessiva (i vini fuggono le facili rotondità, esprimendosi piuttosto nella complessità di tutte le loro componenti minerali) e, dall’altro, le differenze date dal terroir e dalla sua interpretazione. L’assaggio – centrato sulle ultime annate, da poco imbottigliate – ha preso il via con l’unico bianco secco della maison: Meriggio, Colli Toscana Centrale Igt 2022. Blend di Sauvignon (90%) e Trebbiano (10%) provenienti dal vigneto La Rota. Il vino, che fermenta e matura sui propri lieviti metà in acciaio e metà in anfora (prodotte dalla fornace di famiglia, secondo l’antichissima tecnica del lucignolo) per sei mesi, si presenta con un profilo aromatico di vibrante freschezza (le escursioni termiche fra il giorno e la notte enfatizzano l’espressività dei terpeni). Le classiche note erbacee del varietale si distendono però su una mineralità evidente e fine, quasi da Valle della Loira. Il bouquet, seppur non amplissimo, si delinea elegante fra note di fiori bianchi e gialli (la ginestra è percepibile), rimandi di erbe aromatiche (timo, ma anche ortica) e frutta (mela cotogna e agrume), sposati a una soave verticalità. In bocca a prevalere sono ancora la freschezza (che sfugge però l’acidità) e la mineralità, che trovano poi un equilibrio nelle sensazioni caloriche e pseudocaloriche che accompagnano il sorso in fine di bocca con pulizia e bella lunghezza.

Il Sangiovese secondo Fontodi

Si è poi passati alla batteria dei rossi, tutti Sangiovese in purezza. Filetta di Lamole Chianti Classico Docg 2021 arriva dai vigneti terrazzati di Lamole, con i suoi secolari muretti a secco che impediscono il dilavamento e conservano il calore diurno, mitigando l’escursione termica notturna, qui importante perché i filari si spingono anche a una altitudine di 600 metri. Il terreno è ricco di galestro e alberese, e fornisce ai vini una forte trama minerale che esalta le caratteristiche varietali del Sangiovese. Il naso rapisce per la netta viola mammola, per il frutto croccante (mora e susina rossa) e per la piacevole sensazione balsamica nella quale si possono intravedere lievi accenni di speziatura (il vino affina per diciotto mesi in legno). Il sorso è guidato con abilità dalle ‘durezze’: la vivida freschezza e la gagliarda mineralità appaiono in primo piano, senza però ineleganze o forzature. La soddisfazione della beva si esalta ulteriormente in centro di bocca quando il vino tende a ‘rilassarsi’, concedendo spazio ai polialcoli che presto disegnano una architettura di medio corpo, tanto agile e snella quanto leggiadra e ‘affusolata’. Se, in questo quadro di complessiva piacevolezza, è forse solo il tannino ad apparire ancora un po’ giovane, ciononostante non appare fuor di luogo, esaltando anzi le precipue caratteristiche di Filetta di Lamole.

Fontodi Chianti Classico 2021 Docg è l’etichetta che – con le sue oltre centocinquantamila bottiglie – copre quasi la metà della produzione di Fontodi. Nasce dall’assemblaggio delle uve di diversi vigneti e, dopo aver fermentato e macerato in acciaio, matura per almeno un anno e mezzo in legni di differente grandezza. È un vino che, benché si tenda a berlo giovane, meriterebbe di riposare in cantina per alcuni anni (anche una decina), per essere apprezzato nel pieno della sua espressività. In effetti – come anche accadrà per le tre etichette successive – deve sostare un poco nel bicchiere, prima di ‘concedersi’. La prima olfazione delinea un ventaglio ‘compresso’: sì fine, sì ampio ma ‘monodimensionale’ (si aprirà poi, ormai al termine della degustazione, con soave ricchezza). Al naso sono chiaramente percepibili la viola, la rosa e – pare – un tocco di iris. Attorno danzano gli immancabili fruttini rossi e neri, dalla bella croccantezza, qualche tocco di pepe, una leggera sfumatura di bosco e di macchia, una decisa verticalità. Ed è proprio quest’ultima a dirigere il sorso, che presto disvela una struttura ampia ed elegante, giocata fra note caloriche, pseudocaloriche e una fine acidità, con ancora un tocco di astringenza tannica. La chiusura è ampia, lunga e profonda, nonché assai pulita.

L’assaggio comparato dei due cru di Fontodi, Vigna del Sorbo Chianti Classico Gran Selezione 2020 e Terrazze San Leolino Chianti Classico Gran Selezione 2020, svela quella che è la vera anima di questa azienda. Il primo è un’etichetta nata a metà degli anni Ottanta dell’ormai secolo scorso, e proviene da un appezzamento esposto a Sud-Ovest, da viti che hanno ormai sessant’anni. Dopo aver fermentato spontaneamente e macerato in acciaio, matura in barrique e botti di rovere francesi (in parte nuove) per almeno due anni, prima di affinare ulteriormente in bottiglia. Il secondo è invece l’ultimo nato di casa Manetti. Il vino proviene dai filari reimpiantati nel 2004 appena sotto la pieve di San Leolino, e questa 2020 è la seconda annata di produzione. Le due etichette rendono bene l’idea che Giovanni Manetti ha del Chianti: «è inevitabile, nonché giusto, che si vada sempre più verso una definizione territoriale del vino: perché il territorio è più importante delle pratiche di cantina. E il vino deve tendere a rispecchiarlo fedelmente». Sicché le due vigne raccontano storie ‘diverse’, secondo però un medesimo impianto stilistico. Vigna del Sorbo, che affonda le sue radici nel galestro, appare più nerboruto: il bouquet è ampio e fine, con i fiori e la frutta in primo piano, e quindi note balsamiche e di bosco, un po’ di spezia (tabacco) e una verticalità larga e possente. Più stilizzato è invece il naso del Terrazze San Leolino, che nasce su un terreno a prevalenza alberese (arenaria e calcare). La viola sembra come rarefatta, fra richiami di rosa antica, di erbe aromatiche (il timo è ben percepibile), di pepe bianco e quasi di sasso marino. Anche il sorso si dipana secondo distinte ritmiche: cadenzato e ‘militare’, il Vigna del Sorbo mostra tutto il proprio allure nella netta definizione delle sensazioni, quasi scolpite fra una sapidità sontuosa e una morbidezza costruita con sapienza. Proprio per il suo corpo il vino merita di rimanere in bocca un poco più a lungo: solo così se ne riescono ad apprezzare l’architettura equilibrata, l’intensità dello slancio e la finezza della profondità, che chiudono la beva con estrema soddisfazione. Il Terrazze San Leolino pare invece fare il controcanto. La bocca è tesa, come allungata in una espressione minerale più magra e sfilata, ma di tempra estrema, che tiene bene il passo di un polialcolo fitto e morbido, e di un tannino setoso e levigato. Ma è in fondo di bocca, mentre si apprezzano corpo ed equilibrio, che il Terrazze San Leolino mostra la stoffa del campione. Non solo per la lunghezza infinita e la pulizia estrema, ma per l’eccellenza della qualità. Il vino torna e ritorna, come un eco che pare senza fine.

A chiudere, ecco infine il vino-vessillo di Fontodi: Flaccianello della Pieve Colli Toscana Centrale 2020 Igt. Frutto, dagli inizi degli anni Duemila, della selezione dei migliori grappoli di tre vigne ‘benedette’ della Conca d’Oro (in piccola parte vinificati in anfora), questa etichetta rappresenta la quintessenza dello stile della maison: quindi grande carattere e definita mineralità accompagnati a una sensazione di generale levigatezza. È un Sangiovese ‘sentimentale’, quello di Flaccianello: il naso riporta, oltre i classici fiori e frutti (viola, rosa scura, ribes nero, prugna, melograno…) note di spezie orientali (pepe e cardamomo) unite un sentore di erbe officinali e a una grande verticalità. In bocca è imponente, ma non pesante. Subito si avvertono le morbidezze e una complessa mineralità, seguono poi un tannino setoso, una bella sensazione calorica e una freschezza di gioventù che accompagna il sorso con eleganza, ampiezza, lunghezza e pulizia. La percezione generale è quella di un vino di corpo ma che sfugge il pericolo della concentrazione, in una agilità fine e netta che acquista spessore nelle interminabili sensazioni retronasali. Un capolavoro!

Dal “Toscana in bianco” al Chianti Colli Senesi

La Lastra, fin dalla sua nascita all’inizio degli anni ottanta, si adopera e fonda il proprio pensiero nel salvaguardare l’ambiente e, con esso, “riposizionare i veri valori legati alla vita” per “dare un futuro alla nostra Terra”. Un approccio, questo, che risulta dal rispetto e dalla passione per un territorio particolarmente vocato, come punto di partenza e arrivo di una storia fatta di persone. È con Nadia Betti e suo marito Renato Spanu, diplomati all’Istituto Agrario di San Michele all’Adige e giunti a San Gimignano per completare gli studi in enologia e viticultura, che un progetto di “vita rurale” prende forma. Dopo i dieci anni di studio e consulenza in ambito vitivinicolo nella bella provincia di Siena, Nadia e Renato, affiancati da Christian Betti, Enrico Paternoster e Valerio Zorzi, nel 1994 fondano La Lastra.

Un approccio alla viticoltura responsabile, etica e sostenibile, che dal 2000 applica i dettami dell’agricoltura biologica anche all’azienda vitivinicola e olivicola “Marciano” di proprietà e nei pressi di Siena. Una filosofia – e non una moda – volta alla produzione di grandi vini che sappiano restituire uno concreta rappresentazione del territorio da cui provengono e la sua massima espressione in termini di qualità. Due le unità produttive: 7 gli ettari nel comune di San Gimignano, dove in accordo con il disciplinare di produzione si realizza l’autoctona e dorata Vernaccia e 23 gli ettari – di cui 7 votati a ulivi e altrettanti a vigna – alle porte del centro storico di Siena che concorrono alla produzione del Chianti Colli Senesi ma anche gli IGT Toscana RossoRovaio” e “Canaiolo“.

La degustazione

Vernaccia di San Gimignano DOCG 2022

Da questo vitigno autoctono e dalla tradizione centenaria, 98% Vernaccia di San Gimignano e il restante 2% di Trebbiano Toscano e Malvasia Bianca Lunga del Chianti, si esprime in un giallo paglierino dai riflessi verdognoli al calice. La maturazione in acciaio e i due mesi in bottiglia ne esaltano i sentori di fiori bianchi, di erba officinale come la verbena, una nota agrumata e altrettanta balsamica del finocchietto. Un vino equilibrato, di carattere e distintivo nel suo sorso sapido che invoglia alla beva.

Vernaccia di San Gimignano Riserva 2020

La particolare attitudine all’invecchiamento di questo vitigno a bacca bianca si evidenzia nella Riserva, dall’affinamento in barrique nuove e di secondo passaggio e dal bel colore giallo paglierino intenso. Al naso si schiude in un bouquet che rimanda alla frutta a polpa gialla e all’ananas, addolcito da note mielate e di fiore di camomilla. La nota agrumata si fa più succosa rispetto all’espressione precedente, unita ad un sorso minerale, di volume, complesso ed elegante.

“Rovaio” Toscana IGT Rosso 2018

Dal blend di uve Sangiovese, Merlot e Cabernet Sauvignon provenienti dalla tenuta a San Gimignano, il Rovaio risplende nelle sue note rosso rubino carico al calice. Le note di mora e mirtillo si alternano a sentori erbacei di fieno tagliato e dolci di spezia. Nel sorso avvolgente e dal tannino fine, si dimostra un vino piacevole, scorrevole e di buona freschezza.

Chianti Colli Senesi DOCG 2020

Espressione del Chianti in assemblaggio di Sangiovese al 95%, Canaiolo nero al 3%, Malvasia bianca e Trebbiano al 2%, da uve provenienti dalle tenute di San Gimignano e Siena, veste di rosso rubino dai riflessi granati il calice. Tipico è il naso dalla forte componente fruttata di susina e gelsi neri, rivelando note speziate di tabacco e cacao. L’attacco alla bocca è morbido, dal tannino ben in evidenza, giovane ma ben gestito che prosegue con una bella nota sapida e buona struttura.

* I vini dell’Azienda Agricola La Lastra sono distribuiti da Partesa.

Nessuno tocchi Caino

Questo, in particolare, nascosto com’è nel cuore della miniatura di Montemerano, è forse l’unico ristorante di questo frammento di Maremma che abbia saputo tracciare una strada credibile per emancipare la cucina maremmana dall’egemonia di pappardelle e tagliate di manzo che, e l’autoctono vero questo lo sa, proprio non le appartengono. Per questo è stato anche inviso, Da Caino, presso gli altri ristoranti e ristoratori della zona. Per questo forse il nome, che detiene dal 1971 ovvero da quando Angela e Carisio Menichetti, detto Caino, appunto, aprirono una rivendita di vino dove poter spiluccare, all’occorrenza, anche salumi, formaggi e piccoli piatti freddi, ci sembra quasi una profezia auto-avverante benché oggi, e vivvaddio, legittimamente superata. 

Che poi qui si brilli di propria luce sin da quando Valeria Piccini inizia a lavorare in cucina con la signora Angela, diventata poi sua suocera, è ormai cosa nota. Del resto, è proprio alla seconda generazione, quella del figlio Maurizio, esperto sommelier che comincia con lei a calcare le scene della sala, che Valeria si lega, acquisendo pieni poteri in cucina e istituendo così un sodalizio che verrà consacrato nel 1991 con la prima Stella Michelin e nel 1999 con la seconda, splendente e fulgida ancora oggi. Oggi che, tuttavia, tutto si rinnova: a Maurizio che, per dire, ha cominciato a produrre olio extravergine d’oliva biologico e perfino il proprio vino, si sostituisce in sala il figlio, Andrea Menichetti, che ne ha raccolto l’eredità col medesimo sussiego ma con rinnovata disposizione d’animo. In cucina, invece, è sempre lei a orchestrare una brigata giovane che, sbirciandola, pare quasi tutta al femminile.

Quanto ai piatti, e benché il menù “Idee in Movimento” restituisca una foto precisa del clima, non solo atmosferico ma anche emotivo, che muove oggi “la cheffa” maremmana che parla e anzi solfeggia attorno a tutti gli ingredienti dell’orto in primavera, lumache comprese, è tuttavia quello dedicato ai “Piatti Storici” a restituire con più profondità la cifra stilistica di Valeria Piccini, da sempre incentrata sulla lunghezza del gusto e, al contempo, sulla sua delicatezza, a onta delle materie utilizzate spesso e volentieri agresti e dunque anche compiaciutamente e risolutamente rustiche. È il caso del corroborante Gelato di piselli con Parmigiano e aceto balsamico che della passeggiata  nell’orto sgranocchiando i teneri, virginali legumi è la più perfetta rappresentazione, benché sotto forma di gelato. Splendida poi la consistenza tesa e il sapore terso della pasta, consapevolmente coriacea, dei Ravioli col gustosissimo ripieno di pollo alla cacciatora, brodo e ribes, rispettivamente a dissetare e a sgrassare. Eccellente è poi anche il Piccione (che, ormai è notorio, qui è uno dei cavalli di battaglia) che le mandorle e le prugne conservate nobilitano di familiari esotismi così come la superba, elegantissima Anguilla con riduzione di cipolla e yogurt affumicato

Quanto ai punti deboli, complice la tecnica di cottura ci è sembrato troppo ridondante, sia nella forma che nella sostanza, il Carciofo dritto e fritto, mentre il Gelato al latte di pecora e timo con prugne e cioccolato, tra i dolci, ci è sembrato poco coeso: piuttosto, una giustapposizione di elementi senz’altro più che buoni ma privi di quel disegno d’insieme che distingue le grandi cucine dalle grandi cucine d’assemblaggio. Ma si tratta di piccoli appunti, soprattutto al cospetto della precisione, dell’eleganza e della leggerezza che, lo ribadiamo, caratterizzano il tratto stilistico di Valeria Piccini: un talento, il suo, che le permette di attualizzare una materia sostanzialmente umile grazie alla perizia con cui ne indaga i sapori, le temperature e soprattutto le consistenze, tratteggiando in ultima analisi nient’altro che il profilo di una nuova e grandiosa strada per la cucina classica italiana.

IL PIATTO MIGLIORE: Ravioli di pollo alla cacciatora in brodo e ribes. 

La Galleria Fotografica:

La famiglia Rogosky e il Caberlot

Correvano gli inizi degli anni Ottanta dell’ormai secolo scorso. Wolf e Bettina Rogosky arrivano dalla Germania in Toscana, alla ricerca di un casale con un po’ di terra intorno. Un luogo ove la pace e il silenzio regnassero assoluti, dove i telefoni non squillassero e pure la posta facesse difficoltà ad arrivare. Lui, pubblicitario di fama internazionale in forza alla GGK di Düsseldorf (sue, in quegli anni, alcune delle campagne più importanti e di successo a livello europeo), aveva bisogno di tranquillità: un buen retiro ove nascondersi dalla logorante frenesia del lavoro. La coppia, nella loro personale recherche (che era, in fondo – come Proust ci insegna – anche una riappropriazione del proprio sé), gira a lungo, su e giù per i declivi toscani, alla ricerca di un luogo che rispondesse a tali requisiti. Fintantoché per caso giungono nei pressi di Mercatale, sulle colline che segnano il crinale fra il Chianti e la Val d’Arno, a poche centinaia di metri da Petrolo. Qui viene loro segnalato che, in mezzo a un bosco, c’è in vendita una vecchia casa. Non c’è la strada per arrivarci, però. Né la luce. Né tutte le altre comodità del mondo moderno. Solo un sentiero da percorrere a piedi. Verso un rifugio. Verso una nuova avventura. I coniugi Rogosky non ci pensano un attimo: è la dimora giusta per loro! La casa viene acquistata, insieme al suo terreno (meno di mezzo ettaro), piantato a olivi. Nell’inverno del 1985 si abbatte su quelle colline una tremenda gelata, passata alla storia, che fa strage di quei poveri alberi. La Regione Toscana dà quindi la possibilità, a coloro che hanno subito danni, di convertire l’oliveto in vigna. I Rogosky, che già da tempo avrebbero voluto cimentarsi nella produzione di vino, non si lasciano sfuggire l’occasione. Ma cosa piantare? Sangiovese, come tutti? O un ‘banale’ vitigno internazionale? Geniale e creativo Rogosky vede svantaggi e difficoltà in entrambe le possibilità: la prima lo avrebbe messo in competizione con aziende che hanno secoli di storia e conoscenze alle spalle. La seconda sarebbe stata un ‘tradimento’ del terroir toscano in favore di uve che hanno altrove la loro patria d’elezione. Si deve trovare una terza possibilità: fare un vino unico, frutto esclusivo della terra che circondava la propria casa. Un vino che non avrebbe avuto alcuna possibilità di paragone.

I Rogosky si ricordano che poco tempo prima, grazie all’amico enologo Peter Schilling, avevano avuto occasione di assaggiare un vino creato da un altro enologo, Vittorio Fiore, prodotto da un vitigno ignoto denominato L32. Dietro questa sigla si nascondeva un incrocio naturale, scoperto negli anni Sessanta in una vigna abbandonata sui Colli Euganei dall’agronomo Remigio Bordini, fra – come si capì in seguito – Cabernet Franc e Merlot. Schilling, insieme a Fiore, convincono i coniugi Rogosky a sperimentare questa varietà sulla quale nessuno aveva ancora deciso di puntare. Wolf, con la sua grande genialità e creatività innata, battezzò il vitigno Caberlot: un unicum assoluto, dall’immenso potenziale, coltivato (a tutt’oggi) solo qui. Una sorta di ‘dono’: da comprendere e da comunicare. Nasce così la storia de Il Carnasciale, una delle cantine d’eccellenza del nostro Paese, e del suo mitico vino: Il Caberlot.

Davanti casa viene impiantata la vigna, ad alberello e con una distanza minima fra una barbatella e l’altra, su un terreno ove solo i primi venti centimetri sono di galestro e alberese, e che al di sotto è roccia. Sono anni di sperimentazione e, benché la prima annata prodotta de Il Caberlot sia del 1988, la commercializzazione vera e propria parte nei primi anni Novanta. C’era tanto da capire: il comportamento delle viti (il Caberlot ha rese bassissime ed è assai sensibile alle malattie), il loro sviluppo, il rapporto fra il terreno e la pianta, l’influenza del microclima. E poi, in cantina, tutte le pratiche più giuste per avvicinarsi sempre più alla perfezione. Negli anni, di pari passo alla stabile affermazione de Il Caberlot fra i più eccelsi vini d’Italia (la scarsità della produzione – pochissime migliaia le bottiglie, numerate e solo in formato magnum! – non fa che aumentarne l’aura leggendaria), la famiglia Rogosky (che, dopo la scomparsa di Wolf, avvenuta nel 1996, è ora rappresentata da Bettina e da suo figlio Moritz) acquisisce e impianta nuove vigne, adesso cinque (per un totale di cinque ettari, posizionate in un raggio di venti chilometri dall’azienda), scelte secondo principi d’eccellenza per terreno e caratteristiche pedoclimatiche. Anche i sistemi di allevamento cambiano a seconda del luogo, passando dal cordone speronato, al guyot, all’alberello con il solo fine di ottenere un’uva che sia sinonimo di pregevolezza assoluta. Altre date segnano poi un percorso fatto da ulteriori piccole svolte. Nel 2000 appare la seconda etichetta della cantina: Il Carnasciale. Nel 2013 ecco le prime (poche) bottiglie de Il Caberlot in formato 0,75 litri, battezzate da Moritz «demi-magnum». Nel 2015 si terminano i lavori della nuova cantina, che oggi affianca quella ‘storica’ posta sotto l’antico casale. E sempre nel 2015 appare una terza etichetta: Ottantadue (Sangiovese in purezza), da una vigna di poco più di un ettaro impiantata nel 2004.

Per comprendere Il Caberlot, al di là del suo fascino misterioso, si deve fare una premessa. Il Caberlot è un vino frutto di assemblaggio, e l’assemblaggio muta di anno in anno. Le cinque vigne, ognuna delle quali presenta specificità del tutto proprie, sono vendemmiate a lotti (in genere da venti a trenta, variabili a seconda dell’annata), nell’arco di circa tre settimane, secondo un principio rigoroso: «l’acino che non sei disposto a mettere in bocca non metterlo in cassetta». Le fermentazioni, tutte separate, avvengono in acciaio, per un periodo di tempo variabile (da quindici giorni a un mese) e a temperatura controllata variabile, a seconda del singolo lotto. E giorno per giorno viene effettuata, rigorosamente a mano (anche per rendersi conto dell’evoluzione della fermentazione), la follatura, stando ben attenti a che l’estrazione non sia eccessiva. Quindi ogni singolo lotto delle tre vigne più vecchie passa in barrique (che sono nuove, all’incirca, per il 70%) a bassa tostatura e di diversa provenienza (quest’ultima viene scelta in base alle caratteristiche del lotto stesso, al fine di enfatizzare le qualità del varietale; e ciò ha comportato, per Il Carnasciale, la necessità di stabilire rapporti privilegiati con alcuni dei più importanti produttori di botti e barrique i quali assicurano l’invio dei legni anche all’ultimo momento). Mentre i lotti delle due vigne più giovani – 2013 e 2016 – vengono affinati in botte grande. Il vino (trasferito nella cantina storica) sosta in botte piccola per circa diciotto mesi, ove compie naturalmente la fermentazione malolattica. Terminato questo primo affinamento (si è, in genere, in aprile) si procede a una degustazione alla cieca di ogni singolo lotto. Quelli che sono giudicati di qualità superiore sono destinati a Il Caberlot: assemblati e imbottigliati sostano ancora sedici mesi in bottiglia. Gli altri lotti sono invece destinati alla seconda etichetta, Il Carnasciale: vengono assemblati al vino che ha affinato in botte grande che, una volta imbottigliato, rimane in cantina per altri sei mesi. Ciò significa che, anno dopo anno, Il Caberlot nasce solo da quelle uve, le migliori in vigna, che hanno fatto il miglior affinamento in botte. E che, non per forza, l’anno successivo, saranno di nuovo le medesime. Ciò significa anche una estrema discontinuità nei numeri produttivi. Nelle annate migliori è probabile che siano prodotte più bottiglie de Il Caberlot e meno de Il Carnasciale, e viceversa in quelle più sfortunate.

La degustazione

Come di prassi avviene nelle più celebri cantine di Francia, la degustazione, guidata dall’enologo dell’azienda, Marco Maffei, insieme al suo braccio destro Tommaso Fanetti, e alla presenza, del tutto inusuale di Moritz Rogosky, si è svolta spillando il vino (annata 2021) direttamente dalle barrique, ben prima quindi che abbia portato a termine il suo ‘percorso di formazione’. Ovvio che chi – come chi scrive – conosce Il Caberlot limitatamente alla sua vita in bottiglia – nelle diverse fasi della fresca giovinezza, della completa pienezza e della affascinante e sontuosa maturità (perché Il Caberlot è un vino cha va aspettato!) – possa nutrire qualche titubanza verso un vino ancora ‘infante’. Eppure, eppure… alcuni elementi già affascinano, anche perché è proprio da una analoga esperienza di assaggio di vini provenienti da terreni, altitudini ed esposizioni differenti che, ogni anno, nasce Il Caberlot.

Il primo assaggio è stato compiuto da un lotto proveniente dalla seconda (in ordine di tempo) vigna impiantata. Questa si trova su un terreno a forte prevalenza sabbiosa, con ampi strati di calcare e arenaria sottostanti, dovuti a depositi alluvionali, in un’area ove, in antiche ere geologiche, insisteva un lago salato. Il vino, che si presenta nel bicchiere di un impenetrabile rosso rubino e con la ‘giusta’ consistenza, propone un prospetto aromatico decisamente trasversale. Si avverte la croccantezza di piccoli frutti rossi, sentori erbaceo-balsamici, tocchi floreali (questi, invero, ancora scomposti), un pungente sottofondo di pepe nero (tipico del vitigno Caberlot) e una mineralità complessa e finissima che pare avvicinarsi al silicio. In bocca prevalgono le sensazioni dure ma il tannino è già assai levigato, e le morbidezze si avvertono in tutta la loro complessità. Il vino è lungo, teso e pulitissimo sino in fine di bocca. Esce avvolgente, con una fresca setosità che ne mostra tutto il carattere e la vaglia.

Il secondo assaggio è invece avvenuto dalla botte ove affina uno dei lotti della ‘vigna vecchia’, la prima impiantata nel 1985. Questo Caberlot si presenta in modo assai differente. Se uguali – infatti – sono colore e consistenza, differiscono il bouquet aromatico e le sensazioni gusto-olfattive. Il primo appare assai leggiadro, e quasi provocante. I frutti rossi paiono virare sul sottobosco, nella balsamicità dell’erba si avverte un tocco di picciolo di peperone, le violette si confondono con il pepe e la mineralità appare più da ciottolo che da pietra. Al sorso il vino sembra aver già raggiunto un incredibile, stupefacente equilibrio. La facilità della beva (il tannino è già integrato e la spinta acida ben modulata dalla morbidezza) si allunga nel centro e in fine di bocca, distendendosi poi ai lati con complessità e inusitata finezza. Il vino appare di corpo, ma senza pesantezza: anzi si mostra snello e dall’eleganza assai stilosa, e già sofisticata.

Si è poi passati ad assaggiare, questa volta dalla bottiglia, Il Carnasciale 2020. Etichettarlo semplicemente come la versione minor de Il Caberlot sarebbe ingiusto, oltre che sbagliato. È, piuttosto, un modo differente (più ‘approcciabile’, se proprio lo si vuole dire) di interpretare il vitigno. Se Il Caberlot dà il suo meglio dopo un affinamento di qualche anno, Il Carnasciale è capace di esprimersi al top in tempi più brevi. Il prospetto aromatico, di gran impatto e complessità, abbraccia tutte le declinazione del suo fratello maggiore (frutta, erba, fiore, minerale, spezia) senza però perdersi nelle sue atmosfere rarefatte e cangianti. Qui i profumi, infatti, appaiono dalle linee ben definite, tratteggiati con cura e mano felice. In bocca Il Carnasciale si propone in molteplici avvolgenze date da una struttura polialcolica di grande importanza. Su questa, come fosse una tela, si dipanano i colori di una modulata freschezza, di un assai setoso tannino e di una mineralità profonda e qualitativamente assai fine. Il vino, che procede in bocca con composta eleganza, chiude lungo e assai raffinato, invogliando – quasi con occhio complice – al sorso successivo.

La degustazione si è quindi conclusa con la terza etichetta: Ottantadue (annata 2019). Si tratta di un Sangiovese in purezza, vinificato in vasche di cemento e affinato in acciaio per poco più di un anno. «Quando Wolf Rogosky – ci ha detto Marco Maffei – ha intrapreso l’avventura de Il Caberlot lo ha fatto perché voleva produrre un vino del tutto differente, unico, rispetto a ciò che si faceva in queste terre. Ecco, con Ottantadue abbiamo azzardato la stessa scommessa: produrre un Sangiovese diverso». Delusi quindi tutti coloro che si aspettano un Sangiovese in stile Chianti, Ottantadue (il nome deriva dal numero civico che contraddistingue il Podere Il Carnasciale, peccato però che non ci siano numeri civici precedenti e successivi!) è un vino in stile Beaujolais. Quindi di approccio ‘facile’, dai begli aromi fruttati e floreali, dalla spiccata freschezza, dall’estrazione assai moderata e dal tannino molto levigato. Ciò non significa però che non sia un’etichetta dalla identità precisa e dal portamento definito. Il naso, che si contraddistingue per la ciliegia, il lampone, la fresca e balsamica macchia mediterranea, spicca per le belle e nette sensazioni minerali (grafite e soprattutto carbonio). In bocca colpiscono la croccante succosità e ancora il fine minerale, ben bilanciati dalle sensazioni caloriche e pseudocaloriche. Anche la chiusura è netta e pulita, con un bell’allungo fruttato in fine di bocca.

La potenza che non ti aspetti

Sul lato occidentale della Strada Bolgherese, nella zona ricompresa tra le Colline Metallifere e il mare, si trova la tenuta de La Madonnina. Un’azienda agricola che conta circa 70 ettari nel cuore della denominazione Bolgheri, sei dei quali, dal 2002, ospitano i vitigni internazionali da taglio bordolese oramai appartenenti alla tradizione di questa zona della Toscana. L’esposizione è ampia, rivolta a ovest, l’altitudine è di soli 45 metri sul livello del mare e i terreni alternano la sabbia all’argilla. Caratteristiche che contribuiscono a dare luogo a vini immediatamente riconoscibili per la loro forza, ma anche per la pulizia, la sapidità e l’eleganza che li contraddistinguono, frutto di una grande attenzione in vigna – dove la produzione per ceppo non supera i 500 grammi – e di una lavorazione in cantina, che la proprietà di nazionalità russa ha affidato a Riccardo Cotarella, all’insegna della massima qualità.

La Degustazione

Toscana Rosso IGT 2020

Vinificato in acciaio ed elevato in barrique di rovere francese per 16 mesi, al naso si presenta timido, piuttosto chiuso e scuro, rivelando piccoli frutti di bosco come i mirtilli, note speziate di cardamomo e un bel finale di note terrose e liquirizia. Al palato il discorso cambia, questo blend di Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Syrah, Merlot e Petit Verdot sorprende per la grande sapidità e il tenore alcolico elevato, che riscalda le papille gustative, dimostrandosi un vino assolutamente intrigante.

Toscana Rosso IGT Syrah ‘Viator’ 2017

Un vino largo e muscolare, di grande piacevolezza. Al naso spiccano le spezie: pepe nero, cacao amaro, chiodi di garofano; quindi si passa al ribes e alla prugna, per finire con un delicato rimando alla dolcezza donata dalla barrique nuova di rovere francese, nella quale affina per 18 mesi. Anche qui ritroviamo una bella sapidità, ma tutto è più rotondo e avvolgente, più soffuso e bilanciato.

Bolgheri Rosso Superiore DOC ‘Opera Omnia’ 2017

Le uve da Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Merlot, Petit Verdot e Syrah vengono sottoposte a rigidi criteri di selezione per dare vita a questo vino, punta di diamante dell’azienda, del quale per questa annata si contano soltanto 6500 bottiglie. Il vino macera sulle bucce per 15 giorni, fermenta in tini di acciaio, quindi prosegue il suo percorso evolutivo nelle barrique nuove di rovere francese, dove riposa per 18 mesi prima di essere imbottigliato. Al naso si esprime con eleganza sebbene gli serva tempo per aprirsi, su note di ciliegia, ribes nero, richiami balsamici e sensazioni fumé. Al palato appare vigoroso, con un frutto pieno e maturo che, tuttavia, lascia spazio a una pulsante vena di freschezza che ne alleggerisce la struttura. Un vino dalla bevibilità pericolosa, che in un battibaleno ti porta a finire la bottiglia.

*I vini dell’azienda La Madonnina sono distribuiti da Partesa.