L’atmosfera casalinga e d’antan fa del Consorzio uno di quei posti – del cuore – che sembrano esserci da sempre. Certamente è un luogo dove da sempre si fa ricerca: sui prodotti così come sui vini. Pietro Vergano e Andrea Gherra partono dalle proprie radici, che affondano nelle diverse tradizioni del vasto territorio piemontese integrando a materie prime autoctone il meglio proveniente dai giacimenti gastronomici nazionali, sebbene qualcosa vada anche oltre (la selezione dei formaggi è emblematica in tal senso).
Quando si alzarono per la prima volta le saracinesche del Consorzio, più di dieci anni fa, nonostante la parola “ristorante”, si pensò subito ad un prototipo di osteria 2.0, perfetta crasi tra tavola gourmet, cucina di prodotto e Piola piemontese, con un particolare focus sui vini. Sicuramente un’insegna precorritrice di tante celebri tavole, di oggi sparse per lo Stivale.
Oggi ai fornelli c’è Valentina Chiaramonte, cuoca siciliana che ha introdotto qualche tocco della sua Isola nella proposta tipica del locale, evitando però di snaturare la stessa rispetto alla tradizione che continua a predominare con i piatti a base di quinto quarto (la valorizzazione delle frattaglie resta uno degli obiettivi primari di questa cucina) e i cavalli da battaglia del locale, come l’Uovo croccante su bietole, fonduta e pancetta, la Variazione di acciughe, l’Agnolotto gobbo, ancor più delicato di come lo ricordavamo, e gli affascinanti quanto impegnativi Ravioli di finanziera. Poi ci sono anche i Tajarin di trippa d’agnello al sugo d’arrosto, che confondono in una ipotetica classificazione tra piatto da trattoria o da grande ristorante gourmet. Meravigliosa, nella sua semplicità (e consistenza) la Panna cotta con barbaresco chinato, chinotto e torrone e di grande intensità gustativa il Sorbetto alle fragoline di Tortona.
E se pensate che in un posto così non possa esserci una degna vetrina per una carta dei vini sempre sul pezzo in termini di novità e con una interessantissima selezione alla mescita (sebbene questa volta ci sia parsa leggermente ridimensionata rispetto al passato), vi sbagliate. Perché, come detto, il Consorzio è, in primis, un’osteria, anche nel conto, più che corretto – il menu degustazione costa 39 euro, alla carta siamo sui 45 euro – che invoglia a tornare. Va da sé che, con questi presupposti, è indispensabile prenotare con qualche giorno di anticipo.
A pochi metri dal Po, non distanti dal centro cittadino della prima capitale d’Italia, ecco il progetto di tre giovani amici torinesi che, dallo loro, hanno idee, libertà di espressione e il rispetto, ciascuno dei propri ruoli. Inaugurato nell’autunno del 2018, da Alberto Fele, Marco Pandoli e lo chef Lorenzo Careggio, al team di EraGoffi si è poi aggiunto Luca Briccarello, con cui si è dato vita a CasaGoffi, uno spazio in cui l’ambiente riporta alla Francia dei primi anni Venti.
Qui, la proposta è rivolta a un pubblico più business, di giorno, e certamente più giovane alla sera, e la notte, con musica e proposte food più informali, e una cucina legata a doppio filo con l’identità di Lorenzo, nonostante le centinaia di presenze che si registrano in alta stagione. Lo chef trentaseienne, nato a Casablanca, dopo un percorso di studi che lo ha visto impegnato in varie Università di Torino – tra Ingegneria, Fisica e Analisi – ha poi scelto di dedicarsi a quella sua attrazione – si potrebbe dire “fatale” – per la cucina e il cibo che, sin da piccolo, è stata segnata da ricette tipiche piemontesi, a partire dalla pasta e dalle spezie che arrivavano dall’India.
Frequenta allora l’Associazione Cuochi di Torino, ma la sua formazione aveva bisogno di qualcosa, di un’esperienza completa; nel 2015 Lorenzo si iscrive all’Accademia Niko Romito, una scelta che si può dire essersi rivelata vincente perché, ritornato in città, approda e lavora ai secondi nelle cucine del Carignano, al fianco di Fabrizio Tesse, quando arriva la Stella Michelin. Da lì a poco, quel suo talento si mette al servizio di se stesso, per riprendersi quel tempo speso a rincorrere i suoi sogni ed esprimerli oggi in piatti sempre molto personali.
Il suo è un darsi e aprirsi totalmente agli altri attraverso la ricerca di concretezza nei sapori. I piatti appaiono così senza ermetismi, ogni elemento è posto sullo stesso piano, e con la stessa importanza. Una scelta che omaggia dunque tutti gli ingredienti sebbene, in qualche caso, vada in sfavore di un possibile acuto, una scintilla che potrebbe rendere il piatto, nel suo insieme, ancora più incisivo. Una forma di prudenza, questa, che non lo porta a spingere su estrazioni o su un maggiore utilizzo di determinate materie. Resta una cucina che non lascia vuoti, né sospesi: è netta e senza troppe contaminazioni e drappeggi e in cui non mancano materie prime selezionate, come la gallina bianca di Saluzzo Presidio Slow Food, la pasta Felicetti, pesci d’acqua dolce dell’allevamento piemontese Agritrutta, né che disdegna l’uso di erbe provenienti direttamente dalla serra idroponica.
Al tavolo si sceglie uno dei tre menù da 4, 6 e 8 portate o alla carta, che resta minimal; i nomi dei piatti sono essenziali e funzionali al racconto degli stessi da parte di una sala giovane e preparata, quasi tutta al femminile. Su tutti apprezziamo i contrasti, e i colori, dello Spaghetto BBQ, in cui il torbato fa rimbalzare l’amido e la sua dolcezza, poi smorzata dalla polvere di peperone e di cipolla bruciata: forchettate più che convincenti, anche se ci piacerebbe che fossero più persistenti che icastiche.
Ma merita di essere menzionato anche il piatto con l‘anguilla e prugne, in cui il pesce viene frollato per sei giorni, cotto e messo sottovuoto per poi ultimarne la preparazione alla griglia al momento del servizio. Morso di buona consistenza e concentrazione di sapori netti, che si sposano a quelli altrettanto marcati della senape di ramasin gialli, varietà di susino piemontese e da una prugna in agrodolce che distende il palato.
Sensibilmente profilati anche i dolci, come nella rivisitazione del bunet con peperoni e acciughe. Oltre la texture morbida del cioccolato arricchita, come vuole la tradizione, di amaretti al posto del caramello, si affonda il cucchiaino in un estratto di peperoni mentre il tutto è coperto da una polvere di acciughe dissalate ed essiccate. Il risultato è un dolce-salato oltremodo soddisfacente.
Matteo Baronetto è stato per diciotto anni al fianco di Carlo Cracco, nel periodo in cui il cuoco di Creazzo era considerato uno dei massimi esponenti della cucina d’avanguardia a livello internazionale. Nel 2014 il trasferimento alle redini di Del Cambio, un ristorante le cui origini risalgono al 1757 e che ha visto sedersi ai propri tavoli, tra gli altri, Friedrich Nietzsche e Honoré de Balzac.
L’incarnazione di una città e, nel contempo, un baluardo della tradizione. Di primo acchito, due mondi distanti e dalla difficile convergenza. Se non ché, come spesso accade, a fare la differenza sono le persone, la loro passione – od ossessione – e la capacità di fronteggiare la complessità, individuando legami e connessioni invisibili ai più. Ad oggi, la cucina di Matteo Baronetto ha raggiunto una profondità tale da saper soddisfare chiunque. Dal turista che si reca da Del Cambio con il desiderio di assaggiare un classico della cucina torinese eseguito magistralmente all’appassionato più incallito, perennemente alla ricerca di una cucina autenticamente autoriale, anche sfidante.
A questi ultimi – ma anche a chi, più semplicemente, desidera esplorare nel profondo l’idea di cucina del cuoco – è rivolto il “Tavolo dello chef”, un bancone di marmo affacciato direttamente sui fornelli e capace di ospitare un massimo di quattro commensali. Sin da subito, ci si rende conto di come lo scopo di questa soluzione sia quello di instaurare un dialogo e un confronto con l’avventore, una sessione di cucina jazz in cui le due parti si scoprono e si influenzano vicendevolmente, in una dinamica che trascende il cibo in senso stretto per sfociare in una relazione umana, elemento verso cui il cuoco piemontese dimostra di voler investire molto, anche accantonando alcune sovrastrutture che spesso – e soprattutto negli ultimi anni – caratterizzano il rapporto chef-cliente.
Il percorso servito a le Table du Chef corre lungo due fili conduttori che si alternano o coesistono. Da un lato, vi è la ricerca di “similitudini” tra le diverse portate – spesso servite “in parallelo” – ma anche all’interno del singolo piatto dove ingredienti apparentemente distanti si mostrano imprevedibilmente affini in un inesauribile gioco di rimandi e collegamenti, estremamente stimolante. Dall’altro lato, molti passaggi evidenziano uno sguardo inedito – ma estremamente rispettoso – nei confronti della tradizione.
Un manifesto di questo binomio è rappresentato da Ostrica alla Rockfeller – il mitile e gli spinaci sono ricoperti da un’ostia inumidita e brunita, cui si aggiungono due gocce di limone – a cui viene affiancato, in un parallelo, Alga nori, cavolo nero, caviale, crema di latte e olio al cavolo nero. I due piatti sono accomunati da un perfetto equilibrio tra note “verdi”, sapide e iodate e, nel contempo, l’accoppiata cavolo nero-alga nori evidenzia un’inaspettata somiglianza tra le consistenze dei due ingredienti. Un passaggio di rara eleganza è, poi, costituito dagli scampi al vapore, meringa salata all’italiana, olio di nocciola e marmellata di limone salato: un caleidoscopio di stimoli gustativi in perfetto equilibrio, cui viene affiancata una brunoise di kiwi giallo e patate, in un altro gioco di corrispondenze.
In Moscardino e foie gras, il fegato grasso – sciolto delicatamente in padella – è chiamato a “sostituire” le interiora del mollusco, in un risultato complessivamente davvero notevole: l’inganno funziona sia in termini di vista che nella percezione delle textures al palato, ma a colpire è soprattutto il gusto. In Seppia e lardo e Lardo di mandorla gli spunti sono ancora una volta numerosissimi, nonostante l’estetica monacale e la monocromia del piatto: la corrispondenza tra il colore e la texture di seppia e lardo, la grassezza di quest’ultimo e della pomata di mandorla, le poche gocce di tintura al rosmarino che rievocano le tipiche note aromatiche del lardo. Quanto ai ravioli di gnocco alla bava, sono a loro volta il frutto di una riflessione su un piatto della tradizione: per assicurare il perfetto equilibrio quantitativo – e, quindi, gustativo – tra gnocco e condimento, entrambi vengono racchiusi in un raviolo di pasta fresca finissima: i limiti della tradizione vengono superati attraverso un utilizzo strumentale della stessa e, così facendo, un “difetto” diventa un’occasione di valorizzazione e consapevolezza. Accade anche nell’accoppiata tra rognoncini di coniglio e salsa alla luciana, in cui la nota animale delle interiora arricchisce il piatto in termini di complessità, oltre a ovviare a un inconveniente della preparazione classica, in cui spesso il polpo – dopo aver disperso i propri umori nel pomodoro – risulta privo di sapore.
Da ultimo il dessert, in cui la golosità del gelato di bonet trova come contrappeso una granita di Barolo chinato, a conferire note amare e aromatiche. Insomma, un pranzo a Del Cambio è un percorso ricco di stimoli, sfumature, citazioni e rimandi, alcuni dei quali difficili da trasporre per iscritto ed altri che necessitano di qualche tempo per essere metabolizzati. In particolare, il tema delle “similitudini” rappresenta una riflessione davvero personale e originale, carica di suggestioni: ci si accorge che ingredienti che si somigliano per consistenza, texture o resa estetica quasi magicamente si sposano anche al palato. C’è qualcosa di inspiegabile, quasi misterioso, che forse ha a che fare con la natura nel suo profondo. Un approccio lontano da cliché e un’avanguardia sussurrata fanno di Matteo Baronetto uno dei migliori interpreti dalla cosiddetta “nuova cucina italiana”.
Per chi arriva a Torino in treno Opera è una meta comodissima. Il ristorante è a due passi da Porta Susa, in una posizione strategica e piuttosto centrale, dunque, che vede, varcata la porta d’ingresso, la cucina, gestita da Stefano Sforza, visibile da una piccola finestra che si affaccia sull’elegante corridoio da percorrere per raggiungere la sala centrale, divisa in due ambienti come una grande casa.
Gli spazi hanno una profondità notevole. Soffitto a volta, tavoli ben distanziati e seguiti con grande precisione dal maître Gualtiero Perlo – un grande estimatore di tè, a tal punto da dedicargli una piccola carta – affiancato in sala, per proporre vini e i drink durante la serata, dal giovane sommelier Carlo Salino.
Qui ogni portata è un nuovo dialogo con lo Chef, che conduce l’ospite nella sua idea di gusto, che si snoda tra piatti che puntano sull’innovazione e la concretezza degli ingredienti. Due i menù proposti, che mutano con le stagioni e le materie prime dell’orto, ubicato nella prima collina torinese. A questo si deve la predilezione per le verdure, tanto che vi si trova un intero percorso dedicato al pomodoro.
E poi c’è “Opera”, dove lo chef gioca con cotture e consistenze diverse per presentare uno dei suoi primi progetti di stile, in cucina, un percorso iniziato nel 2019 con il supporto della famiglia torinese Cometto che lo ha scelto per guidare il ristorante. La sua è una mano delicata alla ricerca dell’equilibrio, sì, ma senza estremismi, frizioni o picchi di acidità. Sapori molto, molto rotondi, accoglienti. Un’identità che nasce da maestri prestigiosi come Pier Bussetti e Alain Ducasse, dal quale ha imparato il rigore, il rispetto e la disciplina, prima ancora dell’arte della cucina. Le basi, prima ancora delle basi del taglio o dello stare in un reparto specifico. Tra le esperienze di Sforza ci sono anche periodi al Bellevue di Cogne, Del Cambio di Torino, Trussardi alla Scala di Milano, e tre anni al Turin Palace.
Classe 1986, Stefano, quando rincasa, non si adagia certo sugli allori. La sua testa continua a pensare a come arricchire il suo percorso da sette portate, la sua “opera”. E proprio il menù Opera vuole essere un giro intorno al mondo: dall’America meridionale all’Asia, si inizia con una barbabietola con aceto di more e tonburi presentata a forma di petali di rosa. Il gusto è in contrasto tra i suoi compagni di viaggio, sebbene resti dolce e concentrato sulla barbabietola. Si prosegue con un po’ di Oriente, si finisce, su suggerimento dello Chef, col bere dalla ciotola ma solo dopo aver terminato lo storione, proposto con una leggera marinatura e una ceviche con il latte di cocco, lime e un pizzico di peperoncino, per una spinta agrumata piuttosto marcata. Il caviale in superficie si contrappone allungando il sapore del piatto.
La tartare di vacca con melograno e radicchio è un piatto che piace e, oltre all’estetica, diverte al palato anche la presentazione e l’effetto di rimbalzo sulle dolcezze e sulle consistenze che si crea alternando morsi alla chips di mais che racchiude la carne cruda. Ed è forse qui che si può rivedere la scelta di inserire i capperi, fritti e non.
Il raviolo di tapioca con emulsione di zucchine alla brace è una grande rappresentazione di quella che è la pasta fatta a mano ripiena con crema di zucchina, di cui una parte cotta alla brace. La golosità è in un doppio strato perché il raviolo si apre, come una conchiglia…
Ma ecco che arriva l’estremismo, il picco del percorso, lo spaghetto con riccio di mare, vermouth rosso di Torino e cedro. Un piatto estremo e intenso: il riccio è fresco, il piatto apre dolce e chiude amaricante stemperandosi nell’amido. Pare di trovarsi in una nuvola che avviluppa il palato, e lo serra in una sensazione confortevole, quella del dolce amaro pastoso che aggroviglia e lega il senso. Un’idea che racchiude tutta la città di Torino e ben spiega, senza sconti, le scelte delle materie prime.
Si chiude con il Brodo di olive, oliva già presente in un golosissimo e centrato amouse bouche – yogurt e limone salato – prima di un piccione con banana e curry, la cui doppia cottura non lascia scampo, conquista per progressione di sapore e concentrati, tra brace e sensazioni dolci, si raggiunge un livello di acidità più contenuto.
Una cucina, insomma, ragionata, contemporanea, nel vero senso della parola, perché ricerca un’idea pescando dal mondo e dalle esperienze pregresse, rendendole edibili prima ancora che comprensibili. Ogni tratto è deciso, soffice, ma non per questo scevro di ricerca. In ogni portata si inserire la giusta acidità; ogni ingrediente è presente ma con la giusta proporzione e, infatti, se qualcosa sembra che sia perso per strada – come gusto o intensità – in realtà è una alea voluta, pensata, studiata e provata, per trovare un (proprio) equilibrio.
Crediamo un po’ nei significati dei nomi. Chef di Spazio 7, dal 2015, è Alessandro Mecca. Il suo percorso di vita rispecchia perfettamente l’immagine di un uomo che si è recato in un luogo, la cucina, con lo scopo di realizzare le proprie aspirazioni. Classe 1984, di Torino, ha una memoria infallibile, collega momenti e volti, li racconta con estrema lucidità. Il rapporto con la cucina inizia da bambino, il doposcuola era la scuola: la cucina. I magazzini del ristorante Crocetta, di famiglia, erano la sua New York. Si gioca a nascondino tra le pile di casse di acqua o di vino. Sullo sfondo le urla dei genitori o i rumori di pentole. Si corre, cadono vassoi. Le posate sono da cambiare. Si vive nel mondo degli adulti, e ci si addormenta nelle ceste delle tovaglie sporche. A soli quindici anni sembra che la vita abbia poca fantasia con lui, il destino è pressoché segnato. Inizia a studiare sui libri del padre, lavora come garzone per arrivare a comporre i primi dolci, solo mono porzioni. Ama, ascolta e si fida solo delle persone materiali, quelle pratiche come lui. Quelle che producono. A diciannove anni a quei tempi la leva è ancora obbligatoria. Quando torna ha imparato a stare al mondo. Disciplina, rigore, rispetto. Per se stesso, in primis. Istintivo, sceglie di mettersi in gioco, inizia a fare esperienze in ristoranti piemontesi tra cui Guido, Al Sorriso e La Ciau del Tornavento. Dalla sua ha la fortuna di poter metter in pratica la manualità appresa nel ristorante di Casa.
Ma la cucina si fa stretta, vola in Brasile per uno stage in uno dei ristoranti 50best, il DOM di San Paolo con Alex Atala. Torna e capisce una volta per tutte che era arrivato il momento di concedersi i l privilegio di vivere il suo destino. A ventisei anni apre il suo ristorante a Villanova d’Asti. Paga forse il prezzo di essere troppo buono, o troppo ingenuo. Nel 2015 inizia l’avventura con la famiglia Re Rebaudengo di Torino. In meno di un mese arriva la firma. In tre anni, nel 2018, arriva la stella. Lo staff scelto è più adulto e motivato per raggiungere lo scopo. Oggi si continua a lavorare per tenerla, la stella, e migliorarsi, giocando con una cucina che si basa su pochi ingredienti per sviscerarli in menu totalmente veg o tradizionali in piatti italiani e gustosi, con un tocco d’arte. Si predilige il manierismo, pochi ingredienti e gusti, che danno il ritmo, creano gioco, sorprendono sebbene in qualche piatto ci siano delle salse a coprire le materie prime. Si punta sull’acidità per alleggerire il percorso. In sala, il giovane team fa star bene gli ospiti sfoggiando la passione per il proprio mestiere.
Seduti in un ambiente minimal, con il cocktail bar a dare luce a una sala un po’ buia, si inizia dagli starter, dallo starter sempre presente: pomodorino ricostruito, già raffigurato nel menu. Il ripieno è con peperone e tonno. Si vince subito. Immancabile, poi, l’assaggio del pane, con un olio potente spalleggiato da un assaggio di qualche pomodorino concentrato. Un richiamo alla dolcezza e all’intensità per prepararsi al cannolicchio e midollo, come il sale della nespola che accelera e unisce i sapori. E von essendoci, qui, la vista sui laghi o sui vigneti, l’ispirazione arriva dalle opere d’arte in mostra nella confinante struttura, la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, installazioni contemporanee che aprono la testa e portano a veder il mondo da altre prospettive. Arriva la zucchina (trombetta) Paul Smith, piatto veg in omaggio al designer delle righe, dei colori sgargianti. C’è brio e allegria con il giallo, peccato per la maionese di ginepro che virava un po’ troppo sul dolce.
A sorpresa, tra i molti piatti di ingresso, c’è quello composto da fave, pecorino e menta. Calembour di consistenze. La spuma di formaggio, con cremosità e delicatezza, nasconde tutto, come una nuvola. Arrivato a temperatura ambiente anche un ghiacciato crème caramel di fave: ecco l’equilibrio, un dolce che ricorda i formaggi d’alpeggio. Ma si tratta del tempo di un sorriso. Un solo cucchiaio. Immaginiamo il mare e una dolcezza perfetta nel riso alla pescatora, la bisque ai ricci di mare diventa un’arena, accoglie il teatro, e il suo intrattenimento. In primo piano resta il pesce e la sensazione di avere tra i denti un’ottima materia prima.
Sul secondo piatto – secondi piatti, più un intermezzo piemontese – c’è un vitello in due servizi, un crescendo per complessità. Si parte con la versione marinata poi abbrustolita che sarà tartare, servita con una salsa d’ostrica. Segue un carpaccio, un omaggio a Cipriani, delicatissimo, e il pani câ meusa, panino con la milza, con pecorino, pepe, strutto. Si affonda nel grasso, la sensazione temporanea è quella di essere in un nucleo di morbidezza. Ma prima c’è spazio per intermezzare con un assaggio di plin, il ripieno è una carne di bollito tagliato a mano, assaggio che riporta alla cucina di Ugo Alciati. Il secondo servizio vede una cottura della carne al sangue tenace, forte, tutto su un fondo intenso e coriaceo. Si alleggerisce con quel velo vegetale in superficie, fatto di ginepro ed erbe, voluto non per correggere ma per alleggerire, l’acidità compagna e contrasta. A dare altro gusto più dolce ci penserà la millefoglie di patate con una goccia del caglio di capretto.
Il percorso si lascia accompagnare da vini naturali o da rossi di Loira, Pecorino e Gamay che, sebbene fossero un po’ anonimi ed evoluti, non hanno inficiato la piacevolezza dell’insieme. Si chiude con un pre-dessert: un tiramisù consistente e un Belpaese, omaggio a Cattelan, dove il cioccolato bianco dirompe e il gusto si fa deciso, ma d’equilibrio notevole.