Gli ultimi tempi del Combal e qualche avventura minore poco riuscita successivamente, avevano fatto pensare che la parabola gastronomica di Davide Scabin fosse avviata al termine. Ed era un grande dispiacere perché, a nostro giudizio, Scabin è stato uno tra i migliori Chef italiani dell’ultimo quarto di secolo. Non il più influente, non il più importante (metteteci pure qualsiasi altro aggettivo a seguire il più), ma forse il più bravo, quello capace di esecuzioni legate ai tempi, il Cyberegg o la Zuppizza, così come concrete classicità gustative come il Rognone al gin o la Melanzana tataki, tanto per citare le prime che vengono in mente. È dunque un grande piacere ritrovarlo in forma ai fornelli del ristorante Carignano, all’interno del Grand Hotel Sitea, a Torino, dove da poco meno di un anno, propone un menu fisso, che cambia denominazione e temi, indicativamente ogni sei mesi.
LGTB#1 si chiama il menù in corso, con tanta di data di creazione: l’acronimo, normalmente attribuito alla identità sessuali, va qui invece letto come Long Gourmet Brainstorming Time: ovvero due ore e mezza per cercare di dare una definizione di gusto, esercizio alquanto complicato, che si esplicita in nove portate più una, l’ultima, nella quale il cliente si trova davanti all’opzione di finire, continuando con il salato, oppure dedicarsi al dolce. La tavola è vuota all’inizio, tranne una clessidra che segna lo svolgersi del tempo e poi riempita di stoviglie, ognuna con una sua particolarità e calici per abbinamenti che non seguono un percorso classico ma alternano Pinot noir borgognone a Sauternes, Barbaresco a Sauvignon, proprio in quest’ordine. E d’altronde il menù, ispirato ai giorni di festa messicani “Dias de los Muertos“, si muove seguendo gli schemi degli ultimi giorni gloriosi del Combal.0, Up & Down.
Si parte dalle Costolette d’agnello alla Villeroy, servite con una printanière al beurre blanc, in cui ogni tipo di verdura e legume è protagonista in assolo e in coro. Ma il meglio lo offrono i piatti successivi: l’Arrosto di foie gras, pomodoro e basilico (bollito!), apparentemente assurdo, in realtà un matrimonio di grasso, dolce, fresco e acido splendidamente riuscito, e l’ultima gioventù dell’Animella nappata al burro, triglia appena scottata con un tocco di sedano e alghe e nessuna salsa legare: ricchezza e purezza di sapori ad alternarsi. Ancora, c’è il Savarin di riso affumicato, intenso e croccante, con lumache, anguilla e finferli e finito con un appropriato brodo di gin Amuerte, a tendenza dolce, e aglio bianco; è ancora Brodo, ma di gallina e manzo, nella sua ultima versione 9.4, servito come preludio freddo in bicchiere e poi caldo ad irrorare Cipolle, scalogno e porro in varie gradazioni di temperature (fredde!) e consistenze. E lo spericolato matrimonio tra Ostriche, banana verde e chorizo in thai style: ma anche qui c’è concretezza dietro l’apparenza. E poi, certo, ci sono altri piatti che ci hanno convinto meno, soprattutto considerando il livello dei precedenti, in particolare la parte dolce, al punto che vi consigliamo di chiudere col salato.
Ma, in attesa del prossimo menù, siamo contenti di aver ritrovato l’anima di un grande Chef, convinti del fatto che non potrà che essere, per questo, sempre meglio in futuro.
IL PIATTO MIGLIORE: Savarin di riso affumicato, finferli, unagi.
I’m not there era un vecchio adagio di Bob Dylan ripreso poi da Massimo Bottura e, benché indirettamente, anche qui dove ci troviamo oggi. Volendone spiegare l’efficacia basterà sapere che in semiotica si è soliti parlare di “presentificazione dell’assenza” per rimandare, per esempio, proprio all’illusionismo del mago che, appunto, sparendo di fronte agli spettatori acutizza la sua presenza tanto più essente, direbbe Heidegger, quanto più, appunto, assente. Ma, “filosofese” a parte, interessante è quello che s’innesca psicologicamente nello spettatore, ovvero un morboso meccanismo di disvelamento – del trucco come del corpo – simile a quanto suscita il vedo non vedo di certe irresistibili vesti femminili. A questo proposito non è un caso che un meccanismo analogo vesta anche i tavoli di Magorabin che, come tutto, qui, sembra riecheggiare del “mi si nota di più se vengo o se non vengo” di eccebombiana memoria perché precisamente questo è, del resto, quanto accade anche allo stesso Marcello Trentini dove un non-Marcello Trentini, al secolo Enzo Barillà, si manifesta eccome, finalmente plenipotenziario in cucina, mentre in sala e alla mescita saranno le aeree pozioni di Simona Beltrami a incantarvi, insieme alla coreografia di una sala giovanissima eppur ambiziosa, che sempre lei orchestra con discrezione e lungimiranza
Per questo, dunque, il Magorabin contemporaneo attutisce ogni attrito e lo fa mediante una moquette che sembra un parquet e, come detto, con l’escamotage del copri-tavolo elastico al posto della tovaglia che, oplà, fa sparire ogni rumore. Tutt’intorno, poi, la scenografia è solo apparentemente sobria e solo apparentemente nero-opaca, anzi luminosissima e vivida grazie a siderali tagli di luce caravaggesca che si spengono subito, e provvidenzialmente, nell’oro bizantino a impreziosire tutte le suppellettili. Che sia presagio, questa combinazione, della temperata opulenza che di lì a poco popolerà i piatti non è dato saperlo; quel che è certo, tuttavia, è la profondissima coerenza di un progetto che ovunque e comunque si esprime con integrità e, sopratutto, con identità.
Considerato anche il carosello iniziale 17 sono, a contarli, gli assaggi del menù “#ventannidimago” che resterà in vigore per tutto il 2023. Un percorso auto-encomiastico, questo, dove benché ingredienti e tecniche occhieggino all’opulenza della cucina reale sabauda stupisce quasi fino a commuovere la leggerezza e, soprattutto, il ritmo, vivacissimo, tenuto da ogni portata e dal menù nel suo insieme, nella relazione della portata precedente con la successiva come se davvero fossimo al cospetto di una storia in cui ogni elemento è propedeutico al funzionamento dell’ingranaggio complessivo. Come ciò sia possibile resta un mistero o, pardon un illusionismo dal momento che Barillà e, con lui, Trentini, assente ma presentissimo deus ex machina dell’intero menù, tutto fanno fuorché lesinare in termini di ingredienti, texture, temperature e tecniche che, del resto, altro non sono se non la sintesi degli ultimi vent’anni del ristorante, di cui decidono di rappresentare tutta la complessità alla luce della stilizzazione del tratto che solo la maturità, appunto, può consentire.
Ecco allora come sia possibile arrivare a fine pasto leggeri e, anzi, alleggeriti nello spirito nonostante piatti come la peccaminosa ma eterea Animella, burrata e acciuga o come l’esageratamente buono Plin alla Royale che riesce nell’intento di conciliare l’affondo nel gusto con una sensazione di impalpabile delicatezza. Che dire poi, ancora, della fondenza struggente, quasi a temperatura fisiologica, del Vitello e Tonno? Ma l’affondo nel piacere più puro perché forse più ancestrale arriva senz’altro coi primi: non solo col cerebrale ed equilibratissimo Spaghetto alle cipolle con l’affumicatura calibrata e il rimando alla cipollina in agrodolce a fissarsi nella memoria, ma anche nell’impeccabile Risotto al pomodoro con la sua dolcezza agreste e agrumata ad allungarne infinitamente la percezione. Si prosegue felici anche coi secondi e, in particolare, con l’Anatra alla Marengo a nobilitare la bellicosità di un piatto in cui interviene anche una sorta di civet e, senz’altro, anche nella parte dolce, solo leggermente sotto tono la Panna e Fragole, mentre ispiratissimo ci è parso il Diplomatico al Gorgonzola e monumentale la Torta con lo zabaione al caffè, come saluto finale.
Il mago è sparito, dunque, eppur è vivo, e incanta più che mai!
IL PIATTO MIGLIORE: Risotto al pomodoro.
La Galleria Fotografica:
Nel panorama gastronomico italiano, Matteo Baronetto occupa un posto peculiare – fieramente periferico -, eppure così straordinariamente incisivo, grazie alla sua unicità. Un cuoco che ha vissuto la fase più luminosa della cosiddetta avanguardia – gli anni milanesi -, per prenderne poi le distanze, senza accanimenti, così da poter agire libero da condizionamenti esterni e guidato solo dalle proprie intuizioni, le quali lo conducono incessantemente alla scoperta – o ideazione? – di legami tra ingredienti distanti oppure a dare nuova linfa vitale a percorsi apparentemente già esauriti (la scaloppina, la salsa civet, il saltimbocca…).
Il talento del cuoco risiede proprio nella sensibilità e, quindi, nella capacità di rendere visibile l’invisibile o cogliere il mistero in ciò che è (a prima vista) conosciuto – con passaggi che a tratti varcano la soglia dell’onirico – : un approccio che porta con sé la tribolazione consistente nel prendere costantemente le distanze dalle strade già percorse, dalle tendenze, dagli infiniti dover-essere di cui la cucina è disseminata. Il risultato è una cucina di intelletto, in cui l’ingrediente e la tecnica diventano vettori, il substrato su cui poggiano le idee, poiché queste ultime sono il vero punto di contatto tra il cuoco e il commensale: con l’assaggio le menti delle due parti entrano in contatto e “vedono” la stessa cosa. Una cucina che non nega il gusto – non sempre quantomeno – ma che non si esaurisce in esso, prestandosi così a più livelli di lettura. Per questo motivo, i menù di Matteo Baronetto poco si addicono a venir rappresentati attraverso la fotografia (nonostante siano di rara bellezza): l’acme sta nell’assaggio, per l’appunto, l’istante in cui il cibo si fa idea e scatta la scintilla. Quel momento è difficilmente rappresentabile e intuibile (a differenza di piatti che, alla vista, già si prestano a essere “pregustati”). Allora, non è un caso se in “Iconiche similitudini” – il libro che il cuoco ha recentemente dato alle stampe – la fotografia abbia lasciato posto all’opera grafica, scelta che – in una logica corrispondenza – lo accomuna ad un altro cuoco-artista, quel Alain Passard i cui piatti, così semplici alla vista – quasi “banali” e, perciò, indecifrabili -, sono in grado di trasportare verso sensazioni prima sconosciute (e non preconizzabili). La profondità di questa cucina può essere colta nel suo pieno al “tavolo dello chef”, il luogo in cui le intuizioni di cui si è detto spesso nascono o vengono concretizzate per la prima volta, ove la sperimentazione ed anche l’errore – non necessariamente un disvalore – che ne può conseguire sono parte del patto cuoco-cliente: i risultati decantati di questa riflessione – non tutti – si ritroveranno, poi, a tempo debito, nei menù offerti in sala che, quindi, non sono affatto “altra cosa”.
In occasione dell’ultima visita, abbiamo avuto modo di confrontarci con un percorso complesso e stimolante, un intreccio di diverse suggestioni, dall’utilizzo sapiente – ed acuto – dei grassi, alla celebrazione del gesto, passando per le assenze come strumento di riflessione, senza abbandonare la cifra stilistica delle “similitudini” che, anche per chi si è seduto più volte a questo tavolo, rappresenta un’inesauribile fonte di stupore. Le similitudini, per l’appunto, sono oramai la sineddoche della cucina baronettiana: una componente di un approccio complessissimo che a volte, erroneamente, viene “ridotto” ad una delle sue componenti. In realtà, la ricerca del simile non è l’obiettivo perseguito dal cuoco, quanto la leva, il punto di partenza, il cannocchiale, il metodo con cui approcciarsi alla realtà e da cui derivare infiniti risvolti e riflessioni. Ad esempio, in Albume, caviale e burro nocciola convivono la celebrazione dell’importanza del gesto – quello di racchiudere le uova di storione in un velo di albume, senza scorciatoie – e il parco utilizzo del burro nocciola (il grasso, per l’appunto) a stimolare il ricordo di un “uovo all’occhio di bue”. Un passaggio che fa inevitabilmente venire alla mente il Pachino di Disfrutar, il quale, tuttavia, è frutto di un escamotage “tecnologico”, dal risultato certamente ludico e goloso ma meno “sottile”.
Un’immagine fedele del Baronetto di ora si ritrova, poi, in Espardenya (cetriolo di mare) di seppia e foie gras, in cui la seppia viene tagliata a strisce e cotta versandovi sopra dell’acqua bollente non salata – ancora, la gestualità – : la texture rimanda immediatamente al cetriolo di mare mangiato al Nerua pochi mesi fa. A lato, viene servito del foie gras sciolto in padella da cospargere sul boccone bianco: la golosità – e quel sapore tipico del pesce cotto in padella – grazie ad un solo accenno di materia grassa. In Albume d’uovo come una steak tartare, una mirepoix d’albume viene condita come fosse una classica tartare: in questo caso, il gioco di corrispondenze non funziona – mancano cremosità e parte ematica – ma non lascia indifferenti poiché “l’errore” consente di analizzare la genesi del piatto e il meccanismo di funzionamento delle similitudini. Un passaggio straordinario – forse quello più incisivo – è Verza e civet di radicchio, in cui la salsa civet è preparata con radicchio e sangue di volatile (rispetto alla tradizione francese la carne scompare dalla salsa e dal boccone): la lucidità della salsa è quella che conosciamo e la complessità gustativa rara, tra l’amaro e l’acido del cioccolato (che non c’è), oltre a quella nota ematica che ci era mancata nel piatto precedente. In Gianduiotto di gelatina di brodo di manzo e maionese al sugo di carne la texture del nervo bollito o stufato viene riprodotta con una gelatina di brodo di manzo (qui, però, il gusto della carne è presente, a differenza della tradizione, dove si mangia “la consistenza”): un piatto che fa venire alla mente “Gnocchi and parmesan sauce“, servito da Aduriz proprio in questa cucina, in un rapporto di specularità (lì il tendine c’era ed era dissimulato sotto la forma di uno gnocco ricoperto di salsa al parmigiano). Da ultimo, la “memoria storica” di Passione Gourmet deve necessariamente tenere traccia di Animella e mozzarella – un piatto assaggiato nella precedente visita di luglio -, uno dei più straordinari dello scorso anno (e non solo): due ingredienti distanti – ma dall’identica testura – e un assaggio sorprendente, che sfugge alla razionalità. La cucina di Matteo Baronetto è una voce solitaria – unica -, attualmente una delle più fertili nel panorama europeo, insensibile al contesto gastronomico attuale, inespressiva di tendenze e, per questa ragione, tremendamente affascinante.
IL PIATTO MIGLIORE: Verza e civet di radicchio.
Che la percezione e lo sviluppo della cucina vegetale sia cambiata moltissimo negli ultimi anni è un’ovvietà, tanto che da più parti si trovano ormai percorsi di degustazione interamente veg che mettono al centro gli ingredienti dell’orto. Nella città di Torino c’è chi da tempo ha abbandonato l’idea di una cucina classica per sperimentare e tentare di raggiungere la propria entelechia, passando da un totale mutamento di mente, corpo e spirito. Come il lombardo trapiantato in Piemonte Antonio Chiodi Latini che, oltre a essere stato allievo di Gualtiero Marchesi, annovera aperture di diversi ristoranti della cintura torinese, da Ai Nove Merli all’interno del castello di Piossasco passando per Villa Somis e il Ristorante Della Rocca, con Moreno Grossi.
Oggi, nel suo omonimo ristorante in Via Bertola a pochi passi da Palazzo Madama, non avrebbe mai pensato, all’inizio della sua carriera incominciata nel ristorante del padre dove, a dodici anni, lavava i piatti, che si sarebbe trovato a ripensare alle ricette italiane proponendole con il solo uso di ingredienti vegetali. Buttatosi nello studio della cucina vegana e mediante materie prime dall’Oriente, ha iniziato così a sperimentare per comprendere i limiti degli ingredienti: è così che, mediante l’autoproduzione di seitan e tofu, intuisce che nel mondo vegetale il lavoro è molto più ampio e complesso. Per ogni ortaggio studia la migliore tecnica di lavorazione per concentrarne il gusto e proporlo in un’altra dimensione.
Non v’è una letteratura di riferimento, ci sono i suoi esperimenti per comprendere fino a quale punto un vegetale può raggiungere il suo massimo grado di maturazione e curva di evoluzione del gusto. Definita come una cucina vegetale creativa, innovativa, Antonio Chiodi Latini dà una possibilità concreta a chi vuole approcciarsi ad essa: solo a pranzo, dal martedì al venerdì, l’ospite può provare “L’Approdo vegetale”, con percorsi che vanno dalle 4 alle 7 portate. Interpretazioni e intrattenimenti a prezzi contenuti, se si guarda il livello delle preparazioni. Formula che consigliamo di replicare anche alla sera sebbene il ristorante e laboratorio faccia breccia sopratutto in un pubblico straniero di cui, per fortuna, la città di Torino è sempre più popolata.
La piccola cucina a vista si affaccia alla sala per una ventina di posti, in sala c’è la figlia Giorgia, grande appassionata di vini e che propone una selezione di etichette per lo più naturali, birre, infusi e succhi, in una carta chiamata “Aratro”, che rompe la terra, divide le zolle, solleva le polveri e sposta i sassi.
Una cucina basata su una tecnica che si mette al servizio del prodotto, Antonio Chiodi Latini trasforma le materie prime e restituisce piatti che giocano prima sui contrasti tessiturali che sul gusto fine a se stesso. Con un evaporatore rotante ben visibile anche dalla sala – che divide la parte solida da quella liquida – e mediante un liofilizzatore si entra dentro la materia, si “vedono” gli strati. L’obiettivo è sicuramente aprire la strada a un nuovo concetto di cucina, oggi sperimentale, che però trova già molti consensi e felici ritorni al gusto. Ne sono un valido un esempio l’Insalata russa da assaggiare come nel Medioevo, senza posate. Il risultato? Un concentrato croccante di sapori green accompagnato da curcuma e soia. Nel caso del Gusto del mare, la foglia dell’ostrica si avvicina al gusto del kiwi sottostante, al suo interno troviamo mandorle e limone e, sopra, per riformare la cartilagine dell’ostrica, aloe ricoperta dalla fava di cacao poggiata sul pistacchio. Piatto, apparentemente, con uno scopo esornativo per il kiwi, è invece ben riuscito e molto equilibrato nei contrasti acido-astringenti e zuccherini. Tra gli “imperdibili” dello Chef c’è la Rossa francese, il nome del piatto arriva dalla patata vitelotte. Al centro troviamo la buccia, usata come esaltatore di sapori, per la sua parte astringente e amara. A lato, caramello di bergamotto con il tamari, ovvero salsa di soia invecchiata. Il contrasto di gusto è una trama di dolcezze e pungenze morbide, frizioni dolci-amare molto efficaci da un punto di vista mnemonico. Con la Carota in doppia cottura arriva la prima esecuzione che rientra nel campo delle fermentazioni. La carota assume una struttura pari a quella di una patata, la pesca fermentata sopra la di essa accompagnata dalla sua buccia essiccata crea un contrasto dolce-salato rinfrescato dall’uso delle erbe, anche l’artemisia. Tra i primi, c’è il Riso vialone nano della Riserva San Massimo con mosto di mirtillo, a cui fa da contrasto una parte fredda composta da aglio e azoto, un rimpallo caldo freddo per esaltare i sapori e rendere ogni assaggio più definito. Sui secondi colpisce il Cocomero cotto a bassa temperatura con miso e tartufo nero dove, tuttavia, il gusto risulta essere un po’ coperto dalla salsa. Si chiude con una doppietta di dolci, una Meringa con pasta di pomodoro (meringa prodotta con la saporina) coperta da ribes bianco, mirtillo e uva spina, tutto accompagnato da una fiala contenente la parte liquida del pomodoro, e un Sorbetto al Negroni con fiore del crescione e curcuma di grande golosità.
Ha le idee chiare Cesare Grandi e non ha paura di manifestarle. La sua cucina corre decisa verso il risultato, non ti coccola, non ti blandisce, ti colpisce. Ha una passione non troppo nascosta per la Francia e si vede in più di un piatto che figura nella carta (così come dalla affiliazione a Les Collectionneurs, la community di ristoratori coordinata da Alain Ducasse) ma anche un certo gusto esplorativo e per le contaminazioni che gli permette di uscire dai soliti cliché.
La Limonaia è il regno delle acidità – anche se non sempre perfettamente bilanciate – e dell’amaro; di un’aromaticità spinta, mai sussurrata, la cui continua ricerca porta con sé qualche inevitabile reiterazione stilistica, ma qui non c’è noia, le suggestioni sono tante, non c’è banalità. C’è studio, attenzione, ricerca, personalità. C’è una cucina interessante in un ambiente curatissimo, all’interno di un condominio residenziale di Torino, nel periferico quartiere Pozzo Strada. Dall’ingresso, abbastanza nascosto, si accede in un bel giardino – ben sfruttato nella bella stagione – in cui fanno bella mostra di sé le piante di limoni che danno il nome al locale, si passa in una sala dai contenuti estetici davvero preziosi, dove tutto è scompagnato, i tavoli antichi, le sedie, gli scaffali, le lampade di design, tutto molto chic e non si trovano due pezzi uguali.
Uno sguardo alla carta e si capisce che lo chef per esprimere la sua creatività ha scelto la strada più difficile: abbinamenti inconsueti e ingredienti non proprio banali come cuore di vitella, cibreo, anemoni per fare solo qualche esempio.
Regalare stimoli e un’esperienza nuova ai propri clienti: questa la cifra stilistica di Grandi, appesantita solo da un uso eccessivo – a nostro giudizio – dell’elemento floreale presente in quasi ogni portata e da una ricerca ossessiva di elementi aromatici e note officinali che non sempre, bisogna dirlo, trovano la giusta composizione nell’equilibrio complessivo dei piatti. Ma avercene di giovani cuochi così coraggiosi e desiderosi di arrivare percorrendo la propria strada senza compromessi. E così Anguilla, pan brioche alle alghe, rabarbaro, con l’anguilla cotta lentamente sulle braci e quindi unita al rabarbaro candito. Il contrasto acido e pungente insieme della combinazione tra la salsa al rabarbaro e i grani di senape, bilancia la grassezza dell’anguilla. Classico e originale al tempo stesso.
La Tartare di Capriolo, pesca, fragoline e scorzonera è in sé un piatto anche interessante ma viene servito con – a latere – una crema di porcini e tartufo nero di cui non si sentiva la mancanza. Lo Chef c’è tutto nel Risotto alla parmigiana, ragù di cortile e lamponi disidratati, che nella sua semplicità sorprende per l’intensità del sapore e la sapienza della realizzazione. Interessante lo Scampo ricoperto da una sottile “copertina” di nervetti. Accanto, un piatto di insalata e fiori intensamente aromatico. Il timore di presentare qualcosa di banale o che non elettrizzi il palato rappresenta – a nostro giudizio – il limite della cucina di Grandi in questa fase.
Discreta la carta dei vini che spinge molto sui vini naturali, oggi di gran moda. Lo Chef ci sembra sulla buona strada, in particolare ci piace il suo approccio coraggioso e libero da condizionamenti che, una volta eliminate o comunque controllate quelle imperfezioni che derivano qua e là dalla voglia di strafare, potrà portarlo ancora più in alto.