Arriviamo in due alle 19.30 di un venerdì sera di fine inverno. Ci sono tre persone in fila prima di noi, ma ci fanno accomodare immediatamente. Presto svelato l’arcano, scritto a chiare lettere all’ingresso del locale: hanno la precedenza i gruppi al completo.
La musica di sottofondo alterna l’elettronica al minimal e, in un battibaleno, via delle Lame trasfigura nel set di Blade Runner, con più calore, però, restituito non solo dai fumiganti vapori del brodo, ma anche da alcune accortezze, come quella dei lacci per i capelli per chi, avendoli lunghi, si senta limitato nella suzione del ramen stesso, “da consumare velocemente e, come da tradizione, rumorosamente”. Queste le prescrizioni.
Tutto, qui, appare regimentato. L’organizzazione di questo piccolo, urbanissimo ramen bar fila come un orologio svizzero: ci si accomoda, si ordina autonomamente, tramite un menu completo di glossario, tra i cinque ramen, quattro classici più un extra, e cinque appetizer a rifinire la proposta.
Per noi, tofu fritto con zenzero grattugiato, olio al wasabi e cipollotto, spugnoso e croccante e, ovviamente, molto piccante, e lo spicy karaage bao: un panino al vapore ripieno della polpa soda e croccantissima della panatura di un pollo umettato con l’immancabile maionese allo yuzu.
A seguire, il ramen Shoyu toriniku, con brodo a base di soia e sashi tradizionale, pollo sfilacciato, bambù marinato, uovo e alghe e il Kinoko paitan, completamente vegetariano con funghi freschi, germogli di soia, cipollotti, uovo, tufo fritto e alghe. Sapori molto nitidi, riconcilianti col mondo, una panacea dopo una fredda giornata lavorativa. Da segnalare, la curiosa la consistenza amidaceo-viscosa del ramen vegetariano che, nell’insieme, sembrava più sostanzioso di quello al pollo.
Quanto al giudizio, benché più lusinghiero, ci sentiamo di fare un appunto. Chiaramente, qui tutto è concepito per un consumo rapido, prescrizione che non intendiamo biasimare anche perché puntualmente dichiarata. Tuttavia, vedersi consegnare il conto, senza averlo chiesto, alle 20.30 e senza che nessuno fosse in attesa dopo di noi è una di quelle inezie in grado di mettere in discussione l’intera percezione dell’esperienza.
Il Kaiseki è l’espressione più alta della cucina giapponese contemporanea.
Trae origine, in forma semplificata, dall’honzen ryori, il pasto di alta cucina dell’era Momoyama/Edo (tra il 16° e il 19° secolo) e la sua storia è strettamente connessa alla cerimonia del tè, perché nelle sue prime versioni il kaiseki era proprio il frugale accompagnamento (una ciotola di riso, una zuppa e tre contorni) destinato a placare l’appetito per apprezzare al meglio la degustazione del tè verde.
Nel tempo, il tipico pranzo kaiseki si è evoluto nella quantità (nelle sue forme più estese si arriva a quattordici portate) e negli ingredienti (ad esempio il pesce, inizialmente salato per la conservazione, oggi può essere gustato crudo), ma ha mantenuto intatto un aspetto primigenio: il rapporto con la natura. E’ indispensabile prediligere ingredienti stagionali e locali e vanno privilegiati i metodi di preparazione locali con l’obiettivo di mettere il prodotto nella massima evidenza possibile.
Questi ingredienti straordinari devono essere presentati in maniera altrettanto straordinaria, attraverso la loro combinazione in funzione non solo gustativa ma anche estetica con l’utilizzo, per servirli, di stoviglie preziose la cui forma e colore saprà esaltarli ulteriormente insieme alla disposizione degli ingredienti stessi e all’abbinamento con altri elementi naturali (foglie, fiori).
Il tutto con un obiettivo fondamentale: far sì che ogni piatto sia un’immagine di bellezza che si fissi nella memoria.
L’esperienza di un grande kaiseki è uno di quei momenti di epifania rari nella vita di un gourmet, quei momenti che permettono di ridefinire la qualità e il valore della propria esperienza gastronomica e di allargarla con la visione di quali standard possa raggiungere l’arte culinaria.
Da Kitcho nella sua sede storica di Arashiyama, splendido sobborgo di Kyoto, abbiamo avuto modo di passare tre ore di autentico piacere e di godere di un’esperienza reputata anche dai gourmet locali (Michelin inclusa) tra le più sublimi.
Descrivere a parole la bellezza della location è impresa ardua, che sintetizzeremmo con la formula “il sogno di Giappone di ogni occidentale”: una sala privata arredata nella semplice eleganza della casa tradizionale nipponica, affacciata su un giardino zen e posta su una collinetta sovrastante un fiume. Un incanto.
Ogni gruppo di commensali ha la sua saletta, servita da due deliziose signore in abiti tradizionali. Anche il concetto di livello di servizio viene ridefinito da serate come quella passata, perché mai, nemmeno nelle migliori maison provate in millanta peregrinazioni occidentali, è stato possibile incontrare un mix così toccante di sapienza e gentilezza, una cura dell’ospite così radicata da cambiare la disposizione d’animo dell’ospite stesso, permettendogli di godere appieno dell’esperienza.
Il menù è presentato su un foglio di carta impreziosito da schegge di argento e oro e la qualità della cucina proposta non è inferiore al resto dell’insieme.
Lo chef, Kunio Tokuoka, è il nipote del fondatore dello stabilimento, Teiichi Yuki, e lo dirige dal 1995.
La sua idea è di proporre una cucina kaiseki pienamente rispettosa della tradizione ma capace di “armonizzarsi” (come recita nel suo sito) col presente. Compito che gli riesce pienamente.
La sequenza è impressionante per bellezza e bontà, la qualità di ciascun ingrediente è sopraffina ed esaltata da cotture e abbinamenti di rara riuscita.
Colpisce la perfezione di ogni cosa comprese le temperature, nonostante la complessità delle architetture di alcuni piatti e le necessità di servizio connesse.
E’ esemplificativo il piatto di “delicatezze assortite”, momento centrale del menù: la bellezza di questa vera e propria scultura rischia di offuscare la fantastica qualità delle singole componenti del “piatto”, servite ai singoli commensali dopo la presentazione del piatto stesso che viene sporzionato in diretta dalle due signore che si prendono cura del tavolo.
Le uova di salmone fanno giustizia delle palline colorate ammanniteci negli anni dalle nostre parti; l’abalone, per una volta, non è solo lì per la consistenza; il pollo ai semi di cipresso è un gioco di sapori e consistenze indimenticabile; gli scampi, di freschezza commovente, sono esaltati dal moromi miso; le ginkgo nuts, per cui ammettiamo un debole, sono fritte alla perfezione e la “torta” di pesce e uova è la sublimazione di tutte le frittate (tamagoyaki) che usualmente chiudono i pasti a base di sushi.
Viaggiamo nell’incredibile anche sulla parte dolce, soprattutto grazie a un piatto di frutta di qualità inesistente dalle nostre parti (i prezzi di queste meraviglie, vendute nelle città giapponesi in negozi paragonabili senza esagerazioni a gioiellerie, sono altrettanto fuori dal comune); uva (un chicco, rigorosamente sbucciato), pera, melone e fico, sublime, accompagnati da una sorta di zabaione etereo.
A seguire dolci d’impronta giapponese stagionale (con castagne e l’onnipresente composta di azuki) che mettono d’accordo anche chi non apprezza particolarmente questo tipo di pasticceria.
Il pasto è accompagnato dal saké della casa, di qualità altissima.
Un’esperienza formativa, che permette di spalancare un mondo ai fortunati che riescono a prenotare un posto da queste parti. Un mondo che sarà bellissimo continuare a esplorare, nella consapevolezza che una meraviglia come questa esiste davvero.
Granchio blu con vegetali e gelatina d’aceto.
Brodo di luccio grongo con fungo matsutake.
Il primo sashimi: orata.
Il secondo sashimi: buccino grigliato e tonno grasso arrostito.
Piatto di contorno: crema salata con tartaruga dal guscio morbido.
Delicatezze assortite.
Dettagli delle delicatezze.
Il piatto per il singolo commensale.
Piatto grigliato: tile gibboso grigliato, castagna e funghi shiitake. Paradigmatica espressione di sapienza nella cottura.
Piatto al vapore: palla di tofu fritto, zucca, taro (colocasia esculenta) e taccole.
Il riso: riso Koshihikari con funghi matsutake e carne grigliata.
Sottaceti: rapa con salsa di prugna e bonito essiccato; foglie di senape giapponese (mibuna) con sesamo e peperoncini.
Il dessert: melone, pera giapponese, fico e uva.
Il dolce: pure di castagna con composta di azuki; noce in crosta di zucchero.
Tè matcha.
Tè finale con i suoi accompagnamenti.
L’aggiunta che abbiamo chiesto allo chef a suo piacere (provocando comunque un sussulto perché stravolgevamo il percorso): pollo e funghi. La cottura del pollo avvolto da una strisciolina di pelle sottilissima e croccante come mai abbiamo provato resterà indelebile nella memoria.
Se ci fosse ancora bisogno di prove a testimonianza dell’infinita varietà di tipologie della cucina giapponese, tutte interessanti e spesso didatticamente notevoli, ecco quella, significativa, fornita da questo piccolo ristorante del residenziale quartiere di Aoyama.
Le informazioni che lo riguardano sono tutte accomunate dalla generica accezione di “cucina giapponese” e, oltre all’essere tre volte blasonato dalla Michelin, di questo locale poco altro si sapeva.
Ebbene, ci siamo trovati di fronte a una grande cucina tradizionale giapponese, che oseremmo definire casalinga per come i sapori sono presentati con semplicità quasi rustica.
Niente chirurgica efficacia dei maestri di sushi o ieratica progressione della liturgia di una tradizionale cena kaiseki, tanto per intenderci, ma una rassegna genuina e quasi terragna di sapori e ingredienti tipici giapponesi tale da dare la sensazione all’avventore straniero, qui seduto, di essere un autoctono a tutti gli effetti.
Le presentazioni, infatti, sono semplici, essenziali, spogliate da ogni raffinatezza e orpello formale, col chiaro intento di essere rivolte esclusivamente all’esaltazione del gusto, saporite come solo le grandi cucine territoriali sanno essere.
Una salsa al sesamo, un brodo di castagne concentratissimo, il tofu e la zuppa di miso eccezionali, le verdure da coltivazione biologica: sono tutti elementi che compongono un puzzle di notevole intensità gustativa.
Il locale, situato nel piano sottostradale di un edificio molto difficile da individuare, è di spazi ridotti, quasi angusti, come spesso accade nei grandi ristoranti giapponesi ed è caratterizzato da un arredamento minimale.
Una sala principale con quattro-cinque tavoli, una più intima per chi voglia mangiare separatamente e, soprattutto, un servizio commovente per gentilezza, disponibilità, cortesia e tutto quanto possa far sentire a proprio agio un cliente che, nella cultura dei giapponesi, è considerato a tutti gli effetti un ospite.
Dai sorrisi ai convenevoli, fino all’utilizzo di libri e immagini con gli ingredienti dei piatti per supplire all’atavica e strutturale carenza di qualsiasi idioma europeo, tutto viene utilizzato senza parsimonia e con riverente dedizione lasciando stupiti e quasi imbarazzati.
Per un costo, poi, davvero abbordabile, che permette di poter indirizzare qui anche l’ipotetico amico in viaggio in Giappone e a digiuno di nozioni e di specifico interesse per la cultura gastronomica di questo paese, certi che godrà di un’esperienza a tutto tondo soddisfacente.
Mise en place
Crostaceo con salsa giapponese cotto al forno, insalata con salsa di sesamo bianco e con salsa di uva. Ogni elemento preso singolarmente è davvero buono. Magari la combinazione del tutto è un po’ pasticciata.
Sashimi di striped jack fish, zenzero e wasabi, foglia di pepe. Wasabi grattato al momento. Buonissimo.
Pacific saury, luccio sauro del pacifico (un pesce azzurro), rapa, rafano, salsa di soia. Sapidità spiccate, rustiche.
Castagne, panna e latte. Un po’ abbondante. Concentrazione elevatissima. Niente zucchero aggiunto.
Bighand thornyhead, salsa di soia, dashi, e tofu. La piacevolezza di una grande zuppa di pesce non speziata.
Abalone fritto, pera, sesamo e bieta.
Zuppa di miso e riso con patate, foglie di rape, mirin. Veramente ottima.
Fichi, sciroppo di zucchero e fagioli, riso al latte. Che ve lo dico a fare.
Tisana defaticante all’angelica, menta, ginger.
Interno
Sala privata con tatami
Cucina