Se, messi alle strette, dovessimo consigliare un solo ristorante da provare in Giappone tra le decine visitati e, probabilmente, le migliaia che da soli valgono il viaggio, pensiamo che Tempura Matsu a Kyoto potrebbe essere il nostro favorito.
La casa del giovane Toshio Matsuno, oggi alle redini dell’attività familiare, è difficilmente classificabile. Se il nome e il locale fanno pensare a un ristorante di tempura dalla storica conduzione familiare (con lo chef ai comandi ci sono la simpaticissima mamma e l’abile sorella), l’esperienza gastronomica che viene proposta è un kaiseki contemporaneo, originalissimo e al tempo stesso rispettoso delle tradizioni: nella scansione del menu, nella bellezza inarrivabile delle preparazioni e delle stoviglie in cui sono presentate, nella selezione maniacale di una materia prima d’eccezione trattata con sapienza e rispetto.
Lo segnaleremmo, quindi, perché permette di avere un’idea di quanto grande possa essere la cucina nipponica e di quanto rosee siano le sue prospettive e anche perché, dettaglio meno alato ma rilevante, consente di farlo a prezzi molto ragionevoli.
Toshio-san non è lì per caso: oltre a essere erede dell’attività di famiglia ha pensato bene di studiare l’alta cucina internazionale lavorando da Beige di Alain Ducasse a Tokyo. Però, contrariamente a quanto accade spesso, questa apertura alla Francia non va nel senso di snaturare le preparazioni proposte, semmai di poter sapientemente introdurre stimoli nuovi in una tradizione ancora formidabilmente vivace.
La scelta si limita a 3 possibili omakase dal prezzo diverso, non in base al numero di preparazioni, ma al tipo d’ingredienti presenti (nel nostro mancava la straordinaria aragosta che abbiamo visto sfilare, sostituita da tonno e polpo altrettanto eccezionali).
La successione è un insieme di fuochi d’artificio, talvolta per la spettacolarità anche tecnica delle preparazioni, altre volte per l’eleganza indicibile delle stesse e la qualità degli ingredienti che le compongono. Si può parlare delle Seppioline cotte direttamente a tavola in una piastra rovente con ginger e riso o del doppio colpo del riso in abbinamento a Polpo e fiori di sansho (il “pepe giapponese” che per 2-3 settimane l’anno allieta i palati da queste parti con la sua aromaticità unica) o al Tonno e sesamo. O, soprattutto, si può citare la Zuppa dolce di miso con gambero e bambù, che possiamo annoverare tra i piatti più straordinari mai provati negli ultimi anni.
Anche quelli che sembrano divertissement all’occidentale, come i famosi Udon serviti in un cubo di ghiaccio scavato, con un brodo soavemente profumato ai fiori di ciliegio, sono non meno che eccezionali (la consistenza e il “morso” li collocano tra i migliori mai provati anche in Giappone) e mostrano che la voglia di giocare della giovane età non è mai gratuita o inconsapevole.
Anche la proposta di tempura, rispettosa della storia del locale e limitata a 4-5 assaggi tra il vegetale e il pesce, è inappuntabile, con la gioia di osservare i gesti, ripetuti sempre uguali un’infinità di volte, da un sapiente, anziano aiutante.
La passione per la cucina si alimenta, sempre più difficilmente, nel tempo, grazie a esperienze come questa, capaci di sorprendere, emozionare e aprire la mente. Un passaggio da queste parti è una gioia e la nota è solo lievemente arrotondata per eccesso, perché siamo certi che questa sia destinata a essere e restare a lungo una delle grandi tavole del mondo.
Il panorama della ristorazione etnica romana, alquanto statico in sé, riesce sporadicamente a regalare qualche piccolo sussulto degno di attenzione. Il segmento che riguarda la ristorazione giapponese, cui non neghiamo essere piuttosto sensibili, sembra essere in una fase di particolare fermento.
Una delle testimonianze più interessanti risiede dall’estate del 2015 nel piazzale del Verano, dove Atsufumi Kikuchi, già al timone di altri indirizzi romani, ha aperto il proprio locale.
La sala principale, molto lineare, forse un po’ troppo, al punto da apparire quasi algida, presenta il classico bancone con sedute dove è possibile osservare in tempo reale le varie preparazioni mentre si chiacchiera con i propri commensali.
Il menù non è legato solo a sashimi e sushi, presente anche in contaminazioni varie come i california roll, ma contempla anche tempura, carpacci e insalate proposte in grande varietà.
Il raggiungimento dell’offerta presente a Londra o Parigi, dove anche i grandi maestri giapponesi decidono di aprire i loro piccoli atelier in cui proporre la loro liturgica e ultraspecializzata abilità, sembra ancora decisamente di là da venire nella capitale, ma il livello del sushi di questo locale è buono, e con un rapporto qualità prezzo interessante permette di passare piacevoli serate a prezzi alquanto ragionevoli.
Mise en place.
Alghe marinate al sesamo.
Omakase Hana: salmone, ricciola, spigola, gambero cotto, capasanta, gambero crudo, tonno.
Tempura moriawase.
Accompagnamento della tempura: soia, mirin e brodo di pesce.
Insalata Kiko: lattuga, cetriolini, erba cipollina, salmone, capasanta, tonno, ricciola, uova di pesce volante e salsa Kiko (invero un po’ troppo grassa).
Daifuku.
Sakè Kikusui.
Particolare.
Se siete ad Hiroshima per visitare la città, la ragione non può che essere una: la visita al Memoriale e al Museo, agghiaccianti testimonianze dei tragici eventi della Seconda Guerra Mondiale che vide la sonnecchiosa, ora come allora, città triste protagonista di uno dei più efferati crimini dell’umanità.
La visita è indubbiamente toccante e ci riporta con i piedi per terra.
Tastare con mano i reperti e vedere le foto di quel maledetto 6 agosto 1945 ci ha letteralmente stretto lo stomaco, a tal punto da rinviare di un giorno la nostra visita al Tenko Honten, miglior “tempura” della regione a detta della Rossa, che gli assegna un lusinghiero doppio riconoscimento.
Quella che in Italia denominiamo semplicemente frittura, in Giappone è una religione. Passeggiando per le strade delle città giapponesi capiterà di imbattervi non solo in miriadi di ristoranti dedicati al sushi, al ramen, al tonkatsu, ma anche alla tempura (abbiamo preferito questa trascrizione, anche se è frequente anche quella con la n prima della p).
Al Tenko Honten abbiamo avuto l’ennesima dimostrazione di quanto il perfezionismo, che è insito nel DNA dei giapponesi, possa essere applicato alle tecniche culinarie. La ripetitività del gesto, sublimata nel raggiungimento della impeccabilità delle sue sequenze, viene qui elevata ad arte.
Vedere Tenko-san sfilettare, immergere nella pastella e friggere le straordinarie materie prime vale da solo il prezzo del biglietto. Il risultato è davvero ottimo, il gusto delle verdure, del pesce e dei crostacei è ben definito, la pastella, quasi trasparente, aggiunge croccantezza, l’olio è solo veicolo di cottura ma scompare al palato.
Una pecca c’è stata, però. Un probabile errore tecnico ha determinato la rottura dell’involucro della melanzana, visibilmente unta. Avremmo voluto chiederne la sostituzione, ma l’inglese in queste lande è idioma sconosciuto.
È sempre un piacere sedersi al bancone di questi luoghi minuscoli. Pochi metri quadrati, pulizia delle forme e degli spazi, tutto è idealmente incentrato sulla figura del maestro, unico protagonista al fornello. Non ci sono aiuti, se non in sala, dove una gentilissima signora serve con un savoir faire tutto nipponico.
Una sequenza mirabile di una ventina di portate, con apripista un magnifico sashimi di orata e calamaro che neanche a Tsukiji.
Poi la tempura in cui spiccano per bontà la radice di loto, l’asparago e la composizione di funghi, gamberi e capasanta, bocconi prelibati, per poi terminare, come sovente accade con il riso (tendon), la zuppa di miso, i sottaceti ed il tè matcha.
La frutta, come abbiamo già visto in altre recensioni, gioca davvero un campionato a parte. Non è immaginabile nelle nostre lande trovare l’eccezionale sapore di questi Cantalupo, di rara bontà e costo (anche 200 euro al chilogrammo).
Il tutto a prezzi commoventi, per essere in Giappone a questi livelli, anche se la nostra esperienza di viaggio ci ha insegnato che Tokyo e Kyoto sono un unicum, e i conti dei ristoranti sono proporzionati a tale esclusività. Altrove, come ad Hiroshima, fortunatamente per le nostre tasche, la musica è ben diversa.
Insalata, in cui fanno capolino i bianchetti essiccati, molto utilizzati sulle tavole giapponesi.
Sashimi: ricci, orata, calamari. Splendido.
Ci si prepara per la tempura: curry, salsa di soia, rafano e sale.
Zampe di gambero.
Gambero. Dolce e turgido, boccone prelibato.
Melanzana. Leggermente amarognola. Materia fantastica, peccato per l’eccesso di olio, unica pecca di un percorso di elevato livello.
Fungo con capasanta e gambero.
Abalone.
Asparago. Ma che sapore ha?!
Anguilla con rafano e limone.
Agura (?): bivalve giapponese. Intermezzo iodato a ripulire il palato.
Kisso (?)
Radice di loto. Consistenza e sapore. Da mangiarne una decina.
Haze (ghiozzo).
Okura.
Sardina (Ko-iwashi).
Mais.
Megonchi (?).
Anago con rafano.
La carta su cui la tempura è stata poggiata…a fine servizio.
Sottaceti.
Tendon: riso con uovo e tempura di verdure e gamberetti.
Zuppa di miso.
Cantalupo, di gusto inarrivabile.
Pere.
Il Maestro all’opera.
Tra le esperienze da non perdere in Giappone c’è quella di un pranzo in un ristorante di tempura “serio”.
E se a Tokyo questo vuol dire 7 Chome Kyoboshi, già proposto su questi schermi e con le sue tariffe da paura, a Kyoto si traduce in questo Kyoboshi: qualità comparabile per la tempura, inferiore nel cadre e in ciò che tempura non è, ma a un terzo del prezzo.
Il cuore dell’esperienza, la successione di una ventina di divini bocconi, è, infatti, lo stesso e consente anche a chi entra in questo piccolo locale di resettare i propri parametri in materia di frittura.
Il ristorante è alla terza generazione e il giovane chef, Toshinori Sakakibara, è affiancato dalla madre e dalla moglie nel servizio ai sei fortunati che avranno trovato posto e che saranno coccolati per l’intera durata della serata (un paio d’ore benissimo spese).
L’offerta prevede un menù unico che spazia tra terra e mare proposti come tempura: leggerissima, la crosta croccante come difficilmente si può immaginare, racchiude la materia fritta esaltandone gli aromi. Unico accompagnamento il sale, lavorato fino a renderne la consistenza simile a quella dello zucchero a velo, e il limone, posti in due ciotoline; la terza ciotolina che vi sarà fornita contiene invece daikon grattugiato, da mangiare tra una portata e l’altra.
Gli ingredienti sono tutti di ottima scelta e la sequenza non ha sbalzi; si procede con gran gusto tra mini toast di gamberi e ginkgo nuts, carote in guisa di filo telefonico (divertissement bello quanto buono) e fagiolini in equilibrio miracoloso, per chiudere con la patata dolce da immergere nel cognac e nello zucchero, una ghiottoneria memorabile.
Buonissima anche la chiusura del “salato” con la soave zuppa di riso in cui immergere i gamberetti fritti.
Accompagnamento a base di shochu o birra, anche se per i più francofili non mancano un paio di champagne, serviti però solo in bottiglia intera (con i ricarichi usuali da queste parti).
Peccato per il dessert, un gelato di vaniglia con liquore di caffè piuttosto anonimo e servito direttamente dopo averlo preso dal frigorifero, che c’impone una piccola penalizzazione di punteggio a un’esperienza che, comunque, consigliamo caldamente.
Al commiato, la consueta gentilezza nipponica si fa qui ancor più cordiale, grazie alla naturale simpatia di questa famiglia che ricorderete a lungo.
L’ingresso del locale. Attenzione, insegne solo in giapponese.
Il maestro all’opera.
Il sale.
Il daikon.
Toast di gamberi. Si capisce che qui si fa sul serio…
Il pesce è una specie di piccolo merluzzo, il risultato è encomiabile.
Mini baccelli di soia.
Gambero (ci sarà portato a più riprese).
Seppia.
Carote. Occasione per una divertente gag con il cuoco che finge siano cavi telefonici e poi si schermisce ai nostri complimenti.
Peperoncini verdi.
Alga nori (da mangiarne a pacchi).
Radice di loto, tenace e croccante, davvero notevole.
Anguilla con castagne.
Ginkgo nuts, bello spiedino.
Coreografica presentazione per un pesciolino azzurro di commovente intensità.
Merita la copertina questa composizione di fagiolini in equilibrio precario. Croccantezza a iosa.
Mini pannocchia.
La patata dolce…
…zucchero e cognac, per un picco di gourmandise.
Senza pickles i giapponesi non sanno stare.
Riso finale con piacevole contrasto di texture (e gamberi dal sapore intensissimo).
Piccolo passo falso. Un locale di questo livello merita di più.
Il Tempura pare risalire al XVI Secolo, periodo in cui ci furono i primi contatti tra marinai portoghesi, missionari cristiani e il popolo giapponese.
Durante ogni cambio di stagione i cristiani si dedicavano a tre giorni di preghiera e, impossibilitati in quel periodo a mangiare carne, si nutrivano di solo pesce e verdure. Il momento, definito “quattro tempora” (per via del fatto che il rito si ripeteva ogni stagione) diede il nome alla preparazione che per loro venne pensata dai Giapponesi, friggendo in una eterea pastella pesce e verdure, appunto.
Ma sarebbe riduttivo ricondurre a un didascalico evento storico l’esperienza in questo luogo di culto che abbiamo avuto il piacere di visitare.
Incominciamo con il dire che il Tempura non è una frittura. E’ una vera e propria arte di cottura e di pensiero. Ci sentiremmo di definirla un’antesignana della sferificazione di adrianesca memoria. La pastella, eterea pellicola quasi inesistente, è sostanzialmente l’involucro, il sigillante tra la materia prima e il veicolo di cottura.
Con questo artificio si preservano umori e gusto. Il prodotto non perde la sua consistenza originaria, non si ossida, ma miracolosamente cuoce. Ecco quindi un peperone croccante, un gambero suadente, dolce e turgido, un fungo soave e consistente.
Al 7 Chome Kyoboshi, grazie a Sensei Shigeya Sakakibara, originario di Kyoto, è possibile provare la più alta (e la più cara purtroppo…) espressione della tecnica del Tempura. Una ventina di mirabolanti, croccanti ed eteree sferificazioni, che vi allieteranno a tal punto che non vedrete l’ora di tornare a dispetto dei 38.000 Yen (circa 280 euro) che spenderete in questa piccola bomboniera nel centro di Ginza, la Montenapoleone della capitale nipponica.
D’altra parte 9 sono i posti disponibili di fronte al maestro, e quasi mai tutti utilizzati.
Abbiamo già fatto scorrere fiumi di parole sulla maestria giapponese, sul loro concetto di alto artigianato e di applicazione costante al perfezionamento di una sola ed esclusiva tecnica. Osservare Sensei Sakaibara preparare la pastella, controllare la temperatura dell’olio avvicinando lievemente il palmo della mano alla padella, immergere i prodotti e rigirare con le bacchette controllando con attenzione la cottura, con una serenità, decisione e fermezza uniche, è impagabile. Permettendosi anche di scherzare tra una portata e l’altra.
Fantastica esperienza, che consigliamo vivamente a chi si recherà nella capitale del Sol Levante, da non perdere per nessun motivo al mondo.
L’ingresso al settimo piano del palazzo…
L’interno…
La nostra compagna di avventura…
Funghi Matsutake crudi, limone e sale… da urlo.
Il nostro pranzo…
Alghe con gamberi marinati al wasabi.
Il maestro all’opera.
Il primo fritto, l’unico che sapeva di fritto: toast di gamberi.
La consolle di comando di Sensei Sakaibara.
L’etereo gambero.
La fragrante radice di loto.
Daikon e… probabilmente aceto di riso e sakè (il segreto non ci è stato svelato): incredibile.
Patata dolce di Hokkaido.
La seppia, dolce e morbida.
Il peperone croccante e il gambero.
L’uovo di quaglia.
La cipolla.
L’afrodisiaco abalone.
Gambero e radice di zenzero.
L’incredibile e costoso fungo Matsutake.
Gelatina di patata dolce.
Una specie di merluzzo locale con salsa di prugne umeboshi.
L’incredibile fico fritto.
E per finire, sottaceti-fermentati.
Fritto di gamberi e riso.
E il fantastico melone Yubari king, dal costo proibitivo.