La baia di Portonovo è una delle risorse d’elezione per gli anconetani che vogliano concedersi un bagno coccolati da una natura rigogliosa e intatta.
All’interno del Parco del Conero e a poca distanza dalla Torre De Pisis ecco, tinteggiato di un vezzoso celeste, lo chalet aperto da sua suscità Moreno Cedroni nel 2000.
Di giorno la rumorosa folla accalcata sulla spiaggia può approfittare di questo posto per uno spuntino veloce o un pasto informale.
Di sera e al tramonto, con la partenza dei bagnanti, il fascino del luogo aumenta esponenzialmente e offre l’occasione di cenare, praticamente nel mare, in un ambiente di spudorato romanticismo.
La casa madre ha messo a punto quest’anno un menù ispirato a classici della cucina inglese accanto a più storiche sollecitazioni golose, ciascuna segnalata col proprio anno di ingresso in carta, in cui il gusto è affidato a preparazioni ancor più comprensibili e dirette rispetto a quelle di Senigallia.
Alcune rotondità appaiono un po’ esagerate: è il caso della pizzetta con burrata e sgombro marinato o della polentina con vongole cotte e capesante.
La consistenza del riso nel brodetto alla senigalliese ha destato in noi qualche perplessità, mentre il roast beef di tonno con salsa di sedano rapa e la ricciola con alga kombu e alkermes, due piatti scelti dal menù british, risultano assai meglio riusciti e, accennando a un livello di cucina senz’altro superiore, lasciano il rammarico di non aver preso l’intera degustazione dedicata alla perfida Albione.
Il servizio, gestito con garbato e giovanile fermento da entusiasti commis, rende ancora più piacevole la sosta in questa piccola struttura che dà del tu al mare.
La carta dei vini, ovviamente Marche-centrica, spazia in lungo e in largo per la regione e offre la possibilità di bere signore bottiglie di cantine che hanno ben poco da invidiare a molte altre più blasonate.
Si sta bene, molto bene, al Clandestino e una passeggiata dopo cena in riva al mare, nel buio appena rischiarato dalle luci dello chalet, riconcilia con uno stile di vita molto lontano dalla frenesia quotidiana che spesso ci caratterizza.
Mise en place
Roastbeef di tonno salsa di sedano rapa, topinambour al forno, sugo della fettina di carne.
Ricciola, ispirata a una zuppa di alghe del Galles, chiamata Laverbread. E’ cruda, con alga Kombu, salsa al curry e alga nori, gocce di alkermes e sesamo nero.
Carpaccio tiepido di spigola con purè al lime e salsa di rucola.
Pizzetta con sgombro marinato, burrata e pomodorini.
Brodetto alla senigalliese: brodo di pesce, cipolla e aceto, spigola cruda, seppia, gamberi, vongole cotta a 50°, riso susci (cotto al forno col fumetto nell’aceto).
Polentina, vongole cotte, capesante crude, seppia, salsa di prezzemolo.
Baccalà all’anconetana, cotto nell’olio a 70°, patate, pomodori, olive, maionese di baccalà (senza uovo), acqua di lemongrass e polvere di lamponi.
Pan di spagna al cioccolato imbevuto nello cherry, crema chantilly e al cioccolato fondente, gelato all’alkermes, infuso di arancia e zenzero.
Tiramisù, gelato al caffè, crema al mascarpone e gelatina di caffè Borghetti.
Il San Lorenzo di Fattoria San Lorenzo, grande verdicchio.
Baia di Portonovo.
Dieci giorni tra Tokyo e Kyoto per un totale di oltre trenta ristoranti visitati, molti pluri-stellati, qualche locale più semplice e tanto cibo da strada. Un’immersione in un universo affascinante e tanto distante da noi. Non solo fisicamente, ma soprattutto culturalmente. Un popolo, una terra ricca di suggestioni. Quale modo migliore per capire il Giappone se non quello di immergersi nelle sue strade, osservare i comportamenti di un popolo civile ed evoluto, i cui i treni non arrivano mai in ritardo, ma neppure in anticipo.
Città in cui ci sono pochissimi cestini per i rifiuti lungo le strade, perché tutti si portano i rifiuti appresso, pragmatismo ecologico (si riducono i rifiuti prodotti) e organizzativo (non si debbono svuotare cestini che per un qualsiasi imprevisto potrebbero rimanere pieni). E per le strade sono una rarità anche le panchine, qui si corre dalla mattina alla sera, spesso ci si addormenta stremati nei metrò, in sostanza non si spreca il tempo, un bene prezioso come l’aria. In questo paese una richiesta fuori programma, che sia un piatto in più o una variazione su una prenotazione, pone l’interlocutore di fronte all’ignoto, al non conosciuto, all’indecifrabile e all’ingestibile. Tutto sembra perfetto, catalogato, certo e sicuro, anche nella baraonda e nella confusione apparente che affascina durante una visita ai mercati, pieni di rituali a noi sconosciuti, ma ricolmi di civiltà, storia e cultura.
Un popolo si comprende molto meglio osservandolo a tavola, e anche immerso in uno dei nostri compiti primari per la sopravvivenza, vero a qualsiasi latitudine, la conquista del necessario per sfamarsi. Almeno due volte al giorno. E’ atto di sopravvivenza qui svolto, come tutto il resto, in maniera responsabile, attenta, sottile, finanche maniacale.
I mercati ricchi di freschissima materia prima, a tutte le fasce e a tutti i livelli. Solo in Giappone può esserci chi si impegna a coltivare 10 meloni per raccolto, a cesellarne e scolpirne le forme, quasi come un bonsai, per ottenere una stratosferica e straordinaria materia prima, a oltre 100 euro al pezzo. Solo in questo luogo si può incontrare un maestro di sushi che apre 24 tonnetti per sceglierne uno solo, il migliore e il più fresco, che i suoi 6 commensali di quel giorno avranno l’onore di assaporare. I mercati strabordano di verdure e alghe fermentate, componente base per una cucina povera di grassi, sana, ma gustosa e persistente. In cui l’umami è ricercato attraverso mille componenti e sfaccettature differenti.
Qui in Giappone c’è la grande industria, vanto di questa terra, precisa nella sua seriale ed elevata qualità, ma c’è anche la somma espressione dell’arte artigiana, purtroppo destinata – e lo sappiamo bene – a pochi o meglio dire pochissimi eletti.
La ripetitività del gesto, infinita, che qui è considerata maestria. Un solo atto da ripetere e perfezionare per tutta la vita. Al bando la creatività, la variabilità, l’istinto e l’improvvisazione. Qui si è considerati grandi se si persegue per tutta una vita lo sviluppo di un solo gesto, di un solo atto, di un solo e unico modello. All’infinito curato e migliorato, giorno dopo giorno, nei minimi dettagli e particolari.
Ecco quindi emergere i maestri di tempura, che vi doneranno una frittura che non sarete più in grado di chiamare tale. Eterea, praticamente inesistente, che ha il solo significato funzionale di sigillare la materia, semplicemente straordinaria, dal veicolo di cottura, l’olio. Per rendere una melanzana, un fungo, un gambero apparentemente crudo ma al contempo cucinato, dolcemente cullato dal calore, preservando però all’interno dell’involucro tutti gli umori dello stesso. La sublimazione di un atto, come la preparazione maniacale di un pezzo di sushi, in cui tutto è fondamentale. Dalla scelta della materia prima, dalla cura del riso e della sua preparazione, dal confezionamento.
E non stupitevi se voi, quasi attoniti, vi sentirete dire con perentoria decisione che il melone che state acquistando deve essere consumato entro 2 giorni, o che i dolcetti che volete riportare alla vostra amata non potranno essere consumati oltre la sera stessa.
Non dimenticando i riti e ritmi kaiseki, qui scanditi ovunque. Vi pervaderanno con attenzione estrema all’estetica, considerata parte integrante del senso gustativo, mai fine a se stessa. Il dettaglio, la bellezza, che riprende un concetto caro a Marchesi. Ciò che è bello non può che essere anche buono. Estetica e gusto: la bellezza della forma non è mai comprimaria del gusto, ne è struttura indivisibile (principio kaiseki).
In questo paese vige il culto dei dettagli: la bellezza è spesso nascosta. Un fiore, un vaso, uno scorcio infinitesimale di un giardino interrompe la monotonia di cemento in alcune periferie spesso anonime, in cui si incontrano maestri che officiano nascosti in cantine di palazzi grigi, ma che sfiorano l’arte con le loro preparazioni. Senso civico senza pari, rispetto dei codici e dei formalismi, rispetto dell’ospite e massima attenzione al servizio, qui considerato un’elevazione verso il divino.
Un paese, una terra molto affasciante e intrigante, che noi cercheremo di raccontarvi attraverso l’occhio curioso di 6 appassionati gourmet, sperando di riuscire a trasferirvi il senso profondo di questo popolo, della loro cultura e civiltà, attraverso il cibo, fonte di vita primaria ed energia che muove il mondo intero.
Siete stanchi del solito giapponese e vi accascia l’idea di rischiare che la vostra serata milanese si tramuti in un naufragio nel mare magnum delle barchette, delle caravelle e dei transatlantici di sushi e sashimi nei locali della città? Cercate allora di fare in modo che la prossima tappa risol-levante sia allora J’S Hiro, sempre che, qualora foste in macchina, riusciate ad intercettare un parcheggio in un angolo di Milano dove per strada è più facile trovare una banconota da cento euro che un posto nelle strisce blu accessibili ai non residenti.
In questo locale, la cui esigua capienza unita alla robusta fama raggiunta attraverso il tam-tam cittadino rende necessaria la prenotazione, troverete molti fra i piatti che caratterizzano la cucina domestica giapponese, come lo yakimeshi, lo yakisoba o la zuppa di udon con tempura, con riso e pasta a dare risalto a condimenti di verdure, carne e pesce sempre gustosi e decisamente autentici.
In cucina si divertono però anche a giocare con piatti di matrice decisamente italica, ed ecco fare capolino, fra ingredienti filologicamente inappuntabili, tanto le cime di rapa quanto una versione nipponica e aromatizzata al tè Matcha del tiramisu. Nonostante l’evidente volontà di omaggiare il Giappone e alcuni dei suoi piatti meno noti, d’altronde, non c’è da parte della proprietaria Hiromi alcuna intenzione di trasformare il proprio locale in una bomboniera folkloristica; il desiderio di far sentire l’ospite a casa propria caratterizza infatti tanto l’accoglienza, calorosa ed amichevole, quanto l’arredamento, anch’esso poco conforme allo stereotipo del locale giapponese che ben conosciamo. Sorprendentemente, il locale tende a riservare qualche delusione proprio quando invece che sui piatti domestici si punta sul sushi, piuttosto ordinario così come un cirashi di discreta varietà ma molto migliorabile per qualità del pesce e cottura del riso, ed una tempura di gamberi e verdure decisamente sbilanciata verso il versante vegetale.
J’S Hiro rimane comunque uno dei nostri locali di riferimento per la cucina giapponese a Milano, per l’originalità di una proposta non omologata, per la piacevolezza complessiva e per un rapporto qualità/prezzo che tiene lontano ogni possibile rimpianto.
Polpettine di pesce (offerte come piccola entrata).
Zuppa di udon con tempura
Tataki di tonno
Tempura mista
Yakisoba
Il deludente Cirashi
Tiramisu al Tè Matcha
Bavarese di Asuki
..e che non si dica che su questa tavola manca l’acuto…
Recensione Ristorante
Cos’è, in sostanza, la cucina etnica?
Di fatto, riflettendoci ciclicamente su, non ho mai trovato una soddisfacente, univoca e corretta definizione. Forse perché si tratta, probabilmente, di una tacita e assodata convenzione, un puro artificio linguistico, come tanti, dentro cui si è soliti racchiudere tutto ciò che, semplicemente, esula dalle proprie abitudini.
La cucina è fatta bene o meno e risente, oltre che dell’estro e delle influenze cui l’esecutore è stato esposto nel suo apprendistato e nella sua crescita professionale, anche del territorio cui essa è ancorata.
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Recensione Ristorante
Yoshi. Anche qui a milano c’è yoshi, ma non pare proprio uguale a questo qui!
Certo si difende, esprime una corretta cucina nippon-fusion, con qualche contaminazione esterna, anche Italiana. Yoshi è stato aperto dall’ex chef di Armani-Nobu. Yoshi è considerato una tra i migliori ristoranti giapponesi di Milano. Yoshi è un luogo alla moda, addomesticato ai gusti ed ai desiderata del rampante milanese, non disdegnando un pensiero fusion, famolo strano, che piace tanto a modelline, attorucoli, manager in carriera e via di seguito. (altro…)