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Il miglior abbinamento del 2022

Così come per il miglior piatto del 2022, abbiamo tentato di risalire al miglior abbinamento esperito in questo anno solare. Perché se un piatto, da solo, può spalancare mondi, un abbinamento ben riuscito è un virtuosismo, oltre che un raffinatissimo affondo nelle dinamiche della percezione. Ultimo ma non ultimo, l’abbinamento accende i riflettori sulla sala: un sodalizio dal quale nessun cuoco, nemmeno il più creativo, può prescindere.

Ribolla di Josko Gravner e l’Animella ai fiori d’arancio di Alberto Gipponi e Alessandro Lollo da Dina

Non è proprio una novità, ma l’abbinamento proposto da Dina e assaggiato nell’anno corrente, con colpevole ritardo, si è rivelato qualcosa di straordinario per la sensazione che la combinazione cibo-vino crea al gusto e all’olfatto del commensale. Si mangia e si beve in successione. Piatto e bicchiere vengono di proposito serviti l’uno dopo l’altro, evitando di alternare assaggi a sorsi. C’è una infinità di nuance aromatiche che sopraggiungono soltanto dopo aver mangiato l’animella, dal momento in cui si inizia a sorseggiare la Ribolla di Josko Gravner e, in qualche modo, il piatto si completa nel commensale che metabolizza l’ensemble in un continuo allungo tra fiori d’arancio e sentori dolci e balsamici. Una persistenza che è ancora un vivido ricordo. (Leonardo Casaleno)

Viña Gravonia di Lopez de Heredia e Tagliatelle di Fagioli, cozze e trippa di baccalà di Massimo Raugi e Antonino Cannavaccuolo a Villa Crespi

Antonino Cannavacciuolo è anche un grande interprete delle paste. Questa sua, che rivisita molto intensamente la pasta fagioli e cozze di Napoletana memoria, trova un abbinamento splendido con questo intenso e persistente vino spagnolo, Viña Gravonia, ottenuto da uve Viura provenienti da viti impiantate 50 anni lungo il fiume Ebro, a 200 metri di altitudine e su terreni poveri. Il vino viene invecchiato per 48 mesi in botti di rovere usate per non conferirgli un carattere troppo marcato. Vino dal tannino marcato, al naso si scoprono frutti bianchi maturi e una leggera nota di vaniglia, una bocca elegante seppur intensa infine si sposa perfettamente con la pasta di fagioli e la componente ittica e cremosa del piatto. (Alberto Cauzzi)

Kabinett Bernkasteler Badstube 2020 di J.J.Prüm e Melanzana arrosto e caramello di pesca di Gianni Sinesi e Niko Romito al Reale

Un accostamento per assonanza, di precisione millimetrica! (Orazio Vagnozzi)

Barolo Cappellano Piè Rupestris 2014 e Agnello con salsa al mirto e carote di Polignano di Heinz Beck e Marco Reitano

Un abbinamento anche fin troppo classico ma mai così azzeccato, nato casualmente sfogliando una monumentale carta dei vini e benedetto da Marco Reitano, un grandissimo uomo di sala e profondo conoscitore di vino. Il Barolo di Cappellano 2014, annata fresca e ingiustamente sottovalutato, abbinato ad uno dei migliori piatti d’agnello degli ultimi tempi, opera dello chef Heinz Beck, con carote di Polignano e una leggerissima salsa al mirto. (Antonio Sgobba)

Roses de Jeanne La Bolorée e Fetta di pompelmo, una goccia di tabasco, foglia di shiso rosso di Carlo Cracco e Luca Sacchi da Cracco

Esattamente al centro del menù degustazione, passaggio neppure in carta, invenzione dove si vede il valore del cuoco nello scandire, in spirito e gusto, la transizione tra i due atti dell’opera. Cosa si beve con questo? Difficile dirlo. Ma avevo davanti un Roses de Jeanne La Bolorée (Cedric Bouchard ne fa un migliaio di bottiglie all’anno, 100% Pinot Blanc, vigne di oltre 50 anni, radicate su terreno ricco di calcare, un quattro anni d’affinamento su lieviti indigeni). Che si beve su quel semplice brillante intermezzo? …vado… Le vedete le scintille? (Gianni Revello)

Lepre à la Royale di Enrico Crippa e il Barolo Bussia 2017 di Ceretto del Maître Davide Franco e dell’head sommelier Jacopo Dosio

Un grande piatto della tradizione francese sapientemente interpretato da Enrico Crippa abbinato ad un grande vino del territorio ancora giovane, con un tannino moderato ma molto elegante che si sposa alla perfezione con il piatto. (Davide Bertellini)

La Marinara del pescatore di Filippo Venturi e il Palome di Luca Nuzzoli

Un giovane talento dell’arte bianca (Filippo Venturi) che sta muovendo gli interessi di larga parte della critica, un barman di grande abilità (Luca Nuzzoli) che sperimenta miscelati da abbinare alle pizze. Nella Marinara del pescatore il profumo intenso ed elegante dell’aglio di Voghiera si mischia con la salinità delle acciughe del Cantabrico e la dolcezza del San Marzano e dei datterini rossi. In abbinamento, “Palome”, Tequila, lime e bergamotto, bitter al sedano, agrumata Baladin: acidità e freschezza a mitigare la sapidità della pizza e prolungarne il gusto. (Roberto Bentivegna)

Mosnel Riserva 2008 e Agnello e melanzane sotto cenere di Cristian Torsiello all’Osteria Arbustico

A opera di Cristian Torsiello, sommelier dell’Osteria Arbustico, un abbinamento magistrale: provare per credere. Non facile, preparazione ricca di nuance affumicate e di una certa grassezza, il tutto risolto brillantemente con una bollicina italiana di gran classe che pulisce e sferza il palato allungando incredibilmente in bocca i sapori del piatto (Giovanni Gagliardi)

Empreinte 2021 di Alain Robert e Petto d’anatra, arancia, finocchio e aneto di Gianmarco Dell’Armi e Davide Coletta da Materia Prima

La mineralità del vitigno e la sua peculiare territorialità non si limita ad accompagnare il petto d’anatra. L’abbinamento rappresenta un valore aggiunto al piatto; il binomio che il vino crea con l’arancia di guarnizione esalta la carne, amplificandone e trasformandone il gusto. (Valerio De Cristofaro)

Chambolle Musigny Laurent Roumier 2017 e Spaghetti affumicati con aragosta e limone d’Amalfi di Domenico Magistri e Valentina Bertini alla Langosteria

La Langosteria, in tutte e sei le sue declinazioni (Cucina, bistrot, café…), è un caposaldo quando si parla di pesce. La materia prima è di qualità suprema e le preparazioni sono pressoché perfette. Piatti per lo più semplici, appartenenti alla tradizione marinara, che, tuttavia, sono riattualizzati con sapienza e senza eccessi. Iconici in questo senso gli Spaghetti affumicati con aragosta e limone d’Amalfi, rotondi e confortanti, ma con quel guizzo in più donato dal sentore fumé. Ideale, poi, l’abbinamento con il 100% Pinot Nero di Laurent Roumier, che con la sua struttura agile non sovrasta mai il crostaceo. (Adriana Blanc)

Meursault AOC 1995 di Robert Ampeau et Fils e Passatello, brodo ghiacciato di carciofo, menta, limone e parmigiano di Alessandro Lollo da Dina

L’apice di una serie di abbinamenti straordinari concepiti da Alessandro Lollo per il menù “I’M PASTA” di Aberto Gipponi. Un piatto che, di primo acchito, potrebbe sembrare impossibile da affiancare ad un vino (una nota amara molto importante, l’astringenza, la menta ad aumentare la difficoltà…): invece, il Meursault di Robert Ampeau & Fils riesce nell’impresa, grazie alle note di menta e a quella componente burrosa dei borgogna del passato, capace di smussare l’amaricante. Memorabile. (Claudio Marin)

Il vino della Volta de La Stoppa e il Diaframma e nocciola di Antonio Ziantoni

Confesso che ho peccato. E lo confesso nel senso che non si tratta di un abbinamento concepito a monte, ma immaginato solo successivamente dalla sottoscritta. Il Diaframma e nocciola di Antonio Ziantoni, qui in asilo al Cavallino, di Modena: un piatto tutto all’insegna di una succulenza ematica molto fondente e torrefatta, a cui il vino passito de La Stoppa – arrivato solo in seconda battuta, ahinoi, col dolce – restituiva tutta la bellezza carnale e istintuale. Una ulteriore conferma della versatilità dei vini dolci, quando non si limitano a esser solo dolci, appunto, ma si aprono a tutto l’universo delle provvidenziali durezze. (Leila Salimbeni)

Vin Jaune 2000 di Rolet Père et Fils e Torta di carciofi, parmigiano e tartufo con salsa perigourdine di Mauro Colagreco e Benoît Huguenin al Mirazur

Lo Chef Mauro Cologreco conclude la parte salata del menù degustazione, a tema floreale, con una splendida torta di carciofi, parmigiano e tartufo nero. Il piatto, decisamente gourmand, è sorretto ed arricchito da una concentratissima salsa perigourdine, al tempo stesso smorzato da una più fresca al limone nonché accompagnato da un calice di Vin Jaune, con le sue classiche note fortemente ossidative che donano un sorso complesso, strutturato ed intenso perfettamente complementare alla portata per un risultato che non può non rimanere a lungo impresso nella memoria gustativa del commensale. (Gherardo Averoldi)

Gattinara 2018 di Cantine Nervi e lo Spaghetto freddo con gazpacho di pomodori verde, scampi e plancton di Massimiliano Musso al Ca’ Vittoria

Un abbinamento azzardato, ed è estate tutto l’anno, con un nebbiolo prodotto in Alto Piemonte nel 2018 da Cantine Nervi anzi prima annata come Conterno, il Gattinara, con i suoi tannini fibrosi e più ampi spingono lo Spaghetto freddo con gazpacho di pomodori verde, scampi e plancton di Massimiliano Musso, Chef di Ca’ Vittoria nella Villa settecentesca a Tigliole d’Asti. L’alchimia non è data da un impeto creativo ma da una consapevole ricerca di freschezza e potenza dei gusti che, con un effetto venturi, arrivano con grande piglio. (Erika Mantovan)

Buttafuoco Bricco Riva Bianca Picchioni e la Pecora di Anguillara in tre servizi di Andrea Rossetti e Filippo Pojana all’Osteria V

Andrea Rossetti dell’Osteria V va in scena con i tre passaggi sulla Coscia di pecora di Anguillara. La tartare accompagnata dal chawanmushi emulsionato con l’acqua di fasolari. Il secondo servizio  con lo stinco sfilacciato e reso in croccanti chips, adagiate su purè al cui interno vi è, come il più classico tra dipping, il fondo di pecora vibrante e potente. Infine, lo Shabu-shabu in brodo di formaggio Vezzena schiude le porte alla masticazione, lubrificata dalla leggerezza del brodo, in temperatura sapientemente tiepida. L’abbinamento enoico scelto dai Pojana bros’ è il Buttafuoco Bricco Riva Bianca di Picchioni. Nulla di anticonvenzionale o fuori dal coro, bensì un’etichetta che che nel suo blend di croatina, barbera e unghetta di Solinga sa spaziare dalla freschezza del frutto rosso fino al solco di orme torrefatte. La costante? La nota balsamica presente, salda ma mai stonata ad accompagnare questa piccola gemma dell’Oltrepò Pavese. (Giacomo Bullo)

Tokaji Aszú 6 puttonyos 2013 di Szepsy e la Tarte tatin con gelato di Norbert Niederkofler e Lukas Gerges al St. Hubertus

Raramente mi affido all’abbinamento sia perché amo scegliere da me le bottiglie che mi accompagneranno durante il pasto, sia perché spesse volte il pairing non viaggia allo stesso livello della cucina (e ciò accade purtroppo anche in locale con molti blasoni…). Ovvio, le lodevoli eccezioni ci sono, Enoteca Pinchiorri in primis, con Alessandro Tomberli che si conferma fra i maestri di riferimento. Altro luogo ove sempre mi affido alle mani del sommelier è il St. Hubertus (hotel Rosa Alpina, San Cassiano, Badia, Bz), il ristorante della famiglia Pizzinini ove officia l’eccelso Norbert Niederkofler. Qui il poco più che trentenne Lukas Gerges si dimostra capace, ogni volta di più, di pianificare un grandioso percorso fra grandi etichette: una marcia che passa dall’Italia alla Francia, dalla Germania all’Austria, dalla Spagna al Nuovo mondo. Segnalo, fra i tanti sponsali proposti, quello fra la celebre (e per me irrinunciabile) Tarte tatin con gelato del cuoco altoatesino e un grande Tokaji Aszú 6 puttonyos, prodotto da Szepsy (annata 2013). Con la sua glicerica avvolgenza, la bella acidità (spalleggiata da una sostenuta mineralità), l’enorme spettro aromatico questo Tokaji accompagna, sostiene e avviluppa in modo magistrale il boccone ove predominano l’acidità della mela, la dolce amarezza dello zucchero caramellato e l’escursione termica acido-dolce del gelato. (Gianluca Montinaro)

Riesling Mosel 1994 e i Tortelli con crema pasticcera salata, riduzione di vermouth e artemisia di Federico Pettenuzzo a La Favellina

Un primo piatto travestito da dolce, o viceversa. Assai goloso nell’abbraccio tra la crema e il Parmigiano, a cui la nota amaricante della riduzione al vermouth ha donato una lunghezza rilanciata dal Riesling in grado, al netto dell’età, di manifestare una freschezza impressionante. (Gianpietro Miolato)

Chenin La Roche Bezigon di Jean Christophe Garnier e Ostrica, olio di levistico e granita all’acetosella di Atsushi Tanaka

Se nei piatti che vengono serviti, c’è un intero universo di sapori ed aromatiche intense ma mai predominanti come nel caso del menù di A.T. di Atsushi Tanaka, a Parigi, il compito del sommelier non è di certo dei più semplici. Ostrica, olio di levistico e granita all’acetosella, è un piatto con un intenso profumo di piselli freschi e prato appena tagliato, il gioco di caldo freddo aumenta il piacere della sensazione citrica e vegetale che in bocca si è sposata a perfezione con un Chenin Blanc La Roche Bezigon di Jean Christophe Garnier. (Marco Bovio)

Matos Nonet Venezia Giulia IGT Bianco Selezione Limitata 2016 Parovel e il Risotto al Plancton all’Aqua Crua

Presente nel menù degustazione “Iniziazione 1” è fra i piatti che di più hanno contribuito a portarlo al traguardo della stella Michelin parecchi anni or sono, un piatto che dimostra la fantasia e vitalità della Chef. L’abbinamento prima si gioca sulla struttura, il risotto mette in campo una struttura densa e compatta, quasi grassa accentuata dalla tendenza dolce del riso, il vino tiene testa al piatto e dopo la deglutizione ritornano assieme in un altalena dove sembrano giocare assieme. Ma la parte più interessante viene qualche secondo dopo, quando la parte aromatica del risotto, zenzero, plancton alga tostata giocano con quella del vino quasi a ricordare un tuffo nel mare, un gioco di iodo e salsedine bellissimo, inusuale. (Angelo Sabbadin)

Lambrusco di Sorbara Rosé 2017 di Cantina della Volta e Risotto ai crostacei, corallo di gamberi e katsuobushi di Salvatore Morello all’Inkiostro 

Un’esplosione di piacere. L’acidità del sorbara, agrumata e perentoria, incrocia qui le sue pulsioni con un piatto che tende più all’avvolgenza, alla rotondità, alla ‘lentezza’, scatenandone la vivezza e innescando accensioni prima agrumate, poi fruttate, infine, salino-iodate. Imperdibile. (Vania Valentini)

I Pici con clorofilla mantecati al ragout di agnello della Val di Funes e il Petruccino 2017 di Podere Forte

Il piatto più coinvolgente con il quale abbia avuto la fortuna di abbinare un vino. La scelta è andata per l’abbinamento con il Petruccino 2017 prodotto da Podere Forte in Val d’Orcia. Sangiovese in purezza da un vigneto giardino curato in regime biodinamico e lavorato da un giovane francese ed i suoi cavalli. Stupisce l’aroma mediterraneo di timo, maggiorana e lavanda per poi avvolgere il palato con una setosità inaudita, una frutta nera piccola, matura ma croccante, e un finale di una leggera nota muschiata. Menzione speciale per Marika, maître sommelier del Tyrol Hotel di Selva Gardena, al Suinsom da più di cinque anni. Nasce in un piccolo paese della provincia di Verona e diventa sommelier a Londra attraverso bellissime esperienze in ristoranti stellati quali l’Orrery, Murano e Tamarind a Londra per più di dieci anni attraverso il percorso WSET. Il suo libro dei vini racconta la sua passione per lo Champagne, la grande amicizia con i piccoli produttori dell’Alto Adige, la dinamicità della Toscana di oggi e di ieri e la bellezza del patrimonio ampelografico italiano e straniero con più di mille storie di vino da ascoltare. (Eros Teboni)

Una filosofia totale

Che sia il St. Hubertus dell’hotel Rosa Alpina (Badia, San Cassiano) il palcoscenico principale della magistrale cucina di Norbert Niederkofler è noto. È lì, nella raffinatissima struttura della famiglia Pizzinini, che è nata e ha preso forma quella filosofia – nota come “Cook the mountain” – che ha reso celebre nel mondo il cuoco altoatesino. Ed è sempre lì che Niederkofler, anno dopo anno, ha affinato i principi teorici e i dettami tecnici, scoprendo infine – perché “Cook the mountain” è stato un “percorso“, come ammette lo stesso Niederkofler – che non solo di mera cucina si trattava ma di una forma “di pensiero e di azione” (ci scuserà d’Annunzio se prendiamo a prestito questa sua formula) che aveva, e ha, a che fare con il nostro approccio al mondo che ci circonda.

Sicché, almeno per il nostro Niederkofler, “cucinare la montagna” non significa spadellare da mane a sera patate e altri tuberi, chiudendosi in un piccolo universo fatto di stolido tramandamento. Ma passare da un’azione meccanica, quale è quella del cucinare, a una prospettiva di pensiero: “cucinare la montagna” significa quindi prendere coscienza della “natura intorno a te“, dei suoi abitanti, dei suoi cicli, delle sue forze, delle sue debolezze. In una parola, del suo ecosistema. Accettandolo. Rispettandolo. E prendendosene cura. Care’s, per l’appunto… Ripensare la cucina attraverso la montagna (ma potrebbe essere anche attraverso il mare, piuttosto che attraverso la pianura…) significa per Niederkofler tutelare il territorio e, attraverso ciò, contribuire a una crescita sostenibile dell’intero pianeta.

Rimanendo sul piano strettamente gastronomico-alimentare di Cook the mountain (benché l’aspetto filosofico e quello culinario non siano scindibili) l’utilizzo di prodotti locali, biologici e di stagione (“la natura è la mia dispensa naturale – dichiara il cuoco altoatesino – la migliore che potessi avere“), la riduzione al minimo possibile degli scarti e il sapiente utilizzo delle tecniche di conservazione (fermentazione su tutti) hanno permesso a Niederkofler di tracciare uno stile di cucina del tutto personale e identitario. Rinunciando sì ad alcuni ingredienti molto italiani (come, per esempio, l’olio extravergine, sostituito dall’olio ricavato dai vinaccioli) ma riportandone in auge altri ormai da tempo relegati ai margini. Non si pensi però al nostro cuoco altoatesino come l’eremita della montagna, perso dietro vacui sogni ambientalistici. Tutt’altro. È una natura «con l’uomo dentro» (Roger Scruton) quella di Niederkofler: e a testimoniarlo c’è il suo ultimo libro, “Cook the mountain”. The nature around you (München, Südwest, 2020, 2 voll., 396 pp.; 160 pp., 98 euro), peraltro stampato su cartamela, ottenuta dagli scarti delle mele, nel quale ci sono sì alcune decine di ricette ma che è soprattutto dedicato a illustrare il paesaggio alpino, raccontandone l’evoluzione della vita rurale e presentando alcuni dei suoi ‘eroici’ produttori di materie prime (agricoltori, allevatori, casari…). Perché, per il futuro del pianeta, sarà comunque l’uomo a fare la differenza, con i suoi comportamenti e con le sue scelte.

A Plan de Corones

Alpinn è un luogo che, per la sua forza evocativa (il panorama ha pochi eguali – Brunico, tutta la Pusteria, le vette di confine… – e lascia davvero a bocca aperta), ben rappresenta lo scenario nel quale si muove Niederkofler e ove prende forma il suo Cook the mountain. Ma è pure testimone di quanto sia per lui importante che la nuova generazione raccolga il suo testimone. Non è una novità: Niederkofler ha sempre creduto nei giovani, perché a loro spetterà sempre più prendersi cura del pianeta, guarendolo dalle ferite che le precedenti generazioni gli hanno inferto o che, quantomeno, non sono state capaci di curare. Giovani ai quali il cuoco altoatesino ha lasciato spazio nelle cucine (bastino due nomi, entrambi di estremo valore: Michele Lazzarini prima, e Mauro Siega ora) e nella sala (in Italia ci sono pochi professionisti del calibro di Lukas Gerges…) del St. Hubertus.

E pure quassù, all’Alpinn, ove Fabio Curreli mostra notevole capacità tanto nel proporre alcuni dei piatti storici del maestro (menù “Cook the mountain“, a 85 euro) quanto a declinare la filosofia in un suo più personale percorso di degustazione (menù “Alpinn“, a 75 euro). Percorso, quest’ultimo, che si dispiega lungo una linea stilistica netta e ben percepibile, basata sulla ricerca di un’ampiezza espressiva la più ampia possibile. I piatti, più che distinguersi per tecnica o complessità negli abbinamenti, tendono a presentarsi in modo lineare, quasi understatement, rivelandosi poi sorprendenti dal punto di vista della complessità aromatica, gustativa, di consistenza e di temperatura. E dipanandosi, l’uno dopo l’altro, lungo un filo di pulizia concentrato, ma non celebrale, sostenuto da lievi accenti amarotici forniti dagli ingredienti vegetali (per esempio la bieta e le coste). Sono poi le erbe aromatiche (aneto, acetosa, fieno…), le differenti texture (avvertibili soprattutto nel Ceviche di montagna e nell‘Orzotto) e l’utilizzo di elementi con calori differenti all’interno della stessa pietanza (come per il ribes ghiacciato nei Fusilloni con salsa di selvaggina) a donare ai piatti una vividezza raffinata e invidiabile. E che va ben oltre le aspettative.

Il servizio, ad Apinn, affidato a giovani sorridenti, è attento e informale al contempo: capace da un lato di mostrarsi all’altezza della cucina, e dall’altro di mantenere comunque una bella atmosfera da rifugio alpino. A rendere ancor più piacevole la sosta anche la carta dei vini (costruita con l’aiuto di Gerges, e si vede!) che, presentando una scelta più che buona (con un focus particolare sulla produzione alpina), permette certo di trovare la giusta bottiglia.

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Cook the Mountain

Non può che essere “Cook the Mountain” il titolo della recensione a proposito del ristorante St. Hubertus di San Cassiano, all’interno dell’Hotel Rosa Alpina (oggi partner della catena internazionale Aman), incastonato tra le splendide montagne della Val Badia. Pochi, infatti, sono i ristoranti al mondo col medesimo grado di fedeltà alla propria filosofia e con una così spiccata immedesimazione tra cucina e territorio. Per cui il motto “Cook the Mountain”, coniato dallo stesso Norbert Niederkofler, è il perfetto riassunto di tutto ciò.

La storia parte da molto lontano, da semplice ristorante-pizzeria dell’albergo, evolvendosi progressivamente in ristorante gourmet pensato per una clientela sempre più internazionale e di alto profilo, fino alla drastica decisione, presa nel 2011, di eliminare tutti i piatti basati su ingredienti non autoctoni per concentrarsi su tre elementi che diventeranno i punti cardinali del nuovo progetto: territorialità, stagionalità e, soprattutto, nessuno spreco. L’obiettivo è stato negli anni pienamente raggiunto e il risultato costantemente raffinato con una cucina che da un lato resta sempre pienamente fedele alla filosofia di fondo, rispettando in maniera quasi religiosa i predetti principi, dall’altro unisce golosità e ricchezza a una grande eleganza e freschezza, data da un sapientissimo uso delle innumerevoli erbe e bacche di montagna presenti nel corso della degustazione, il tutto presentato con un’estetica minimale, di chiara ispirazione nordico-scandinava.

The Nature Around You

Il menù (unica opzione disponibile), dopo una serie di amuse bouche di grande impatto, come la Tartelletta di cipolla, sangue di maiale pastorizzato, formaggio BergGenuss (stagionato dentro un vecchio bunker della prima guerra mondiale) e la Bruschetta di bernia (carne di pecora frollata marinata con sale, vino e spezie), entrambi caratterizzati da sapori decisi e da grande intensità gustativa, vira immediatamente verso due piatti di rara eleganza, paradigmaici della cucina del St. Hubertus, e divenuti veri e propri classici.

Il primo è l’Insalata dell’orto composta da più di 30 tipi di erbe e fiori autoctoni raccolti giornalmente e condita con una kombucha di sambuco nella quale si alternano continuamente note balsamiche, amare, floreali e ogni boccone risulta diverso dal precedente, complice anche l’acidità della kombucha e del succo di erbe e mela, da sorseggiare in accompagnamento: in poche parole, la montagna in un piatto. Segue quindi la Tartare di coregone condita con una salsa tiepida ottenuta dalle carcasse del pesce stesso e vino terlano, leggermente acida e dalle note erbacee, con le squame a dare croccantezza in uno splendido gioco di consistenze e temperature; piatto che evidenzia più di ogni altro il rispetto per la materia prima nella sua interezza, senza alcuno spreco.

Tra gli altri highlight presenti in menù si segnalano in particolare la golosissima Anguilla porchettata, con lardo, laccata alla soia accompagnata dal suo brodo affumicato, piatto dagli evidenti rimandi giapponesi realizzato con una materia prima strettamente locale e il Ditalino di farro con estratto di selvaggina, bacche di crispino e radice imperatoria, ma senza dimenticare la Lingua ai mirtilli rossi in cui l’intensità e la concentrazione del fondo di verdure viene splendidamente smorzato e al tempo stesso esaltata dall’acidità del mirtillo.

Il reparto dolci inizia con il fresco gioco di texture dello Yogurt e ribes con topinambur e sambuco per giungere a una imperiosa Tarte tatin, pur terminando con il Buchtel da intingere in una crema di cera d’api: una pasticceria conclusiva che qui risulta essere tutt’altro che “piccola”.

Nota di merito, infine, a una sala che unisce rigore teutonico e calore italico, magistralmente gestita dal maître ed head sommelier Lukas Gerges, che amministra pure una carta vini di rara profondità.  Unico appunto che, a questi livelli, crediamo sia lecito fare, verte sulla staticità della proposta gastronomica, non prolifica come dovrebbe in termini di inventiva, la quale, anche considerata la scelta di proporre un unico menu degustazione, dovrebbe investire maggiormente, almeno ogni anno, su creatività e sperimentazione.

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Norbert Niederkofler: l‘incantatore della Val Badia

Norbert Niederkofler s’è formato dapprima nel Nuovo Mondo e poi in giro per gli stellati di tutta l’Ecumene. È stato questo peregrinare rapinoso e disorientante che, negli anni della prima globalizzazione, ha determinato per lui un ritorno in patria coinciso nient’altro che con l’esigenza – non decidibile, non tacitabile – di casa: una casa che era, allora come adesso, la montagna e l’urgenza di introiettarla, questa dimora estrema, sostituendo il particolare all’universale e farne teoria e finanche filosofia con Cook the mountain e Care’s e, pratica, al St. Hubertus

È la montagna, del resto, la responsabile del genio di Norbert Niederkofler nonché colei che ricorda all’uomo che ogni genius è prima di tutto genius loci diventando, della cucina, sia l’immaginario che il quotidiano. È solo così, del resto, che gli ingredienti acquisiscono una freschezza propria, tenera, virginale: quella delle cose appena nate. Come le erbe, in particolar modo, di cui questa cucina tanto si nutre quanto è nutrita e da cui mutua una vita intima, rizomatica e ariosa, ossigenata e rigenerata dalle altezze anche quando si tratta di sottosuolo o sottobosco come nel caso dei funghi e delle radici.

E non senza l’ausilio delle mani sapienti dell’head chef bergamasco Michele Lazzarini, già lodato anche in passato, che è uno dei talenti più brillanti del St. Hubertus: è anche grazie al lui, infatti, se l’elemento vegetale, in qualsiasi forma, diventa un protagonista capace di spartirsi, con pochi altri elementi, l’intera forza e l’efficacia del piatto. Accade con la salsa di nasturzio che accompagna il cervello nonché col brodo di anguilla dell’anguilla stessa, qui porchettata. Peraltro nell’impianto ergonomico di questo piatto si manifesta una seduzione importante, e assai ricorrente: quella verso una fruizione brutale, preistorica della cucina che cela anche l’invito, invero esplicito, a un rapporto non mediato col cibo, da esperire direttamente, con le mani.

Una frugalità di stampo classico

Tra gli elementi ricorrenti della cucina del St. Hubertus, poi, c’è l’acidità: che non significa necessariamente freschezza o, comunque, non solo. Perché tutto il repertorio delle acidità possibili è frequentato con assoluta disinvoltura da Niederkofler, che dimostra di esser capace di integrare ogni acuto e contestualizzarlo sempre forte com’è di un retaggio capace di conciliare l’elemento più classico, o più alto, col bruto (o col crudo). Tutta la sua cucina, anzi, potrebbe esser concepita come l’ambizione a una dimensione rustica e frugale dell’esistenza da parte di un cuoco con solide basi classiche d’impronta smaccatamente francese.

Peculiari i primi piatti che sono, ciascuno a modo suo, un piccolo calembour: fruttato di uva spina lo spaghetto freddo; umami slanciato il risotto, dove la spinta casearia, non paga di se stessa, viene rinvigorita e forse anche sdrammatizzata dalla verve della colatura di coregone. Quanto ai ditalini, formato di pasta comfort per antonomasia, questi accolgono una seduzione conturbante: quella ematica e deliziosamente borgognona dell’estratto di selvaggina.

Si torna dunque all’incanto della dimensione agreste e bucolica con la trota alla mugnaia e, soprattutto, con la carota, laccata fino alla torrefazione.

Perché dal raccolto alla casseruola, e questo Norbert lo sa bene, passa tutta l’italianità in cucina e ciò è tanto più vero a queste latitudini, dove tecniche come la fermentazione diventano mandatarie visto che la terra si chiude, diventando inaccessibile all’uomo, per oltre cinque mesi l’anno. Da qui la necessità della circolarità dell’economia: tutto quanto arriva nel piatto, infatti, arriva da un mercato di prossimità che si materializza in oltre 500 tra verdure, erbette e funghi, mentre dagli allevatori locali si comprano solo animali interi al fine di propiziare una competenza che, del sacrificio dell’animale, sappia celebrare tutto e vanificare nulla.

Una competenza che diventa un trionfo nel maialino dai rimandi fusion e nei ribs di agnello straordinari nella cremosità delle carni, al punto da sembrare bolliti. Una consistenza struggente e misteriosa, ulteriormente enfatizzata, ton sur ton, velluto su velluto, dalla potentissima zuppa di funghi vellutata dalla finitura, una schiuma di fungo a terminare la carrellata dei salati.

E proprio questa chiusura ci accompagna felici ai dolci, in una carrellata tra le migliori mai assaggiate: un crescendo di classicismo condito con sapienti interpolazioni fino al gran finale della imperiosa, definitiva tarte tatin.

La galleria fotografica:

“Siamo una squadra fortissimi”, a San Cassiano

Il titolo può far sorridere, ma sottende una verità neanche molto nascosta di grande profondità. Lo chef Norbert Niederkofler è un grandissimo scopritore di talenti e un allenatore fantastico, paragonabile a Josè Mourinho per intenderci. Dopo la massima investitura, invece di rinchiudersi in autocompiacimento egotico ha intelligentemente esaltato e amplificato le sue doti di capitano e uomo squadra. Con tanta intelligenza e umiltà. E, al St.Hubertus, ha creato attorno a sé una squadra di tutto rispetto sia in sala che in cucina. Tutti giovanissimi, tutti agguerriti, tutti molto preparati. E, sotto la sua ala protettrice, li sta facendo crescere a dismisura dando loro libertà d’azione, consigli, metodo, esperienza, e pure un filo di controllo.

St.Hubertus: cook the mountain

Il risultato? Semplicemente eccezionale. Al fianco della sua esperienza, del suo talento e della sua conoscenza uno stormo di idee fresche, di stimoli innovativi, di energia positiva. Che traspare nei piatti così come nel servizio. La filosofia “Cook the mountain” è stata estesa e potenziata e, di fatto, ogni anno subisce un’accelerazione improvvisa e intensa. Piante, fiori, erbe e radici spontanee la fanno da padrone in piatti in cui regna sovrano l’ingrediente autoctono. Le preparazioni si fanno sempre più intense e pervasive e, pur trattandosi di un ristorante che deve accontentare i palati più disparati, non ci scorderemo tanto facilmente della nota amaricante dei Ravioli e buon enrico, ovvero con lo spinacio selvatico: un colpo da maestro che fa lievemente impallidire, ma non soccombere, il Cuore di vitello con una salsa magistralmente acida, vegetale ed intensa e una Alzavola selvatica da tripla capriola carpiata.

L’immensa Tartare di coregone, ancora migliorata ed evoluta, e l’Insalata di montagna, cangiante e profonda come non mai, sono il contraltare degno di una pasticceria e una panetteria che, dopo il congedo del grande talento di Andrea Tortora, non ci saremmo aspettati essere così rilevanti e interessanti. Un ristorante che, oggi, conferma la sua valutazione in pieno, pronto prossimamente, se continua così, a traguardi ben più importanti. Anche perchè questa filosofia e questo intenso profumo pervadono tante preparazioni in momenti differenti della stagione. Tanti piatti cambiano in continuazione.

I due dessert Latte di capra, fragole e rabarbaro e fior di castagno e ricotta di capra, ci hanno colpiti ed affondati totalmente. Quest’ultimo, soprattutto, moderno, fresco ma con una profondità gustativa e una nota tannica davvero formidabili.

Quanto al pane, la nuova varietà è morbida e croccante, intensa ma rotondamente golosa. Non resta dunque che fare un plauso al capitano in testa, Michele Lazzarini e al nuovo pastry chef Diego Poli, nonché al grande sommelier Lukas Gerges e al suo fido braccio destro Giovanni Mingolla.

Ecco quindi perché il St.Hubertus è una “squadra fortissimi”!

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