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Under10: Planeta e Velenosi

“La Segreta” e “Querciantica”.

Sicilia Rosso DOC “La Segreta Il Rosso” 2018, Planeta

50% Nero d’Avola 25% Merlot 20% Syrah 5% Cabernet Franc

Planeta è una realtà unica e, nel suo genere, è in grado di raccontare tutte le sfumature della terra su cui si erge, la Sicilia. Da nord a sud, da est a ovest vi sono cinque tenute in cinque zone diverse: CapoMilazzo, Etna, Vittorio, Noto e Menfi. Un’identità ben precisa dove vengono esplorate le caratteristiche dei terroir e dei vitigni, valorizzando le specificità di ogni territorio attraverso la coltivazione di varietà internazionali e non.

La Segreta prende il nome dal bosco che circonda la vigna dei Planeta all’Ulmo. Un vino giovane ricco di sfumature. Dal colore rosso rubino intenso, al naso è vinoso con una nota predominante di gelso a cui si accompagna una lieve nota di frutta rossa selvatica, ribes, e spezie. In bocca è verticale, il tannino determina l’assaggio ma rimane nel complesso elegante e ben integrato. Sapori di frutti di bosco e note mentolate accompagnano il finale di beva. Si consiglia a tutto pasto, ideale con primi piatti o secondi saporiti.

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Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico “Querciantica” 2019, Velenosi

L’azienda Velenosi nasce nel 1984 per volontà di due giovanissimi imprenditori: Angela ed Ercole Velenosi. Successivamente nel 2005 venne costituita la Velenosi Srl attraverso l’esperienza del Dottor Paolo Garbini. Il cuore dell’azienda è situato nella città di Ascoli Piceno, nella regione Marche, ad una distanza di circa 20 km dal mare Adriatico e ad un’ altezza di 150/200 m slm. Oltre ad Ascoli Piceno, vi sono altre 3 aziende situate rispettivamente a Castorano, Monsampolo del Tronto e Castel di Lama; in più vi sono due vigneti di proprietà, uno nella zona di Ancarano (TE) e l’altro nella zona di San Marcello (AN) tra i Castelli di Jesi.

Dal colore giallo paglierino brillante con riflessi verdolini, al naso è floreale e fruttato, sentori di ginestra, gelsomino e nespola, chiude con un’impronta leggermente iodata. La presenza di terreni calcarei, su cui crescono i vigneti, si percepiscono sia al naso che al gusto. Il sorso è minerale, acido e fresco. Nel complesso persistente e di corpo con richiami vegetali e di erbe aromatiche. Leggermente amaro sul finale. Si consiglia in abbinamento ad una tagliata di tonno o ad un primo piatto di gnocchi al sugo di pomodoro fresco.

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Sua Maestà, l’Etna, in bianco

L’Etna, vulcano così amato e a volte temuto, ospita alle sue pendici uno dei vitigni più antichi di tutta la Sicilia: U carricanti. Il termine, d’uso comune tra i contadini etnei, andava a sottolineare una delle caratteristiche più importanti di questo vigneto: l’abbondante produzione, così generosa da riempire i carricari, ovvero i carretti destinati alla raccolta dell’uva.

La storia del vino etneo inizia in epoche remote, pare addirittura nel Neolitico, anche se le prime tracce documentali risalgono al periodo della colonizzazione greca, ovviamente in Sicilia. Il primo a parlarne ufficialmente fu l’archeologo Domenico Sestini, nel XIII secolo.

Sulle pendici dell’Etna la natura del terreno è strettamente vulcanica e il suolo, formato dallo sgretolamento di diversi tipi di lava e da materiali eruttivi più recenti quali lapilli, ceneri e sabbie, è ricco di minerali. Inoltre, la vicinanza al mare aiuta l’accumulo di sostanze minerali, come il cloruro di sodio, che si riflettono, poi, nel bicchiere.

E difatti, i vini ottenuti dal Carricante sono contraddistinti da un’elevata acidità fissa e da un notevole contenuto in acido malico, tanto che è quasi indispensabile far svolgere al vino, anche al vino bianco, la fermentazione malolattica.

Il Carricante dà così origine a vini bianchi d’inaspettata longevità (oltre 20 anni); nel calice regala un raffinato colore giallo paglierino pallido che sfuma in leggeri riflessi verdognoli. L’esame visivo, che sembra svelare un vino quasi timido ed etereo, non prepara alla ricchezza quasi esplosiva della palette aromatica. Una scena dove il profumo dei fiori bianchi, in particolare la zagara, si lega a quello di pregiati frutti maturi a polpa bianca. Sul finire arriva un sentore quasi di pietra, un profumo che evoca con decisione le potenti pendici etnee. Al palato narra sapori che richiamano agrumi succosi, vivaci e di corpo medio. La tipica mineralità ne amplia la persistenza finale che, con l’acidità, ne sottolinea il carattere brioso.

Dal punto di vista ampelografico il Carricante è una varietà a maturazione tardiva, il grappolo è medio, di forma conica e semi-spargolo, l’acino è nella media con una buccia ricoperta da abbondante pruina e di colore verde giallastro. Predilige sistemi di allevamento di scarsa espansione, con potatura corta e povera.

Vitigno particolarmente sensibile alle gelate primaverili e alla siccità, che può provocare in alcuni casi scottatura sui grappoli, se non opportunamente protetto, è poco tollerante alle malattie crittogamiche causate da funghi microscopici quali l’oidio e la peronospora, tra gli altri.

Etna Bianco “Vigna di Milo”, I Vigneri 2016

Questa interpretazione de I Vigneri è davvero interessante da scoprire in tutte le sue innumerevoli sfaccettature organolettiche e rappresenta al meglio il terroir da cui proviene, caratterizzato da un equilibrio naturale gremito di biodiversità. Prodotto utilizzando i soli lieviti autoctoni ed eseguendo travasi e filtrazioni secondo le fasi lunari, è un vino stimolante e assolutamente da provare: giallo paglierino intenso con riflessi dorati, al naso è ricco di sentori che richiamano le mele cotogne, le arance e i fiori di campo. Ricordi di rosmarino, timo, pane tostato e mandorle. Il sorso è fresco e gradevolmente sapido fino alla chiusura.

Etna Bianco “1903″, Tenute Paratore 2018

I vigneti più importanti dell’azienda si trovano nella Contrada Taccione, a Montelaguardia, frazione di Randazzo, a 750 metri s.l.m, nel versante nord-est della Montagna. Qui, nel 2013 nasce Tenute Paratore, con l’obiettivo di ridare vigore, coraggio e prospettive alla produzione agricola (vigneti e oliveti, per lo più), mediante nuovi investimenti in termini di terreni e impianti per un totale, oggi, di circa 10 ettari. L’Etna Bianco “1903” Cuvée delle Vigne Niche è un vino che esprime perfettamente il volto di una terra dai forti contrasti: il vulcano e il mare, il sole torrido e il vento freddo, la montagna e il Mediterraneo. È un vino dinamico, di forte tensione espressiva, limpido e cristallino nella sua tagliente purezza espressiva. Nel calice si presenta di colore giallo paglierino con riflessi dorati. Il profilo olfattivo è raffinato e intenso, con profumi di zagara, di erbe aromatiche di macchia mediterranea, cenni iodati, aromi di agrumi, frutta a polpa bianca e note di pietra focaia. Il sorso è teso e verticale, con aromi delicati e complessi, che anticipano un finale sapido fresco e di notevole persistenza. Un fuoriclasse!

Etna Bianco 2017, Tenuta Bastonaca 2017

Silvana Raniolo e Giovanni Calcaterra sono due coniugi-viticoltori appassionati e infaticabili. Nella loro tenuta di Solicchiata posseggono 2 ettari di vecchie viti ad alberello che affondano le radici su un terreno di natura vulcanica, in contrada Piano dei Daini, a 700 m s.l.m. Qui l’enologo, Carlo Ferrini, lavora il Carricante con geniale maestria e nel rispetto della tradizione, traducendo in vino le straordinarie potenzialità di un terroir unico. L’Etna Bianco di Tenuta di Bastonaca è un vino dal sottile e dal raffinato profilo aromatico. Al naso evoca sentori di erbe e fiori di campo, ma anche note fruttate di nespola, pesca gialla e zagara. Al palato si rivela tonico e di buona definizione, emana freschezza e grande sapidità. In questa espressione dimostra tutta la sua eleganza: una personalità profumata e fresca, irresistibile.

Uno dei resort più belli del mondo, in uno dei luoghi più belli del mondo

Basterebbe forse già questo per assicurarsi prenotazioni a raffica: il tramonto che si gode dalla terrazza del Therasia, con la vista che spazia su tutte le Eolie, potrebbe facilmente fare parte dell’elenco delle 20 cose da non mancare assolutamente in un ipotetico giro del mondo.

È quindi confortante, per noi appassionati di cibo e ristoranti, constatare quanto una struttura di questo livello stia investendo sulla ristorazione: 3 ristoranti con tre proposte molte diverse, tutte con un livello medio molto alto. Non è facile trovare una struttura di lusso come questa in cui si mangi così bene, dalla colazione alla cena. Potreste tranquillamente passare una settimana qui senza mai avvertire la necessità di uscire dal cancello per cenare o pranzare in qualche altro ristorante dell’isola. Grande merito quindi all’Executive Chef Giuseppe Biuso ma, soprattutto, alla proprietà e al Direttore dell’albergo Umberto Trani, che fa girare tutto come un orologio svizzero.

Le due proposte ristorative di punta del Therasia sono Il Cappero, il locale di fine dining, e I Tenerumi, un ristorante vegetariano estremamente innovativo nella formula ancora prima che nella cucina.

Tenerumi: il Pic Nic di lusso

Partiamo dunque da quest’ultimo che ci ha particolarmente colpito nel corso della nostra visita. Innanzitutto parlando dell’approccio che si è voluto dare alla cena: 4-5 tavoli in uno dei punti più belli della proprietà, con una vista impareggiabile su mare e cielo proprio mentre lentamente si colorano di mille sfumature di rosso. Non ci sono barriere, niente vetrate e niente muri, in quanto si cena seduti sul prato, utilizzando la versatilità di comode sedute da modellare a piacimento: un pic nic di lusso, rompendo convenzioni e legami di forma. Un biglietto da visita veramente impagabile, probabilmente uno dei luoghi più belli in Italia dove cenare vista mare. Il messaggio è: “mettiti a tuo agio, respira lentamente, rilassati e goditi il tuo momento”. Il menu poi scorre agevolmente tra acidità e freschezza: se escludiamo un errore che definiremmo di “percorso” (una chiusura nelle ultime portate eccessivamente virata sul dolce), non c’è un piatto che non ci abbia colpito favorevolmente. È proprio qui, difatti, che abbiamo mangiato la migliore portata della vacanza a Vulcano: ravioli di tenerumi, un incontro tra Sicilia e Giappone, con un gyoza che racchiude l’essenza vegetale dell’Isola. Daniele Teresi, lo chef del Tenerumi, dimostra una gran bella mano, anche perché tecnicamente tutte le preparazioni sono di ottimo livello e, aspetto fondamentale, il menu è un inno alla leggerezza: buono e sano.

Il Cappero

Il Cappero è il locale di punta del Therasia: un pizzico di formalità in più rispetto al Tenerumi, ma senza esagerare, merito di un servizio di sala di alto livello che sa scegliere bene tempi e misure. Ci ha entusiasmato la verve del sommelier, Giuseppe Fiorito, un classe ‘93 dal futuro radioso: la conferma che, per passare una bella serata, il fattore umano ha sempre una importanza assoluta.

Il 2020 è stato un anno di cambiamenti per il Cappero: via la carta, solo 2 percorsi degustazione da 10 o 13 portate. Ma la svolta ha riguardato anche i contenuti: si è passati da una cucina di rivisitazione siciliana a una più internazionale, meno legata al “terroir” e più alla vena creativa dello chef.
Lo chef Biuso è allievo, tra gli altri, di Corrado Fasolato e Nino Di Costanzo; la scuola si vede, soprattutto per due elementi: il ricorrente tema del “gioco” e l’esasperata ricerca estetica.

L’ironia si ritrova sia nel nome che nelle presentazione di alcuni piatti, così come l’attenzione spasmodica per le stoviglie e la presentazione: tutto fa parte dello spettacolo. I risultati, dal punto di vista del gusto, sono altalenanti: si passa da preparazioni notevolissime, come la triglia coriandolo e crema di olive, dove il sapore di ogni ingrediente è esplosivo, ad altre ben fatte ma più anonime, come l’ostrica al bbq, dove il risultato finale non è coerente con l’idea creativa. Il rischio è proprio quello di mettere in una scala di valori l’idea sopra ogni cosa: in ci vuole cuore è ottima l’intuizione di lavorare in abbinamento tra cuore di manzo e pomodoro cuore di bue (ortaggio), in un gioco di termini e di consistenze, ma se il sapore latita qualcosa deve essere rivisto.

Fantastico, invece, il cannolo di melanzana: perfetto per consistenza, idea e gusto. Così come il maialino con peperoni e vongola, proprio perché il sapore tiene in piedi l’idea e non viceversa.

Quella che non manca mai è l’idea, lo studio maniacale di ogni dettaglio e una identità. Con la leggerezza protagonista assoluta, in un menù che livella al minimo i carboidrati. Non è poco. Lavorando ancora sulla concentrazione dei sapori, la cucina di Giuseppe Biuso potrebbe fare una ulteriore evoluzione.

Ma già adesso, ci sono tutti gli elementi, qui, per passare una gran bella serata.

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Alla corte di re Iblone

Si rilassi, le mandiamo tutto via email“, sussurra sorridendo, dietro la mascherina, Riccardo Andreoli, direttore di sala del ristorante Duomo di Ragusa Ibla. Si riferisce al menù della serata, il luculliano Basileus Hyblon, riportante l’ordine esatto delle portate, più alcuni fuori menù di quello che, a vederlo adesso, appare l’ingranaggio complicato, e raffinatissimo, di un orologio concepito apposta per far perdere il senso del tempo: un banchetto in cui tutto si tiene, quasi simultaneamente, senza soluzione di continuità.

L’effetto è narcotico”, confesseremo alcune ore dopo a Ciccio Sultano che, invero, ci scruta con complicità. Lui, nomen omen, è uomo istrionico, eccentrico, coerentissimo anche nella fisiognomica, teatrale, scolpita di bassorilievi e chiaroscuro – gli stessi che abitano anche la Grande Madre, signora tanto della primavera quanto degli inferi per l’antico popolo dei Siculi – del menù dove questi stessi contrasti prendono forma tanto coscientemente quanto, anche, scientemente, e che fanno di Sultano l’interprete più ispirato e, di certo, più raffinato del momento in Sicilia.

Non stupirà dunque apprendere che Basileus sta per sovrano, ovvero per il re dei re di quell’isola nell’isola che è, per appunto, la Sicilia Iblea le cui tracce si trovano, oltre che a Ragusa, anche a Melilli, a Paternò, a Piazza Armerina, ad Avola e a Pantalica, solo per dirne alcune. 

Il paradiso terrestre del mondo civilizzato

Cominciamo dunque con le piccole entrée – piccole solo nelle proporzioni – che innescano al palato una deflagrazione dopo l’altra, una carrellata rapinosa, ipnotica, ittica nel cannolino con ricotta vaccina, caviale e gambero rosso di Mazara del Vallo, marittima nel bigné farcito di Ragusano con alici di Testa, agreste nel cracker di bottarga con pelle di pollo croccante e, infine, bucolica nell’oliva nocellara del Belice farcita con marzapane di pistacchio e cosaruciaru croccante.

E poi l’imponente, imperiosa ostrica a beccafico e il tortello ripieno di pesto trapanese, doppia panna, uova di aringa, sgombro e fasolari sono bocconi manieristi e ghiottissimi, miniature pirotecniche nonché presagi di quella che sarà la prima, vera portata, anzi due: la triglia “a pisci d’uovo”, lisca come un biscotto e salsa alla ghiotta rifinita con una generosa grattugiata di scorza di arancia nera carbonizzata a suggellare una stratificazione di aromi agrumati, bizantini e orientali e il rinfrescante, corroborante spaghetto coi ricci di mare, anguria e limone. Piatti discinti eppure concatenantisi, la cui compresenza va a ricordare un servizio alla francese – pasta da una parte, pesce dall’altra – che trasfigura in uno alla mediorientale – dove i piatti sono serviti separatamente, ma tutti nello stesso momento – per diventare insindacabilmente, potentemente siculo nella sua irretente e misteriosa sintesi tra cultura greca, araba e borbonica.

Ed è esattamente su questi riferimenti enciclopedici – ma senza dimenticare l’asse mesopotamica su cui veleggia il dessert dedicato alla “Mezzaluna fertile”, ovvero la nostra civiltà agli albori fatta di grano, sale e olio – che continua il viaggio, la cui acme è rappresentata dalla ventresca di tonno rosso, salsa di manzo, estratto di cipolla caramellata e polvere di sommacco, che della devozione e finanche dell’ossessione di Ciccio Sultano per la materia è il coronamento considerando anche l’annientamento della dicotomia tra mare e terra che un piatto simile sottende e magnifica.

Un piatto che, da solo, indurrebbe anche la più illuminista delle menti a inginocchiarsi e ringraziare gli Dei o, più semplicemente, questa nostra grande Madre Terra per il paradiso terrestre che essa ci offre e di cui la Sicilia rappresenta, o rappresenterebbe, tra i suoi cammei, quello più bello.

La Galleria Fotografica:

Una grande espressione del Vulcano Siciliano

La migliore definizione dei vini dell’Etna l’ha data il grande Vigneron Giusto Occhipinti di COS. Terreni molto fertili, ricchi di grande quantità di materiale organico, che anche ad elevate altitudini producono vini ricchi, opulenti, grassi, con elevato grado alcolico. Perché la vigna, quando non soffre e trova spazio e ricchezza di terreno, esprime buone dosi di zuccheri e conseguentemente sviluppa un grado alcolico elevato. Come tutte le generalizzazioni anche questa va ovviamente presa con le pinze, giustamente ponderata. Dobbiamo però dire che ci ritroviamo parecchio nella definizione qui riportata.

In generale il Nerello Mascalese – e la sua espressione vulcanica in modo particolare – ci regala difficilmente, a nostro modo di vedere, vini da lungo invecchiamento. Spesso ci consegna vini ad alta gradazione, che superano agevolmente i 13 – a volte i 14 gradi, e un corpo intenso e ricco, molto denso e strutturato.

Questo Quota 1000 è una delle piacevoli eccezioni che ci siamo trovati a degustare. Un vino che, a dispetto dei suoi 14 gradi, dopo 4 anni dalla vendemmia si esprime con la sua maestosa acidità, con un tannino ancora verde, ruvido e molto astringente. Al naso si apre molto elegantemente; è fine, con una nota di fragolina di bosco selvatica che lascia ben presto lo spazio ad una deriva balsamica, dove eucalipto e rabarbaro la fanno da padrone.

Vino ottenuto da vigne a piede franco, a 1000 metri di altitudine, con uso di lieviti indigeni e leggera macerazione sulle bucce. L’ affinamento ha una durata di 2 anni, in botti di rovere.

In bocca all’inizio esprime un tannino setoso, suadente, che nel finale diventa dirompente e astringente, segno di ancora una buona dose di gioventù sulle spalle. Il finale lievemente sapido e una persistenza lunghissima ne fanno, per noi, uno dei grandi vini degustati quest’anno.