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Uliassi

Uliassi Lab 2021: l’infinito (g)astronomico e l’impero dei sensi

Sono definiti, per convenzione, «numeri astronomici» quei numeri che, definendo aritmeticamente l’incommensurabilità dell’universo, non possono essere ‘significati’ se non ricorrendo a espressione matematiche che sfuggono le consuete logiche alle quali si è abituati dalla quotidianità. Eppure questi numeri – costruiti da tanti zeri – non riguardano solo le stelle e le galassie. Assurdamente, ma neppure così tanto se si pensa all’adagio di Ermete Trismegisto, «così in alto come in basso», sono i medesimi che si utilizzano per esprimere un universo molto più piccolo, ma altrettanto complesso: quello della mente umana.

La neuroscienza ci dice (ovvio, per similitudine approssimativa) che nel cervello dell’uomo si sviluppa un processo sinaptico pari al numero dei corpi celesti presenti nella intera Via Lattea. In altre parole sono le sinapsi, ovvero le interconnessioni fra i neuroni, a consentire all’uomo di ‘pensare’, traendo esperienza e conoscenza da ciò che percepisce attraverso i cinque sensi (vista, udito, gusto, olfatto, tatto). Sul molo di Senigallia, fra il porto e la “spiaggia di velluto”, forse di neuroscienza e di numeri astronomici non se ne è parlato in modo approfondito. Ma, invertendo il processo cognitivo, del potere dei cinque sensi in senso gastronomico, sì. E molto.

Mauro Uliassi, che da anni ha abituato la sua sempre più folta schiera di affezionati ospiti a piatti fortemente innovativi ma al contempo legati alle espressioni territoriali e tradizionali di quello scampolo di terra marchigiana divisa tra le dolci colline e l’azzurro intenso del mare, lo dichiara con orgoglio: «nel nostro lavoro ci basiamo sui sensi: è così che riusciamo a veicolare il nostro concetto di cucina». Ed è pure così che, certo forse più empiricamente di un neuroscienziato ma con altrettanta caparbietà, Uliassi e la sua squadra hanno messo a punto un menu, Lab 2021, che, più che mai, riesce a coinvolgere gli organi percettivi, in un viaggio lungo dodici corse, alla scoperta delle gastronomiche potenzialità dell’impero dei sensi.

Il senso del percorso

I Lab proposti da Uliassi, negli anni passati, sono sempre stati caratterizzati da piatti che, anche estratti dal menu e mangiati singolarmente, avevano una loro compiutezza formale, stilistica e gustativa. Il Lab 2021 (che va prenotato in anticipo, ed è proposto al prezzo di 200€) si segnala invece per essere una successione di pietanze completa e conchiusa solo all’interno del percorso. Ed è proprio l’azione del percorrere, attraverso i sensi, a dare un senso al percorso e a costruirne i significati, i limiti, le potenzialità.

Con Lab 2021 cuoco e ospite sono chiamati a sostenersi in una sfida comune. Non c’è ragione né sentimento: ma la sensazione tattile del dito che Uliassi invita a utilizzare per tirare su dal piatto ciò che rimane de l’eleganza del riccio (ricci di mare, limone, chinotto, finocchio selvatico, alias levistico), il piatto che, forse in modo sin troppo cerebrale, apre la sequenza. O la suggestione profumata che suscita il gambero rosso con cervella di gambero, zenzero, arancia e cannella (ripensamento del celebre gambero rosso agrumato che tanto successo ha riscosso gli anni scorsi). O la pienezza del gusto della provocante ostrica con rafano, ciliegie, rognone di pecora e maionese alle uova di coregone.

Come staffili, questi tre piatti aprono la successione in modo tagliente, quasi vogliano risvegliare i sensi, e riattivare un processo della conoscenza che devii dal percorso del noto e dalla comodità dell’ovvio. Fra la sogliola al vapore, lattuga e bergamotto (“omaggio a Piergiorgio Parini“) e le lumache ed erbe di sabbia: finocchio marino, asparagi di mare, kalanchoe e ficoide glaciale, il percorso mostra sempre più il suo volto, assumendo senso nei sensi. L’udito si appaga nei suoni delle consistenze delle seppie sporche con fegato di seppia, cipolle di Cannara e foglie di cappero. Mentre la vista si perde nella cromatica costruzione del colombaccio (con paprica affumicata, rancido di prosciutto e peperoni cruschi: uno fra i migliori piatti di cacciagione sinora mai proposti da Uliassi) e la bellissima rilettura di un classico dell’alta pasticceria francese: il Paris-Brest.

Ma un ulteriore lampo illumina il percorso: pasta e pomodoro alla Hilde. Una provocazione? No, non è nello stile di Uliassi, che le provocazioni non ama. Piuttosto ancora un viaggio in profondità fra senso e conoscenza. Una sfida: come trasferire il profumo del raspo dei pomodori – quel buon odore che si avverte, in estate, camminando in un orto ben tenuto – in un piatto? Presto detto: con un infuso di foglia di fico e burro…

Intanto, nelle bianche sale e nella struggente veranda, sinestetico davanzale sulla ‘spiaggia di velluto’, Catia e Filippo – sorella e figlio di Mauro – dirigono con consumata maestria una partitura fatta di giovani sorrisi, spigliata cortesia e sottile finezza. E l’impiantito sulla sabbia, che di sera si illumina di lanterne, con i suoi cuscini e le sue avvolgenti sedute, pare l’ennesima tentazione all’infinito prolungamento di un pasto che si vorrebbe non finisse mai. Mentre la lenta risacca, come un’ancestrale cantilena, come primordiale liquido amniotico, culla dolcemente i sensi spaesando senza una meta che non sia il piacere di un ricordo, la fuggevolezza di un dolce pensiero, la tenerezza di un passato amore.

Della cantina, curata con passione da Ivano Coppari – da sempre con i fratelli Uliassi, sin da quel 1990 quando, lì sul porto, aprirono la loro ‘pizzeria’ – non si può scrivere se non che è ancora più ampia e profonda, spaziando dall’Italia alla Francia, con attente puntate anche nelle altre ‘terre della vite e del vino’. Bollicine e bianchi la fanno ovviamente da padrone, ma non manca pure una vasta e centrata selezione di grandi rossi. Peccato per i ricarichi che, seppur in un tristellato, sono davvero importanti. E forse una maggior intraprendenza con il cliente sulle proposte e sugli abbinamenti non guasterebbe, portando a livello anche un settore forse lievemente in difetto rispetto a sala e cucina.

Una ultima riflessione è doverosa in chiusura. Quando, ancora seduti a tavola, ci si avvierà alla conclusione di questo viaggio attraverso i sensi, moltiplicatore di sensazioni e conoscenze, si scoprirà di non essere arrivati davvero alla ‘fine’. Si scoprirà di essere piuttosto ritornati alla partenza, dopo aver maturato una introspettiva esperienza di senso e di sapere, pronti per una nuova avventura.

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La maturità di un eterno ragazzo, a Senigallia

È quasi impossibile credere che Moreno Cedroni e Mariella Organi abbiano festeggiato il compleanno della Madonnina del Pescatore soffiando, assieme sin dall’inizio di questa straordinaria avventura, ben 36 candeline. Impossibile perché vedendo l’energia, la vitalità, la freschezza con cui entrambi conducono questo splendido luogo non si può credere che la loro storia sia cosi lunga. Ebbene, sì, il trucco nella vita è proprio questo e loro ce lo insegnano, mettendo sempre una straordinaria passione in ciò che fanno tutti i giorni coadiuvati da un sous chef, Luca Abbadir, che ha sposato in pieno la filosofia della casa e si è integrato splendidamente.

Però, c’è un però. Spesso parliamo della incredibile cucina di Moreno e Luca, Luca e Moreno, che anche quest’anno ha superato se stessa. Ma ci dimentichiamo di raccontare quanto la sala di questo magico luogo, condotta amabilmente dalla sua padrona di casa, sia in un crescendo continuo. Attenzioni discrete, passo svelto ma mai evidente, una macchina perfetta che gira come un orologio svizzero. E che soprattutto vi inonderà di calore e attenzioni, sempre discrete. Ci si sente a casa alla Madonnina, una casa elegante, sobria, d’altri tempi. Un caldo tepore che allieta l’anima.

Ma anche la cucina, dicevamo, non si è affatto fermata anzi ha continuato la sua progressione e il suo miglioramento continuo sebbene con la storia e il blasone che questo ristorante ha alle spalle, forse, non ce ne sarebbe nemmeno stato bisogno. Eppure è così, crescita continua, mai fermi sulle posizioni. Tant’è che quest’anno a fianco di qualche nuova entrata, derivata direttamente dallo studio portato avanti nel tunnel – il laboratorio di ricerca della Madonnina – sono comparsi molti piatti storici abilmente rivisitati e attualizzati.

Parliamo, ad esempio, del quattro cucchiai, antipasti crudi e cotti, del San Pietro alla mugnaia o del fantastico spaghetto psichedelico. Piatti simbolo puntualmente e ampiamente ritoccati e rivitalizzati sebbene, sinceramente, a questi livelli non ce ne sarebbe stato nemmeno bisogno. È proprio qui che risiede la grandezza di questo chef e di questo luogo: fermarsi mai, accontentarsi mai. Sempre in movimento, continuo e costante.

La crema cotta ai ricci, il cannolicchio, l’ape regina, costituiscono oggi il coronamento di una ricerca e di una direzione di cucina davvero originale e molto, molto interessante, nonché piatti di una intensità inaudita, che assieme alle penne al burro ai ricci – liofilizzati – ci hanno letteralmente fatto sobbalzare sulla seggiola.

Quindi un ennesimo “bravo!” a tutta la squadra della Madonnina del Pescatore: un luogo che abbiamo nel cuore e nell’anima.

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Maturità, a Senigallia, non fa rima con saggezza

Mauro Uliassi è, prima di tutto, un uomo di spessore e, poi, un grande cuoco. Possiamo tranquillamente affermare questo perché il suo tratto distintivo, da sempre, è stato quello di non scartare mai con superficialità una critica, un consiglio, una riflessione o un’osservazione. Anzi, si è costantemente messo in discussione, ha migliorato, ha progredito in tecnica e precisione, senza mai scordare il suo imprinting iniziale: la gradevolezza, la piacevolezza della sua cucina.

Molte osservazioni fanno pensare al ristorante Uliassi come a un luogo che nel tempo si è fin quasi snaturato per rincorrere il piacere di pochi. Ecco quindi menù che si susseguono per e a favore del critico di turno. Menù dai toni spigolosi, accentuati, con virtuosismi tecnici fini a se stessi. Mai osservazione fu più superficiale. Mauro ha sempre teso, e crediamo continuerà per lungo tempo, a migliorarsi, a progredire, a raggiungere finezze e sensibilità che ha rincorso e studiato con tenacia e determinazione. Senza, però, snaturare la sua indole, i suoi connotati, e il suo contesto. Del resto, un ristorante è pur sempre un’attività imprenditoriale e, pur volendo scomodare pensieri più profondi, siamo al cospetto di un uomo, e di un intero gruppo capitanato dalla fantastica sorella Katia Uliassi, che fa del servizio e dell’appagamento del cliente il punto di riferimento assoluto, perseguito con umiltà e dedizione che generano, come conseguenza immediata, un grandissimo successo di pubblico.

Non sarà dunque che la chiave di lettura risieda nella volontà di accontentare un più ampio spettro di pubblico possibile? Forse, accontentando i palati estremi più esigenti e, al contempo, accontentando anche i clienti diciamo “normali” non sarà che, così facendo, non solo si aneli e si tenda ma, di fatto, ci si avvicina tremendamente a quell’idea di ristorante perfetto, a quel luogo in cui tutti, o quantomeno tantissimi, escono “felici e contenti”? Ma non è questa, dunque, l’estromissione completa dell’ego del cuoco a favore della cultura del servizio e dell’accoglienza? Non è forse questa l’essenza di un ristorante?

Il ristorante perfetto

Ebbene, noi crediamo proprio di sì. Che la famiglia Uliassi, e per famiglia s’intende Mauro e Katia in testa a un gruppo solido e coeso, stia proprio rincorrendo il sogno del ristorante perfetto e, con questa ultima stagione, la 2020 iniziata con le difficoltà che tutti conosciamo, crediamo proprio che a quel modello gli Uliassi si siano infine avvicinati tantissimo.

La carta propone il menù dei piatti che hanno fatto la storia del ristorante, una carta ampia e in grado di accontentare tutti i palati; poi, loro due: il menù “caccia” e il nuovo “lab 2020”, disponibili solo su prenotazione anticipata. Una strategia brillante, perché quei menù, simbolo della ricerca più estrema dell’Uliassi-pensiero, devono essere prenotati e, dunque, voluti: fortemente voluti. Ecco quindi accontentato un enorme numero di appassionati e, contemporaneamente, salvaguardato il vero bacino di sostentamento del ristorante, con accortezza e tatto.

Il nuovo “lab 2020”, voluto dal cliente con piena consapevolezza, è un inno ai toni amaro-rancido-acidi visti con l’occhio felice, e moderato, di Mauro Uliassi. Ma questo menù, lo diciamo, è decisamente diverso da tutti i lab che lo hanno preceduto. E benché l’occhio attento avrà notato, soltanto l’anno scorso, alcune timbriche ricorrenti nel pancotto e nell’ossobuco di mare, quest’anno le ritrova amplificate, dirompenti, debordanti.

Oltretutto, si tratta di un menù pensato dall’inizio alla fine, molto più articolato nelle sue cadenze e nei suoi passaggi di un tempo. Non una sequenza di piatti, ma una serie di passaggi che compone una sinfonia d’insieme. Ogni boccone finale di un piatto anticipa e riverbera il successivo, e così di seguito.

Un cambio di paradigma accentuato, molto accentuato con, al centro del percorso, Uliassi stesso che nella sequenza amaro-rancido-acido porta al tavolo capolavori quali l’indivia di calamaro con essenza di alloro, in cui l’ortaggio appare a tutti gli effetti una illusione di forma ma anche di sapori – un calamaro con tanto di nappatura di estratto del cefalopode – davvero incredibile. Immenso lo spaghetto ai peperoni, polvere di friggitelli, olive ed estratto di eucalitpo, in cui la nota balsamico-rancida (tra olive e eucalpito) rinforza la polvere di friggitello sostenuta dalla dolcezza dell’amido in accompagnamento: un piatto apparentemente semplice che serba una complessità gustativa e un tasso di avanguardia assoluti. L’imperioso rognone, nobilitato e nobilitante e quasi urticante nella rincorsa tra l’estratto di arancia e l’olio alla cannella, esprime la potenza di un grande pepe nobile e agrumato. Lo stesso simile sentore di pepe che troviamo nella pasta in bianco, tutt’altro che un esercizio di stile, in cui burro di aringa e pepe timut si rincorrono vorticosamente nell’esaltazione della finezza e della lunghezza gustativa. Anche qui grasso, quasi rancido, affumicato e agrumato nobile.

E potremmo continuare per ore, e ore. Non un piatto sotto tono, non un accenno alla discesa. Non una crisi di identità e di gusto. Non un dopo che non abbia senso rispetto al prima. Cadenze pensate con un filo conduttore ben delineato.

Il menù perfetto, insomma, in un ristorante perfetto di un cuoco, una cucina e una sala gestita, semplicemente, alla perfezione. Evviva gli Uliassi, evviva l’Italia!

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La Madonnina del Pescatore: l’entusiamo del giovane e la tecnica del saggio

Sulla rotta di quella Madonnina del Pescatore che da oltre 35 anni continua a far innamorare con i suoi piatti, con la sua ricerca e il suo stile, abbiamo avuto modo di tornare a vivere, e con grande soddisfazione, uno dei binomi più vincenti della ristorazione italiana: la cucina di Moreno Cedroni coniugata alla sala di Mariella Organi. Tale dinamica sconfina prima in cucina, dove Cedroni con l’entusiasmo di un giovane e la tecnica di un saggio riesce a stupire sia i clienti abituali che i neofiti. Di pari passo la sala, dove l’autorevole eleganza e la dolce professionalità di Mariella Organi hanno saputo ricamare intorno a questa realtà un florido vivaio di giovani promesse ponendo l’accento, ancora una volta, sul ruolo chiave di questo lato dell’ospitalità.

Il menù scelto in questa nostra nuova visita è stato quello dedicato alla tradizione. Un menù che nella sua armonica e delicata esecuzione, racconta di piatti solo apparentemente conosciuti ma che invece si dipanano verso consistenze e sapori innovativi. Focus particolare il capitolo della liofilizzazione che dimostra il grande lavoro di ricerca portato avanti da Cedroni, insieme alla cura per la materia ittica, ça va sans dire. Di fatto i piatti della nostra sequenza, di primo acchito, possono mostrare una semplice linearità gustativa almeno alla lettura degli ingredienti. Tuttavia in questi si riesce a percepire in maniera chiara quanto la genialità e la forza della cucina di Cedroni risieda in piatti continuamente messi in discussione dal cuoco stesso, facendone scoprire dimensioni inaspettate.

Il nuovo classico

Ecco tre esempi. Baccalà fritto, nella sua elegante sapidità, corre di pari passo alla dolcezza del peperone mentre lo stacco pungente arriva dalla foglia di senape dove le note del suo olio essenziale e l’astringenza della parte erbacea chiudono in gran stile l’untuosità del fritto. Altro classico il brodetto, espressione adriatica della zuppa di pesce declinata da nord a sud. Il pesce nelle sue diverse tipologie è cotto in modalità e tempi separati rispettando carnosità e succulenze, ma ciò che ribalta completamente l’orizzonte di questo piatto è l’impiego della parte aromatica con il dragoncello e il suo sentore di anice che richiama alla memoria il sapiente uso, in tale parte d’Italia, di liquori storici a base di questa pianta.

Infine, il colpo autentico del KO, che consacra Cedroni al ruolo di fuoriclasse nel panorama ristorativo odierno: penne, burro ai ricci di mare, capesante essiccate, erbe spontanee e seppia ai carboni. Un piatto assoluto dove la carica gustativa della capasanta è amplificata grazie all’uso della liofilizzazione. A questo va unito il vigore delle erbe selvatiche, essiccate e poi passate sulla brace e la seppia appena scottata. La nota empireumatica del fuoco impressa sulle erbe si sposa con la dolcezza del riccio regalando sentori e ricordi di una grigliata di pesce fatto proprio lì, sul mare, come è la Madonnina del Pescatore sul litorale di Marzocca.

La cucina di Moreno Cedroni, come anche la sala di Mariella Organi stanno vivendo, ne siamo sempre più convinti, un forte stato di grazia. Ciò che traspare da esperienze come questa è che la complessa interpretazione di questi piatti, apparentemente classici, sia più contemporanea che mai. La totalità degli ingredienti, con sapori sapientemente bilanciati concorre alla riuscita del piatto in cui nessuno prevarica, ma fa sì che tutte le papille dall’amaro al salato dal dolce all’acido possano essere eccitate.

La ricerca corre verso il suo apice, come la passione di Moreno e Mariella Cedroni.

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La contemporaneità in tavola

Disseminati per la galassia gastronomica, ci sono alcuni – pochissimi, in realtà – ristoranti che non solo centrano il duplice obiettivo di convicere critica e gourmet ed entusiasmare il pubblico generalista, ma possiedono il dono di riuscirvi senza cadere nella trappola del cerchiobottismo. Nel ristretto novero di tali locali si colloca, a nostro avviso, Uliassi. Quella di Uliassi non è una cucina in assoluto anticipo sui tempi per tecniche, ingredienti impiegati, arditezza degli accostamenti.
Eppure, muovendosi  disinvoltamente sul filo della contemporaneità – ma senza assumere del tutto su di sé i rischi dell’avanguardia – lo chef ha dimostrato lungimiranza e coerenza, impiegando in modo intelligente e fantasioso le tecniche più funzionali alla propria visione gastronomica e, allo stesso tempo, lasciando in vita un lumicino dell’originaria vocazione di trattoria di mare di questo indirizzo. Il tutto accade, qui sulla Banchina di Levante dell’affascinante Senigallia, senza sforzo apparente, senza l’ansia di rincorrere ogni occasione per dimostrare di essere sempre al passo coi tempi. Ecco perchè la valutazione ormai stretta, se continuamente confermata ai livelli odierni, potrebbe crescere presto.

Da trattoria di mare fino all’olimpo gastronomico

La terza stella, recentemente conseguita, sembra aver caricato a molla cucina e sala, convincendo tutti che il percorso fin qui seguito sia stato meritevole di ogni fatica e di ciascun occasionale inciampo. Abbiamo trovato così, in occasione delle nostre visite più recenti, un Mauro Uliassi in grandissima forma: né vate dell’avanguardia né tantomeno umile servo della tradizione ma, e del resto così è sempre stato, un cuoco che ama giocare con i sapori e che, nel tempo, ha saputo circondarsi di una brigata di grande professionalità ma allo stesso tempo partecipe del processo creativo. Sembra vedersi, lo chef, in un ruolo di capitano/allenatore, allo stesso tempo coordinatore e compagno dei ragazzi in cucina, ai quali non manca di rendere omaggio citando, per molti dei piatti assaggiati, l’ideatore. 

Come ogni anno, l’apertura primaverile del ristorante ha visto l’esordio in carta di numerose nuove creazioni, che confluiscono nel menu Lab. Siamo stati testimoni di una fase di transizione, con alcuni piatti che, in una versione perfezionata, erano già stati presentati nella collezione 2018.
Tra questi, meritano una citazione il pancotto con mandorle e granita di ricci di mare, ancora più intenso della versione precedente e miracoloso per gestione di temperature e consistenze, e lo straordinario colombaccio, la cui cruda carnosità riesce a contenere un fondo all’eucalipto di raro potere perforante. Citiamo, fra i piatti nuovi, l’eccellente anguilla, sapiente rimodulata su tratti acidi, tannici e affumicati e un reparto dolci in grande spolvero.
Il servizio si mantiene sorridente senza essere scanzonato e lascia che al centro della scena restino le non rare uscite dello chef, vero mattatore della sala. Qualcosa in più, in termini emozionali, si potrebbe chiedere al servizio al calice per quanto, in quest’occasione,  l’unico vino insolito della serie abbia finito per ripagarci ampiamente di qualche proposta eccessivamente scontata.

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