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Hauner…

…e la Malvasia delle Lipari

La storia della Malvasia delle Lipari è finemente intrecciata con quella di un designer di fama internazionale, Carlo Hauner, che recuperando le viti storiche in quel di Salina ha dato vita a un vino apprezzato in tutto il mondo.

Di origini bresciane e ancor prima boeme, Carlo Hauner arriva a Salina nel 1963. È il padre a portare qui la famiglia in vacanza quell’estate, ma ben presto la bellezza del luogo irretisce gli Hauner, che vi ci trasferiscono definitivamente poco tempo più tardi. È lo stesso Carlo a raccontare – in un’intervista rilasciata al Consorzio Malvasia delle Lipari – come l’idea di iniziare a produrre vino fu del tutto naturale per loro: “mio padre diceva che era tutto meraviglioso… ma si beveva male.”

Ecco quindi prendere piede quell’idea, sbocciata con la modesta pretesa di produrre vino per le proprie cene, che ha infine portato gli Hauner a far riscoprire la viticoltura a Salina e a renderla l’oasi verde che è oggi. Al tempo, infatti, l’isola eoliana non era certo la meta turistica che è ai giorni nostri, inoltre risultava spopolata a causa dei fenomeni di migrazione occorsi nel ‘900. Della vite, e più nel dettaglio la Malvasia, importata qui ai tempi degli antichi greci, non restavano che pochi esemplari, sopravvissuti in qualche modo alla fillossera, coltivati dai contadini del posto secondo le tecniche ancestrali tramandate di padre in figlio.

Gli Hauner impiegano alcuni anni per mettere insieme una ventina di ettari di vigneti; vigneti che ripulirono e nei quali ripristinarono gli antichi terrazzamenti. Introdussero piccole innovazioni nel processo di vinificazione, pur salvaguardando gli usi tradizionali, come l’appassimento dell’uva sui “cannizzi”, servendosi di tecniche quali l’appassimento dell’uva sulla pianta, il controllo della temperatura in fermentazione e infine lo stoccaggio in acciaio.

La svolta arriva nel 1974, quando le prime bottiglie vengono portate al Vinitaly e subito si fanno notare dal mitologico Luigi Veronelli, che dedica un articolo all’azienda “che al tempo non aveva neanche una vera e propria cantina.”

Il successo è immediato. La Malvasia passita degli Hauner riporta alla luce quel “nettare degli dei” decantato da Alexandre Dumas che, in viaggio alle isole Eolie, scriveva: “venne portata una bottiglia di Malvasia delle Lipari; fu il vino più eccezionale che abbia mai assaggiato nella mia vita”.

Negli anni ’80 viene costruita la cantina e si inizia a vinificare anche l’uva conferita dai piccoli produttori locali, che sull’onda del successo di questi vini riprendono a coltivare la vite. Oggi sono oltre una decina le aziende produttrici che coi loro vigneti colorano di verde l’isola di Salina, un luogo che vive di un perfetto equilibrio tra vino e turismo.

La cantina insediata a Lingua, incantevole frazione di Santa Marina Salina, oggi produce circa 50.000 bottiglie di Malvasia, suddivise in due versioni, la naturale e la passita. A queste nel tempo si sono aggiunte altre etichette per offrire una panoramica più completa del territorio, che oggi è rappresentato, oltre che dalle Malvasie, anche da un Salina Bianco, Salina Rosso, Hierà, Hierà Rosè, Antonello, Iancura e Carlo Hauner, blend di Inzolia, Catarratto e Grillo che omaggia lo storico proprietario, scomparso nel 1996, cui è succeduto il figlio Carlo Junior con la preziosa collaborazione della moglie Cristina e dei figli Andrea e Michele.

All’affascinante storia degli Hauner abbiamo dedicato anche un podcast, che potete ascoltare qui.

Le Malvasie

Malvasia delle Lipari DOC naturale

Alc.: 12,5%
Vitigno: Malvasia delle Lipari 95%, Corinto Nero 5%

Ambrata, con qualche riflesso che vira verso il verdolino, questa Malvasia raccolta tardivamente matura dapprima in serbatoi di acciaio termocondizionati, quindi finisce l’affinamento in bottiglia, dove riposa per almeno sei mesi. Il naso è un’esplosione di albicocche e nespole mature, alle quali si intrecciano note di erbe aromatiche. Dolce, sapida, con una bella freschezza che rende la beva estremamente piacevole.

Malvasia delle Lipari DOC passito

Alc.: 13%
Vitigno: Malvasia delle Lipari 95%, Corinto Nero 5%

Dopo essere stata vendemmiata tardivamente, l’uva viene lasciata appassire sui cannizzi al sole per un tempo che va dai 15 ai 20 giorni; quindi, continua la vinificazione maturando in acciaio e in bottiglia. Il sole sembra quasi venire intrappolato nel colore di questo vino: ambrato e dai caldi riflessi dorati. Al naso spiccano i datteri e i fichi freschi, note di camomilla e torrone. Al palato è pieno e vellutato, sostenuto da una vivace freschezza e da grande sapidità.

Malvasia delle Lipari DOC selezione Carlo Hauner

Alc.: 13,5%
Vitigno: Malvasia delle Lipari 95%, Corinto Nero 5%

Solo le uve migliori vengono esposte sui cannizzi ad appassire per un tempo che va dai 30 ai 40 giorni. Il nettare che ne viene estratto, poi, matura in barrique per almeno 40 giorni prima di passare alla bottiglia e ivi riposare per almeno otto mesi. Il risultato è un colore ambrato che vira verso i toni scuri dell’oro verde, che regala un naso esemplare ed elegantissimo di albicocche secche e frutta esotica candita, macchia mediterranea e miele. Sapidissimo, quasi salato, opulento e con una vena di freschezza che ne mantiene inalterata la piacevolezza.

* I vini dell’Azienda Agricola Hauner sono distribuiti da Sagna Spa.

La famigliarità, l’accoglienza e la maturità del Signum dei fratelli Caruso

Sappiamo immaginare poche cose più rilassanti di una lunga e confortevole colazione al Signum: perché qui si stratificano ricordi che poi ti possono confortare per mesi, anche nel grigiore di talune giornate cittadine invernali. Una perla nascosta nel verde di Malfa, a Salina, che si lancia nel mare.

Solo l’anno scorso parlavamo di esperienza signum e anche oggi non possiamo che confermare quanto scritto. Una struttura che si migliora di anno in anno e che è certamente una delle migliori destinazioni alberghiere italiane: per il senso di familiarità, per una accoglienza unica da parte di tutto il personale, per la qualità che si concentra in ogni minimo dettaglio.

Le novità del 2021

Un hotel che certamente ha nei suoi punti di forza la proposta ristorativa: si faceva cenno a una colazione maestosa (dal caffè fino alla granita, tutto è eccellente), ma non sono da meno i cocktail di Raffaele Caruso, da gustare mentre il sole colora di rosso il cielo e il mare (il suo Amara Mule è nei nostri cuori), o le proposte del bistrot e del nuovo “angolo” inaugurato in questa stagione 2021, il Carrubo, uno spazio in cui protagonisti sono il fuoco, i prodotti dell’orto e l’ampia cantina sviluppata negli anni dalla passione di Luca Caruso.

Potremmo partire proprio da Luca Caruso, il direttore dell’albergo e della sala del ristorante, per spiegare cosa è oggi il ristorante Signum: un luogo di passioni veraci. La proposta di vino al calice di Luca Caruso è senza dubbio una delle più interessanti che si possano trovare, non necessariamente per blasone delle etichette (per quelle, a volte, “bastano” i soldi), ma per la particolarità delle scelte (spesso vini di nicchia introvabili, da poco più di mille bottiglie l’anno), per le vecchie annate, per la coerenza del percorso, una volta legato al vitigno, un’altra all’altitudine delle vigne, un’altra ancora alle caratteristiche del vino stesso. Una esperienza nell’esperienza che ci sentiamo di consigliare caldamente.

Un altro viaggio

Vino e servizio sono degni compagni di viaggio della cucina di Martina Caruso: una cucina che sta crescendo in maniera visibile. C’è più maturità, più precisione, più concentrazione nei piatti 2021 del Signum.

Il menu di sette portate “Un altro viaggio”, la nuova proposta della stagione, è un messaggio forte e potente: è un biglietto da visita delle Eolie, una sintesi dei gusti e dei sapori di questa terra rivisti dalla sensibilità di una cuoca che ha raggiunto grande consapevolezza delle proprie capacità. Ma ne è riprova anche il grande lavoro di affinamento sui piatti storici, oggi più fini e privi di sbavature.

Una cucina fresca, più confortevole che spigolosa, anche se non rinuncia ad alcuni forti scossoni: è il caso dei mezzi paccheri con la tumapersa o della guancia al cioccolato e limone, piatti intensi, per palati allenati che non ricercano necessariamente equilibrio in un piatto.

La vetta, però, si raggiunge nei piatti che giocano sull’eleganza e sulla finezza, concentrando i sapori degli ingredienti senza sbilanciare la composizione né nel gusto né nelle consistenze. Una cucina moderna, non eccessivamente creativa, decisamente italiana, sicuramente di alto livello tecnico. Dove fare una singola, grandissima esperienza da cliente esterno, o poter mangiare anche più giorni di fila come ospiti dell’albergo.

Una componente coerente con tutto quanto gli gira intorno, in una struttura che, siamo certi, vi entrerà nel cuore.

La Galleria Fotografica:

Signum: il sigillo che custodisce l’essenza di Salina

Il Signum di Salina è uno di quei luoghi dal quale è difficile stare lontani per più di un anno. È un luogo remoto, mentalmente difficile da raggiungere eppure, il sol pensiero di immaginarsi qui, in questo meraviglioso inno alla natura che è Salina, una delle perle delle Eolie, fa dimenticare le difficoltà logistiche e il tempo per raggiungerlo. Sono anni, ormai, che ripariamo in questa Mecca dell’accoglienza e ogni volta cogliamo ogni miglioria rispetto all’anno precedente, assaporandone i dettagli dell’evoluzione. Che sia della struttura alberghiera in sé, del personale tutto o, ovviamente, del ristorante, sempre più completo e piacevole.

La costante ascesa dei fratelli Caruso

Sono tanti i progetti in corso di sviluppo, qui al Signum. Luca Caruso è un vulcano di idee e si è ritagliato quella stima e quel rispetto necessari per poter puntare sempre più in alto, per la gioia e le necessità dell’avventore. Presto il Signum si doterà di nuove proposte gastronomiche che completeranno un’offerta già ampia grazie al bistrot, che affianca il ristorante gourmet con proposte versatili e divertenti e il cocktail bar che affaccia sulla meravigliosa terrazza. Per ora ci si accontenta – e alla grande – di un tavola dall’alto tasso di mediterraneità, che Martina Caruso sta rendendo sempre più solida e completa e che, rispetto alla scorsa stagione, offre un menu completamente nuovo, ricco di piatti inediti o riedizioni perfezionate alla luce della maturità della cuoca malfitana.

Si parte dagli amuse-bouche, un percorso di assaggi materico, omaggio ai prodotti coltivati direttamente nei dintorni della struttura. Poi si prosegue con l’immancabile bagna cauda e ricci di mare, sempre più buona, il carpaccio di ricciola, garum di alici, olio alle erbe che ricorda una passeggiata nei boschi e i profumi dei pini che si uniscono alla brezza marina; ancora la rivisitazione della murena alla brace, con gel del suo brodo e limbarda.

Golosi i primi piatti: la pasta in brodo di pesce, pomodoro, mandorle ed erbe aromatiche e lo spaghetto con alici crude, finocchietto e spuma di carpione, da amalgamare con cura per ricreare il sapore della tradizione. Materici e concettualmente perfetti i piatti principali, tra i quali segnaliamo la “terza” interpretazione della triglia, sempre notevole, servita grigliata con una bisque di triglia concentratissima, carpaccio di zucchine marinate e more locali.

Molto piacevole anche il dessert (caprino girgentano, scarola, pomodoro confit e quinoa soffiata) di questa degustazione intitolata “Un altro viaggio” (sono disponibili anche una degustazione più ampia ed una più ridotta).

Cantina già sontuosa e in continua evoluzione. Sono notevoli i percorsi degustazione alla mescita studiati per accompagnare i tre menu. Nel nostro caso, siamo partiti dalla Sicilia, da Marsala all’Etna, passando per il Friuli fino a raggiungere la Borgogna prima di rientrare sull’isola e infine approdare direttamente a Salina. Il servizio di sala ormai è degno dell’incanto dell’hotel, informale ma di grande professionalità ed estrema gentilezza.

Un passo avanti, quest’anno, anche la colazione dell’albergo, ripensata, in meglio, sotto tutti i punti di vista. Niente più buffet ma una carta ampia che spazia dalle golosità siciliane a preparazioni continentali: noi abbiamo assaggiato una fantastica granita di fragole con una buonissima “brioscia” col tuppo e lievitati di livello. Bravi, bravi, bravi.

La galleria fotografica:

“Esperienza Signum”

Tante, forse troppe volte, i riflettori del critico si accendono esclusivamente sul piatto, estraniandosi dall’ambiente circostante, a vantaggio di una valutazione quanto più oggettiva possibile della cucina. Probabilmente un approccio corretto alla valutazione del cuoco, certamente limitante alla valutazione del ristoratore. È fuori dubbio che “l’esperienza” la si può vivere nel sottopasso di una metropolitana di Tokyo quanto nella terrazza vista infinito, e noi abbiamo sempre dichiarato come i nostri voti siano legati solo ed esclusivamente alla cucina. Ciò non toglie che, nello spazio dedicato alla cronaca, ci siano dettagli che non possono passare inosservati.

Questo luogo ha una magia talmente unica che sarebbe il caso di parlare di “Esperienza Signum”: qui la bellezza ha preso casa. Una bellezza strabordante, che sembra risplendere ovunque: nella maestosa natura che avvolge il cliente in un morbido abbraccio lisergico, nei dettagli di gusto sparsi ovunque in questa grande casa aperta al mondo, nei sorrisi delle persone che sono sempre e comunque il valore aggiunto di qualunque impresa di successo. Non puoi fare ospitalità se non ami quello che stai facendo, non puoi fingere di essere quello che non sei: qui al Signum si percepisce l’orgoglio di fare parte di un meccanismo perfettamente oliato vivendo il piacere di dimostrare a chiunque venga da fuori Malfa cosa si è in grado di fare, in questo luogo.

La bellezza di uno straordinario cocktail di Raffaele Caruso, da gustare mentre il rosso del cielo avvolge piano piano Stromboli e Panarea. La bellezza dei profumi delle piante, che reclamano il loro spazio all’interno di questi giardini digradanti verso il mare. La bellezza dell’ospitalità di una famiglia che sembra nata per fare questo e, poi, la bellezza di una cucina che è perfettamente integrata in questo contesto, né troppo avanti né troppo indietro, elegante, misurata e gustosa, tassello imprescindibile dell’Esperienza Signum.

Ogni tassello del mosaico è al posto giusto

Martina Caruso ha compreso l’importanza del gesto e del racconto (vedi il servizio iniziale dei pomodori direttamente al tavolo, estratti dal barattolo e tagliati per il servizio) senza perdere di vista il gusto e l’identità di una proposta in coerenza con tutta l’offerta dell’hotel. Rispetto degli ingredienti, da manipolare il meno possibile, e concentrazione dei sapori. Quasi un manifesto di questo credo la murena alla brace servita con olio, limone e origano: il lusso della semplicità, perché non sempre le sovrastrutture hanno motivo di esistere.

Il tonno con fichi e finocchietto è un altro inno alla semplicità apparente, alla potenza degli ingredienti, summa di una proposta che sta acquisendo maturità, quella di Martina Caruso, che appare sempre più consapevole dell’obiettivo a cui puntare, dei tasti da toccare, con più convinzione per fare parte di un disegno che va ben oltre le 4 mura della sua cucina.

In tutto questo, non è per niente banale l’apporto di Luca Caruso: grande patron e grande uomo di sala. La sua proposta di vino al calice meriterebbe un premio: un viaggio di scoperta nella cultura e nell’identità del vino, con un giusto occhio di riguardo per le produzioni eoliane.

Tanti piccoli e fondamentali dettagli, tasselli di una delle migliori esperienze di ospitalità che si possano fare oggi in Italia: “Esperienza Signum”, per l’appunto.

Galleria Fotografica:

Sono tra gli elementi identitari delle isole vulcaniche siciliane, in particolare Pantelleria e Salina, anche se la loro presenza è diffusa in tutta l’area mediterranea. E sono un po’ simbolo di tutte queste popolazioni costrette a fare i conti, da sempre, con un ambiente tanto affascinante (il mare, il vento) quanto ostico (il vulcano).

Una dietrologia

Ne parlava già Dioscoride, in epoca romana, descrivendone le importanti proprietà diuretiche e, come lui, altri importanti luminari del tempo, da Ippocrate a Galeno. Per Domenico Romoli (detto il Panunto), cuoco tra l’altro di papa Leone X, “i capperi sono contrari alla melanchonia, fan vivace il coito” anche se il loro utilizzo ai fornelli era ancora marginale, come testimonia Baldassarre Pisanelli, medico bolognese, “i cappari conservati nel sale sono più per medicina che per cibo”. Ed in effetti, sia nella cultura rurale che nelle corti nobiliari, erano utilizzati come decotti per depurare fegato e vie digestive. In Sardegna erano la panacea per le varici degli arti inferiori, molto diffusa tra le donne. Con l’infuso di radici e germogli si alleviavano i dolori dei reumatismi. In tintura oleosa erano utili contro le emorroidi come per proteggere i volti più sensibili ai raggi solari.

La moderna scienza farmaceutica ne ha valorizzato alcune componenti quali la quercetina, un antiossidante naturale, o la rutina, che riduce il colesterolo. È un arbusto che sviluppa un apparato radicale molto esteso in profondità, si accontenta di poca acqua e non ama l’umidità, posto che un tempo lo si trovava tra le fenditure della roccia o dei muretti che delimitavano le aree coltivate a vigneto. I suoi semi vengono diffusi naturalmente dal vento come dalle lucertole che, essendone ghiotte, poi depositano i semi non digeriti in anfratti vari.

A dar supporto a quanto natura offriva, si narra che i rurali del tempo facevano a gara nel centrare, con i semi, le fenditure del terreno con le cerbottane, anche se i più saggi prendevano i rametti e, dopo averli protetti con un po’ di muschio, li infilavano nei vari anfratti. La stagione della raccolta va da maggio a ottobre ed è rigorosamente manuale, tanto è vero che, ad esempio a Salina, è tradizionale occupazione delle donne che si alternano tra le prime ore del mattino e dal pomeriggio al tramonto. Sono arbusti molto prolifici, tanto che ogni piantina produce il frutto a rotazioni cicliche di otto-dieci giorni. Quello che noi chiamiamo cappero è, in realtà, il bocciolo. I fiori, per forma e colore, sono sempre stati molto apprezzati tanto da essere definiti l’orchidea del Mediterraneo.

Fascino a cui non è rimasto indifferente un certo Eugenio Montale, con un passo che la dice lunga “fiori rosati che a sottili fili/pencolano da serti di coriacee foglie”. A bocciolo sfiorito rimane il cucuncio, una sorta di piccola bacca piena di semi, detta anche citrulicchiu dagli isolani, ovvero piccolo cetriolo. Sono quelli che si trovano abitualmente ad accompagnare gli aperitivi delle giornate estive. Una volta raccolti i capperi non possono essere consumati subito, in quanto molto amari, ed è il motivo per cui vengono sottoposti a una fermentazione sotto sale che però richiede un primo passaggio su teloni di juta, in maniera tale che i boccioli smaltiscano il calore. Se infatti venissero salati subito si disidraterebbero velocemente e perderebbero le caratteristiche che li rendono di fascinosa golosità. La salatura richiede circa un mese. Tradizionalmente si svolge all’interno delle tinedde, vecchie botti tagliate a metà. I capperi possono essere conservati sotto sale anche per anni e pur se ne esistono versioni commerciali sotto aceto va pur detto che non è la stessa cosa.

Bisogna anche dire che la produzione italiana copre circa la metà del mercato e deve confrontarsi con una concorrenza dove i costi della manodopera, dalla raccolta prevalentemente meccanizzata, ma anche la qualità finale del prodotto, sono completamente diverse. Pur se la produzione è concentrata prevalentemente in Sicilia, vi sono altre piccole enclave con le loro storie. Ad esempio in Sardegna, a Selargius, come in Puglia, ma vi sono anche i capperi emigranti. Quelli che, da secoli, allietano la comunità di Lugo di Romagna. Qui, verso fine Ottocento, il comune ingaggiò gli abitanti più volonterosi affinché li raccogliessero lungo le vecchie mura cittadine. L’attività è tornata in uso in anni recenti, ma per capperi che, raccolti e lavorati da premurosi volontari, non vengono messi in vendita ma valorizzati quale pregiato omaggio del sindaco a ospiti di riguardo o come fonte di bene augurio per i novelli sposi.

Ma è ora tempo di lasciare i muretti lungo le pareti vulcaniche e di entrare in cucina…

Qui possiamo trovare il cappero elaborato in diversi modi e di cui non si butta via niente, ad iniziare dalle foglie, che possono essere usate come componente croccante su diverse preparazioni. I cucunci, oltre che come sparring partner all’aperitivo, possono essere tostati e trasformati in granella da spargere a piacere. Anche i fiori, fritti in pastella, possono essere una piccola coccola golosa. I capperi, una volta dissalati sotto acqua corrente, sono estremamente versatili. Quelli dal taglio più piccolo possono essere consumati interi, vuoi a decorare uova sode come insalata russa o salsa tonnata. Per quelli di taglia medio grande è consigliabile tritarli un po’, così da esprimere al meglio le loro proprietà. Li possiamo incontrare nella pizza, siciliana o napoletana, come abbinati alla pasta, puttanesca in primis. Ma è la cucina locale isolana che fa la differenza. Lavorandoli a pesto, con mandorle, olio e basilico, a Salina li troverete abbinati a spaghetti o fusilli, ma anche nell’insalata pantesca, con pomodori e patate lesse. Sulla caponata poi le declinazioni del territorio si sbizzarriscono a iosa, tanto che l’accademia italiana della cucina è arrivata a censirne oltre una trentina di varianti. Nato come piatto della cucina baronale, con le verdure che andavano ad accompagnare il pesce (il capone, da cui il nome), si è radicata nella cucina popolare con le sole verdure, e la melanzana protagonista, ovvero la violetta lunga palermitana, che sopporta meglio la doppia cottura, soffritta prima e spadellata poi. Nella variante agrigentina oltre a peperoni, olive e pomodori, ecco miele e pinoli; mentre in quella trapanese entrano in gioco le mandorle, o l’aglio e patate in quella catanese. A Pantelleria ecco la sciakisciuta, arricchita da formaggio e uova. Vi è anche la versione agnostica (cioè senza melanzane) ai carciofi. Caponata talmente in spolvero che, sul finire dell’Ottocento, grazie anche alla forte richiesta dei migranti oltreoceano ne è nata la versione industriale, denominata caponatina, per il taglio più piccolo degli ortaggi.

Autentico e seriale peccato di gola del commissario Montalbano, che se la godeva ai quattro palmenti. Così ne racconta Andrea Camilleri: “Appena aperto il frigo la vide, la caponatina. Naturali, spontanee gli acchianarono in bocca le note della marcia trionfale dell’Aida.” Più di così può solo la cucina stellata. Ed ecco scendere in campo Massimiliano Alajmo, il tristellato delle padovane Le Calandre, con una sua invenzione che è entrata nella leggenda: risotto, capperi e caffè “da gustare rigorosamente con il cucchiaio di legno”. La lista stellare può proseguire con Mauro Uliassi, di Senigallia, e la sua ricciola alla puttanesca. A questo punto come negarsi i capperi al conseguente dessert. C’è ampia scelta. Si può andare dai cannoli eoliani (con ricotta di pecora, capperi canditi e granella di pistacchi) della dolceria Rundo di Salina e, giusto per finire in bellezza, ecco pure il gelato ai capperi (con l’immancabile ricotta complice). Ed è proprio il caso di lasciarsi sfuggire un ca…pperi quanta goduria!  

* In copertina, capperi in fiore a Salina.