Non esiste appassionato, almeno in Italia, che non debba ad Andrea Petrini almeno un paio di segnalazioni gastronomiche che gli hanno cambiato la vita.
Chi, tra noi, sarebbe mai finito a dormire su una piccola barca ormeggiata in un’isoletta svedese, leggi Oaxen Krog, o sarebbe andato in cerca della sogliola della vita in una torrida Vichy agostana o avrebbe lasciato il cuore in un mini bistrot della rue Legendre, senza leggere un suo pezzo?
Ci troviamo quest’anno a commentare un’altra delle trovate di questo agent provocateur, inscritta nel più generale progetto Gelinaz!, un collettivo di chef da tutte le latitudini messi insieme dal nostro per realizzare cose letteralmente mai viste intorno al cibo.
In una scena gastronomica sonnecchiante come quella della Roma di questi tempi il Gelinaz Shuffle ha portato tre ore di divertimento “scambistico” (no, non parliamo di DSK…) ospitando nelle cucine del Jardin De Russie il bravissimo Bertrand Grébaut di Septime, a Parigi.
Un passo indietro: cos’è il Gelinaz Shuffle (o cos’era, visto che Gelinaz non è un semplice collettivo che replica per pigrizia formule di successo)?
Un’idea nemmeno così folle: prendere 37 cuochi di culto provenienti da ogni angolo del mondo e fargli scambiare, “vita, identità e ristorante”, per dirla alla Gelinaz.
In ogni locale, da Melbourne a Roma, Tokyo, San Paolo, lo chef, rimasto ignoto ai commensali sino alla lettura del menu, aveva il compito di preparare una cena di otto portate in linea con la cucina dello chef e del territorio ospitante, il tutto secondo la visione e la creatività dello chef ospite.
Una sfida, insomma, ai cuochi in primis, ma anche alla curiosità del pubblico.
Nella performance romana la cornice era quella del dehors dell’Hotel De Russie, una location ricca di fascino dove gli interrogativi erano tanti: cucinerà Ducasse o Aduriz, o magari sarà Atala o Desramaults?
E se poi ci capita un australiano alla prima vacanza romana?
La scelta (o la fortuna? Perché il meccanismo dello scambio resta misterioso e insondabile, ed è giusto così) ci ha portato a provare la cucina di Bertrand Grébaut, tutto sommato un vicino.
Ed è stato un successo, perché questo giovane e sensibile chef ha saputo dare una bella rilettura dell’idea di cucina di un maestro come Fulvio Pierangelini che in questo splendido hotel lavora da qualche anno come consulente.
Grébaut non è un novellino, nonostante l’età: prima di aprire con straordinario successo (provate a trovare posto…) Septime e i suoi due annessi Clamato e La Cave in un angolo super gourmand dell’11e arrondissement, ha passato anni al fianco di Robuchon e Passard, arrivando a maturare una cucina con un ancoraggio forte alla grande scuola transalpina ma una sana apertura alla modernità e soprattutto alla leggerezza.
Il tutto con una maniacale attenzione alla materia prima.
Capire lo spirito della cucina di Pierangelini e saperne restituire lampi e sfumature era impresa non scontata ma innegabilmente riuscita, nei calchi apparentemente più fedeli (il tortello al pomodoro, con la sferzata craquante della mozzarella di Barlotti) o nelle tappe più personali come le verdure infuse nel fieno e yogurt, la riuscitissima melanzana con nocciola e ovuli o la ricciola dal taglio spesso ma affinata da un’acqua di pomodoro al dragoncello di grande eleganza.
La “fusion” fra cucine di chef che hanno diverse matrici assume qui significati e connotati ideali.
Il termine, inflazionato come pochi e impoverito da derive ambigue e superficiali, spesso specchio di idee approssimative e confuse, rivendica qui la propria massima dignità.
I concetti e le idee di persone che con le loro esperienze e personalità hanno arricchito il panorama gastronomico mondiale raggiungono la massima sintesi possibile, la vera fusione.
L’interesse che suscita un esperimento del genere, chissà se unico e irripetibile, riesce ad andare oltre la singola, pur notevolissima, performance.
I brividi e l’eccitazione provocati dall’attesa dei piatti preparati in maniera quasi estemporanea da questi professionisti che in un paio di giorni si calano in realtà diverse dalla loro utilizzando materie prime che conoscono poco sono davvero intensi e riescono ad avvicinare come poche cose al vero concetto di globale, di qualcosa che oltrepassa davvero, abbattendole, le barriere.
La cena è stato un unicum, come detto, ma il fermento alla base di questo progetto ci auguriamo possa produrre altri eventi interessanti e significativi come questo Gelinaz Shuffle.
Testo di Norbert e Roberto Bellomo, foto per gentile concessione di Lorenza Fumelli (www.agrodolce.it)
Amuse bouche.
Ricciola, acqua di pomodoro al dragoncello.
Verdure infuse nel fieno e yogurth.
Melanzane, nocciole e ovuli.
Ravioli di pomodoro e mozzarella di bufala.
Gambero, pancetta e cipolle dolci.
Pesche tabacchiere e citronella.
Fico e gelato alle foglie di fico.
In un paese come l’Italia, campanilista per eccellenza, la territorialità gastronomica non è certo un elemento accessorio cui approcciarsi superficialmente, piuttosto una parte imprescindibile del lavoro di molti chef, un vero e proprio prisma capace di emanare riverberi di colore dalle mille sfumature diverse.
Lucio Sforza ne cattura alcune di esse e le offre con sapiente abilità a Roma dove, da tempo, ha spostato la sua piccola ambasciata orvietana, prima alle spalle della Nomentana e poi, dal 2011, in due salette nei pressi di via nazionale, in pieno centro cittadino.
Il riferimento all’orvietano e a quella zona a cavallo tra le provincie di Viterbo e Terni è utile a definire ulteriormente il suo presidio romano; la vigoria, spesso a base di pepe e generoso uso dell’olio, tipiche della regione umbra, viene qui decisamente temperata e accompagnata da una maggiore attenzione alla composizione del piatto.
L’elenco delle vivande è manifesto di una rassicurante aderenza a ricette familiari e conosciute, un solido baluardo della tradizione circoscritta a un ben definito territorio; il tocco applicato alla caratterizzazione delle stesse è alquanto gentile e non indulge nei pesanti rilievi di cui sopra che facilmente potrebbero alterare il godimento delle stesse soprattutto a livello postprandiale.
E allora ecco che, oltre a cotture come si deve, soprattutto delle carni, l’attenzione non può non cadere su accompagnamenti molto appropriati come una salsa al lampone che guarnisce molto felicemente il fuso d’oca o la suprema di peperoni che rifinisce e completa in modo delicato l’ottimo baccalà, piccoli particolari che delineano molto bene la validità della cucina.
Certo, non tutto segue la medesima falsariga, vedi l’emulsione di rucola e acciughe che riveste lo stinco o la salsa speziata che viene servita con le lumache, entrambe non proprio dotate della stessa eleganza, anche se altrettanto capaci di non far venire meno la golosità dei due piatti.
Buoni anche i dolci che permettono una chiusura adeguata al pasto e denotano una non trascurabile diligenza nella loro preparazione, specie nel tiramisù, dove il pane sostituisce in modo molto convincente i savoiardi arricchendo una ricetta classica altrimenti ritenuta rigorosamente blindata.
Interessante la carta dei vini, non ricchissima ma coerentemente concentrata sulle regioni dell’Italia centrale, dove scegliere una buona bottiglia a prezzi ragionevoli non rappresenta certo un’impresa.
Mise en place
Amuse bouche: crema di fave e pecorino con zuppa di cavolfiore
Lumache in salsa piccante e finocchietto
Pappardelle con ragù bianco di fegatini d’anatra al vin santo
Fettuccine con pesto di asparagi, carciofi al cartoccio, noci e fichi secchi.
Baccalà con cipolle e uvetta su crema di peperoni
Fuso di oca stufato ai lamponi con friggitelli
Stinco di maialino brasato con emulsione di rucola e acciughe e cipolla al cartoccio
Tris di dolci ( serviti contemporaneamente): tiramisù di pane, riuscita versione del classico tiramisù con il pane che sostituisce i savoiardi, bavarese di ricotta e bacche di gelso con lampone e meringhe e buon budino di salvia e zabaione.
A proposito di territorio…
Interno
Nella cittadina di Ostia, che insindacabili e ineffabili regole amministrative considerano parte integrante del comune di Roma, la coppia Daniele Usai e Claudio Bronzi, da una decina d’anni a questa parte, ha spostato sensibilmente verso il mare il baricentro della ristorazione di livello della capitale.
Due lustri non sono pochi nel mondo della ristorazione, specie in questi tempi di svariati e frenetici avvicendamenti, e, soprattutto da queste parti, sono una rarità assoluta e inedita oltre che testimonianza della solidità dell’impresa.
Questi lidi conosciuti, in realtà, più per le antiche vestigia e per le spiagge molto popolari fra i romani che, a dir poco numerosi, si riversano qui nella bella stagione, non annoveravano fra le risorse degne d’interesse anche una signora tavola.
In una delle stradine del centro, non lontanissimo dal mare, una piccola bomboniera di tre raccolte salette è divenuta meta, a ragione, dell’attenzione di un pubblico eterogeneo e costante.
Qui trova ampia soddisfazione, infatti, sia chi è alla ricerca di un indirizzo tranquillo dove passare una lieta serata seguito, con inappuntabile savoir faire, da un servizio informale e garbato, sia chi è un impenitente goloso e si è diretto qui per godere di una cucina eseguita a regola d’arte.
Quanto verrà proposto è espressione di uno stile che prevede materie prime, cotture, accostamenti essenziali e precisi, e dove chiaramente emerge la capacità di chi conosce bene le basi e le applica con rigore e diligenza.
Un tortello confezionato come si deve, un risotto mantecato alla perfezione, una spatola cotta e farcita in modo encomiabile ne sono inequivocabile dimostrazione.
Alcuni particolari, quelli che alla fine potrebbero permettere il salto di qualità a una cucina, denotano però la necessità di una maggiore attenzione alla concezione del piatto piuttosto che alla sua esecuzione.
Così il brodo e il crudo di scampi non riescono a essere degni antagonisti dell’amaro della cicoria che farcisce i tortelli, allo stesso modo la gelatina al nero di seppia, nascosta nel risotto, resta insalutata ospite, non partecipando affatto al piatto; o ancora, la salsa alla menta che accompagna la spatola è di una concentrazione eccessiva e assolutamente sproporzionata all’eventuale funzione cui sarebbe destinata.
Avendo già detto del servizio, non si può non menzionare Claudio Bronzi anche per l’appassionata e notevole selezione di vini caratterizzata dalla presenza di molte etichette meno note ma di valore, che consente a prezzi accessibili scelte interessanti di singole bottiglie o la possibilità di ricercati accompagnamenti studiati con attenzione.
Mise en place.
Pani.
Ostrica.
Gamberi di Mazara, maionese con melissa e citronella, caviale all’arancia rossa.
Ricciola affumicata, cipolla rossa, amaranto e dragoncello.
Tortello ripieno di cicoria di campo, crudo di scampi e brodo al prosciutto crudo.
Spaghettone Cavalieri ripassato in ajo, olio e peperoncino, vongole e chips di aglio.
Risotto al cedro, seppia arrosto, lattuga di mare, cuore di gelatina al nero di seppia.
Particolare del cuore di gelatina, elemento discretamente avulso dal piatto.
Filetto di spatola con cuore di carciofo, invadente salsa alla menta.
Predessert: mousse al cioccolato bianco e fragole.
Crema al limone, liquirizia, yogurth all’anice liofilizzato, sambuca (accompagnato dalla Sambuca).
Soufflèe alla nocciola, fondo di gianduia (accompagnato dal Passonero di Occhipinti).
Spugna al cacao, mousse e gelato alla banana, il meno significativo di quelli assaggiati (accompagnato dal muffato di Antinori).
Panna cotta al latte di capra, limone e tè matcha, il più riuscito dei dessert (accompagnato dall’acquavite di pere).
Petit four.
Dalla degustazione vini selezionata dall’ottimo Bronzi…
Parterre de rois per l’accompagnamento dolci.
Interni.
E’ proprio vero che, a volte, il destino ha più fantasia di noi.
Avrebbe mai potuto immaginare il giovane Gianfranco Pascucci che il suo futuro (stellato) sarebbe stato proprio quel locale aperto dal nonno come semplice punto di ritrovo dei cosiddetti “fagottari”, in quel dell’Isola Sacra di Fiumicino?
E invece è andata proprio così. Con Gianfranco e la moglie Vanessa che nel 2000 decidono di rilevarlo all’asta, dopo anni di declino dovuto a non fortunate gestioni, ed aprirci il loro ristorante.
Dapprima con l’occhio ai grandi numeri, poi, gradualmente, con sempre maggior attenzione alla qualità della proposta, fino a farlo diventare uno dei più apprezzati ristoranti di pesce del centro Italia.
Non ha fatto grandi esperienze in cucine rinomate Pascucci, è autodidatta, con una grande passione a fargli da mentore. Una passione che gli si legge negli occhi quando passa tra i tavoli.
Già, perché Gianfranco non è uno di quegli chef che restano in cucina o che, se escono, lo fanno solo perché “devono”, per recitare una parte. Lui lo fa perché gli piace. Così come agli avventori piace poter conoscere lo chef, poterci parlare, a lui piace osservare i propri clienti mentre gustano le sue creazioni e raccoglierne le impressioni. Con la modestia di chi, pur consapevole delle proprie capacità, è sempre pronto a ricevere osservazioni e suggerimenti per migliorarsi. Non è da tutti.
La sua carta vincente? Il rispetto assoluto dell’eccellente materia prima (tutta pescata, non allevata). Quasi tutti gli chef ritengono di rispettare le materie prime, ma pochi lo fanno davvero.
D’altronde le tecniche sofisticate si possono apprendere, il palato si può in qualche modo educare ma la sensibilità per la materia prima quella no, quella è innata.
Cotture perfettamente centrate ed un uso oculato degli ingredienti restituiscono piatti ben eseguiti e piacevolmente equilibrati, con il pesce in primo piano. Non nascosto, non ostaggio di spezie e condimenti, ma assoluto protagonista, anche nei piatti concettualmente più complessi e strutturati.
In sala, a fare da contraltare ai virtuosismi dello chef tra i fornelli, la cortesia della moglie Vanessa ed una brigata di sala, giovane e dinamica, che garantisce un servizio di livello senza debordare nel formalismo di maniera.
La carta dei vini offre una apprezzabile varietà di etichette ben distribuite per provenienza e fasce di prezzo.
I ricarichi, salvo forse qualche sporadico caso, sono ragionevoli e consentono, soprattutto ad un occhio attento, bevute interessanti senza spendere un patrimonio.
L’unica cosa di cui si sente la mancanza, a dire il vero, è una bella vista mare, dato che la location non è certo uno dei punti di forza del ristorante. Non è certo una sorpresa per il cliente, ma gustando un pesce di questo livello la voglia di una bella terrazza sul mare aperto si fa sentire più forte che mai, nonostante la sua mancanza sia comunque ben compensata dalla qualità della proposta. Se per il mare aperto occorre chiudere gli occhi ed immaginarlo, per appagare il palato e lo spirito è sufficiente assaggiare quanto arriva in tavola.
Sicuramente tra le più intriganti tavole di mare della penisola. Per chi lo frequenta è sempre un piacere tornare, per chi non lo conosce è una meta improcrastinabile. Perché perfetto? No. Perché troverete una cucina di grande livello, mai banale, mai sopra le righe, interpretata da uno chef schietto, preparato, passionale ed appassionato, affabile, sorprendentemente simpatico e soprattutto modesto. Forse più di quanto non dovrebbe.
In tavola, focaccia e grissini di buona fattura…
Come benvenuto, un piccolo hamburger di mare: panino fritto, al latte e limone, con una battuta a coltello di tonno rosso, maionese al cipollotto e foglie di senape. Un gradevole inizio che sa stuzzicare efficacemente papille e appetito.
Sandwich di rosole e gamberi: un buon antipasto con gamberi rossi e gobbetti in ceviche avvolti nelle rosole brinate di umeboshi. La salsa alla pizzaiola (sotto alle rosole) arricchisce ulteriormente il gusto di un piatto, solo apparentemente semplice. Forse appena eccesiva la quantità di verde che, con la sua pur gradevole nota amarognola, rischia di inglobare sul piano gustativo l’eccellente gambero sottostante. La gradevole spugna di porro completa il piatto.
Il pesce spada e la sua preda (le alici): bocconcini di crudo di pesce spada con pane, burro ed alici su purea di broccoli verdi e cipollina marinata con aceto balsamico. Un piatto esteticamente riuscito e dal buon equilibrio gustativo con la materia prima, eccellente, assoluta protagonista.
Baccala mantecato e glassato nel peperone secco di Senise, pinoli tostati, gel di limone e pepe rosa su base di salsa verde alle acciughe: un passaggio dal gusto deciso con il baccalà totalizzante. Il gel al limone aiuta a riportare in equilibrio il palato con la sua acidità. Peccato sia poco.
Calamari in tempura con composta di cipolle rosse di tropea in agrodolce ed arancio: tempura perfetta, croccante fuori, soffice dentro. Riuscito l’accostamento con la composta di accompagnamento.
Ravioli liquidi di pesce: ravioli verdi ripieni di emulsione di pesce, acqua di pomodoro e mazzancolle appena scottate. Completano il piatto foglie di mizuna rossa, verde, rucola e crescione d’acqua. Altro ottimo passaggio, dal gusto complesso ed equilibrato.
Merluzzo di coffa in foglia di limone, succo di broccoletti, alghe e olive: il merluzzo di grossa taglia, viene avvolto in foglie di limone e cotto poché nel suo brodo. A completare il piatto un succo di broccoletti ed alghe e una cialda all’amaranto. Grande materia prima, grande cottura, bel piatto.
Triglia croccante, foie gras al marsala e lamponi: abbinamento non scontato tra una buona triglia, perfettamente fritta in pastella, ed il foie gras cotto nel marsala. Completano il piatto una pera caramellata, delle nocciole (sia tostate che in emulsione) e dei lamponi ghiacciati. Piatto tutto incentrato sui contrasti. Di consistenze, di temperature e di sapori. Quest’ultimo ovviamente va a favore del foie gras con il pesce che ne esce leggermente sovrastato più che accompagnato.
Gamberi rossi al sale, profumi di erbe bruciate ed agrumi: un classico, sempre piacevole, soprattutto per la calibratissima nota fumè, elegante e non invasiva.
Prima di passare al dessert, Gorgonzola al Porto.
Millefoglie di burrata con granita di frutti rossi e pomodori: un dessert rifrescante e ritemprante con la granita di pomodori e frutti rossi assoluta protagonista.
Bignè allo zabaione con meringa al caffè: un buon dessert, anche se non al livello del precedente.
Per accompagnare il caffè a cura del laboratorio Giamaica caffè’ di Verona, la piccola pasticceria…
I vini scelti per accompagnare il percorso:
Champagne Bruno Paillard Première Cuvée.
Meursault-Balgny – Luis Jadot.
Roma è una città che non puoi visitare una volta sola, devi tornarci per forza.
Per apprezzarne tutte le sfaccettature, anche quelle meno evidenti.
E perché ogni volta sa regalarti emozioni diverse ed inaspettate.
Con il Pagliaccio di Anthony Genovese è un po’ la stessa cosa.
Ogni visita qualcosa di nuovo, di diverso, a volte anche di inatteso.
Solo chi in questi dodici anni – tanti ne sono passati dall’apertura nel 2003 – ha avuto modo di sedersi più volte a questa tavola, può rendersi conto dell’evoluzione che c’è stata, tanto in cucina quanto in sala.
Per quanto riguarda la sala, che nel corso del tempo è stata più volte rinnovata negli arredi, quasi a seguire il percorso evolutivo dello chef, il timone è sempre più saldamente nelle mani di Gennaro Buono, il restaurant manager, e Matteo Zappile, chef sommelier. Servizio preciso e altamente professionale, a tratti forse un po’ ingessato ma sicuramente meno distaccato che in passato. Ed è un bene perché qualche anno fa, non ce ne voglia l’ottimo staff del Pagliaccio, era un po’ troppo freddo. Ora una maggior naturalezza, pur nel formalismo di circostanza, rende l’esperienza al tavolo decisamente più rilassata e rilassante.
Passando alla cucina, la sensazione, maturata nel corso delle nostre visite, è che Genovese, una volta stabilitosi in via dei Banchi Vecchi, abbia iniziato un graduale processo di rielaborazione di tutto quanto visto, assaggiato ed appreso nel lungo peregrinare professionale, nel corso dei tre lustri precedenti, tra Italia, Francia, Giappone, Thailandia ed Inghilterra.
Il Pagliaccio di oggi ci restituisce una cucina ormai ben delineata quanto ad impronta stilistica, ma sempre in divenire quanto a linguaggio espressivo. Una cucina sicuramente più “di testa” che “di pancia”. Cerebrale ed intransigente come il suo autore, di un rigore quasi giansenista che rimanda alle numerose esperienze asiatiche, ma dotata di una capacità di sedurre tutta italiana.
Forse meno spinta di quella dei primi anni ma comunque di non facile approccio per i gourmet meno smaliziati.
Se da un lato questo essere meno decisa, meno concepita per stupire rispetto a quella, quasi provocatoria, dei primi tempi, può essere considerato un passo in avanti, dall’altro il rischio è che alcuni piatti, pur tecnicamente ineccepibili, possano apparire carenti di carattere, risultando meno incisivi di altri, ed un piatto meno incisivo rischia di tradursi in un piatto meno emozionante.
Nel suo complesso quella del Pagliaccio resta una di quelle esperienze che difficilmente si dimenticano, in grado ogni volta di allargare gli orizzonti gustativi di ogni appassionato, anche del più smaliziato. Senza dubbio una delle migliori tavole capitoline.
L’amuse-bouche: Tacos con lenticchie, burrata ed erbe di campo e gocce di aceto balsamico tradizionale di Modena 20 anni.
Panino al vapore con burro al fieno, glassa di lime e camomilla: particolare il panino, piacevolmente rinfrescante la glassa di lime.
Uovo di quaglia caramellato, castagne all’arancia e gelato di birra: interessante per il contrasto di consistenze e temperature, gustoso anche se non in perfetto equilibrio.
Cannolo di foie gras con caramella alla violetta ed anguilla: un bel colpo in bocca, potente ed equilibrato.
Pescatrice con crema di sesamo nero e acqua di spinaci: cottura perfetta, delicato e persistente. Il sapore minerale degli spinaci si sposa alla perfezione con la tendenza dolce del pesce.
Gambero rosso, limone e porro bruciato: un gambero eccellente, il limone presente ma non invasivo, la nota bruciata del porro, uno dei passaggi migliori. Grande equilibrio, intensità e persistenza gustativa, peccato non averne ancora.
Capesante, carote, zenzero e lime: la cottura è perfetta ma in questo caso il quid pluris è dato dal mix di carote, zenzero e lime. Acidità, speziatura e nota dolce perfettamente bilanciate. Un gran piatto.
Tagliatelle con olio e peperoncino, alga fritta e pannocchie: un passaggio che, nella sua apparente semplicità, colpisce per equilibrio e piacevolezza.
Dim alla piastra, verza e ossobuco: uno dei cavalli di battaglia dello chef che, ahinoi, non è stato uno dei passaggi che ci hanno più entusiasmato.
Dal mare… dall’orto: triglia, 3 radicchi (trevigiano, chioggia e giallo variegato) composta di capperi e pelle di pollo croccante: un inconsueto incontro di mare e terra con la triglia cotta alla perfezione, tenera e succosa ed un pollo che invece arriva al limite della ridondanza.
Piccione, crema di kumquat e riso thai: gran piatto, punto.
Snack di formaggio: crema di blu del lago, biscotti di fava di cacao ripieni di mousse di datteri, salsa di frutto della passione e mela annurca: in questo caso, sebbene nel complesso il piatto non dispiaccia, la sensazione è quella di due rette parallele che non si incontrano. L’equilibrio non è di casa, forse è semplicemente voluto così.
Prima del dolce: granita di lychees, salsa di zenzero e chips di lampone. Fresco, acido e leggermente speziato. L’ideale preludio al dolce.
Barretta cremosa alla birra Kriek, crumble di ovomaltine e ciliegie: tecnicamente eccellente, non entusiasmante al palato.
Un’ottima e varia piccola pasticceria.
Per accompagnare la cena abbiamo scelto:
Champagne Krug Grande Cuvée.
Gevrey-Chambertin Premier Cru – Craipillot 2002, Domaine Humbert Frères
Rosé Porto 2013 10° Anniversario Il Pagliaccio – Kopke