Roma sta cercando di riconquistare il proprio opulento appeal culinario anche grazie a rilanci di fine dining inseriti in hôtellerie di livello. A due passi da via del Corso, l’Adelaide Restaurant s’inserisce nella visione del concept di ospitalità su misura dell’Hotel Vilòn, rappresentandone il perfetto archetipo. Il nome dell’insegna è un tributo alla Principessa Adelaide Borghese de la Roche Foucauld, moglie del Principe Scipione.
La sala ristorante è un concentrato di charme e caratterizzata da stile vagamente bohémienne fatto di colori orientaleggianti protesi anche in un jardin d’hiver che può ospitare un’altra manciata di coperti. L’atmosfera accogliente, a tratti familiare, è solo l’antifona della cucina la cui cabina di regia è affidata a Gabriele Muro. Chef procidano forgiatosi con articolate esperienze in Italia e all’estero, capace di assicurare bella profondità ai piatti, originali e tecnicamente di livello, in cui il pesce diviene protagonista quasi assoluto, proposto con una visione leggera, gustosa e colorata, cromaticamente bella da vedersi e buona da gustarsi. Una firma identitaria, quasi fusion-campana.
Un mix tra classico e contemporaneo animato da verve mediterranea è la chiave identitaria dei piatti, in cui si palesano sapori centrati, frutto anche di un’attenta scelta degli ingredienti stagionali, pescato del giorno incluso. Utilizzato per il piacevole fuori menù, una fresca Tartare di spigola servita con riduzione di carote, o per farcire il gustoso sandwich Il Vizietto, cavallo di battaglia dello Chef e della sua isola. Ben strutturata anche la componente vegetale, cui viene riservato apposito menù e più da vicino apprezzato nel Carciofo si fa in tre, rielaborazione creativa in relative consistenze, ad omaggiare che omaggia la Capitale: in crema, cialda fritta e arrosto.
Tornando idealmente a Procida, si dilatano le percezioni gustative in “Pasta e patate” con crudo e cotto di pesce, arricchita con bisque di crostacei e polvere di pesci. L’esemplificazione di testa e mano intente a pensare e realizzare portate dai sapori penetranti. Un piatto di pancia insomma. Sensazione ripetuta con acume nella Linguina di Gragnano con delicato carpaccio di scorfano, servita in crema di friggitelli (rossi), briciole di tarallo e bottarga. Un ideale incontro tra il pescatore e l’ortolano. Non solo coreografico ma anche ben scandito nella varietà dei passaggi l’Oyashio, nome che rievoca una fredda corrente oceanica che passa vicino al Giappone. Protagonista del piatto un rombo marinato al miso, accompagnato da una maionese allo zenzero, pak-choi, salsa di soia, riduzione del pesce stesso e cipolle rosse in agrodolce. Di livello anche i dessert. L’Oro di Procida, rifinito a tavola con azoto liquido, presenta all’interno una mousse e composta di limone, mentre all’esterno cioccolato bianco e buccia semi candita. Concettualmente più goloso il Cremoso al pistacchio salato, chantilly, mascarpone, lime e coulis ai frutti di bosco, per nulla spinto sulla parte zuccherina.
L’attenta quanto informale sala, con la sua proposta enoica, di bella profondità sugli Champagne, si coniuga alla precisione stilistica e alla concretezza dei piatti, serviti in ambienti quasi ovattati, da respirare, gustare e godere appieno, prima di rituffarsi nella frenesia delle vie centrali della città eterna.
IL PIATTO MIGLIORE: Linguine, carpaccio di scorfano e friggitelli.
Erano tre, tutti “Retro” (-vino, -pasta, -bottega), ed è diventato uno: ma la creatura di Alessandro Miocchi e Giuseppe Lo Iudice, anche in questa nuova formula e anzi, se possibile, ancora di più, è più in forma che mai, e difatti continua ad accogliere su grandi tavole condivise ogni avventore, con o senza prenotazione, a ciclo pressoché continuo.
Tavole, queste, su cui va in scena una cucina democratica e ispirata che fa un uso oculato degli elementi animali, e che si diverte facendo divertire giocando con le consistenze – vedi le lenticchie soffiate della Torta di verza – e le erbe aromatiche, come nell’agreste brodo di finocchietto e menta per i Bottoni di pecora. Ed è una cucina precisa e rigorosa ma non anaffettiva, anzi, devota al piacere – dichiaratissimo nel Katsusando di cavolo rosso – e che gratifica a cominciare dal pane e dalle focacce, che del resto ancora si può entrare a prendere solo caffè e brioche da Retrobottega, che ha mantenuto fieramente la sua vocazione ibrida e libera mutuata dal concetto di “retro”, da intendersi come “retrocucina”, al punto che, qualora non si volesse optare per il Sabotage – percorsi fuori menù da tre o cinque portate – si può comunque contare sulla sportività di una brigata in grado di scombinare la sintassi del pasto cucendosi attorno alle volontà o ai capricci del cliente.
Tornando ai piatti da evidenziare alcune peculiarità finora solo accennate. La ricorrente componente aromatica, ricercata con erbe aromatiche o essenze come la Chartreuse nella succitata torta di verza, l’ibisco nella maionese del katsusando o l’aglio nero nella Crema di topinambur coi funghi arrosto, è sempre molto presente, così come quella amarotica, che ricorre a dare profondità e, soprattutto, originalità a ogni piatto e questo anche se, come detto, ci muoviamo sempre in un registro di rotondità del gusto, che è pertanto sempre molto accomodante oltre che rassicurante.
Per questo motivo, lo confessiamo, è forse la prima volta che ci troviamo in difficoltà circa l’attribuzione del valore “oro” – da noi dato alla cucina classica – e “rosso” – che riserviamo invece a quella d’avanguardia. Data la sportività della proposta, la libertà nella sequenza dei piatti e anche per ragioni di continuità col passato, optiamo per il rosso ma, dobbiamo ammetterlo, con riserva. Perché l’esperienza di Retrobottega ci insegna che la cucina più evoluta e più consapevole è quella che non si incasella, e che libera e fonde tra loro tutte le categorie istituite dall’uomo al fine di comprenderla.
IL PIATTO MIGLIORE: Torta di verza, lenticchie soffiate, salsa Chartreuse.
La cucina come arte. Proiezione che continua a dividere finanche il mondo gastronomico; quale possibilità che le due dimensioni combacino, sfiora l’immaginario collettivo solamente, senza attecchirvi. Eppure, tutta “contemporanea”, la prossimità di vocazione delle due si è fatta stringente: a veicolare messaggi è anche l’haute cuisine; da lontano microcosmo di cucinieri vissuti nell’ombra, si riscopre universo di maître à penser chiamati sotto i riflettori a sensibilizzare l’opinione pubblica sul “mondo”. Nel fine dining più illuminato, la distinzione post-rinascimentale fra genio creativo e artigianato sembra assottigliarsi; in alcuni casi, scomparire. Così, per quanto la questione resti di quelle spinose, risulta non trascurabile l’impatto della prospettiva artistica sull’espressività culinaria degli ultimi decenni: ne è traccia indelebile il Dripping di pesce di Gualtiero Marchesi, ispirato dalle tele di Jackson Pollock.
Tra chi si sente artista e chi artigiano, si iscrive curiosamente alla seconda schiera Marco Martini, Chef e patron dell’omonimo ristorante con sede al The Corner, hotel locato tra la Piramide Cestia e il Colosseo. Approccio un po’ insolito per uno che ha frequentato l’istituto d’arte e la cui proposta è figlia di un principio estetico che va impreziosendosi di fantasie dai colori vividi e sgargianti. Come il rosso brillante di una coccinella. Sono le sembianze fatte dessert dell’ottima Zuppa inglese in carta; nell’attuale interpretazione del cuoco, la “pellicola” all’alchermes di botturiana estrazione viene ora punteggiata di nero, a richiamare la corazza dell’insetto, mentre la ceramica di servizio del dolce, quasi sulla falsariga nipponica del gyotaku, completa il pattern con testa e zampette. Dunque, profilo edibile e visivo si incontrano, con l’eventualità che il confine fra toque e pennello si faccia labile.
La strategia di comunicazione del vecchio allievo di Antonello Colonna però non si affida esattamente allo stesso orizzonte. Anzi. Lo storytelling è asciutto. Il servizio deliberatamente minimalista. Si “bada al sodo”, parola di Marco Martini. Nello stellato di viale Aventino risuona una ritmica di sapori nitida, talvolta intensa e perlopiù pop, raccontando di una cucina che vuole essere riconoscibile, di facile lettura, etimologicamente, laica. Ad alimentarla il ricordo. Declinazioni di ricette cult, principalmente “romane”, in grado di risvegliare le reminiscenze golose di molti. Del resto, che cos’è il cibo senza memoria? Quella di una vignarola: qui meno carica al palato e sotto la veste più raffinata di un compound primaverile di piselli freschi, crema di fave fritte e brodo di carciofi, che abbraccia il calamaro e il suo “lardo speziato” in una versione piuttosto profumata e di inedita delicatezza. Definito “evocativo”, questo stile pare offrire il meglio di sé con Merluzzo, patanegra e arancia amara. Un signature storico dello Chef. Un’evoluzione, in senso lato, del più tradizionale pesce al vapore e maionese. In tal caso, la cottura tramite grasso iberico lascia campo a una piacevole sapidità di fondo, rivelatrice di interessanti quanto impercettibili rimandi al rancido (c’è chi ne fa un vero taste code), sorretta dalla salsa bernese (quasi uno splash in stile Action Painting) ma pure smorzata dall’elemento ora rinfrescante ora vegetale, nell’ambito di un quadro tattile articolato e dinamico: pelle croccante, gel agrumato, aria di verza viola; una scala di consistenze che si palesa a più riprese gustative, in diverse portate e coinvolgendo spesso riduzioni di vario genere.
Senza adoperare poi ingredienti di lusso, si attinge anche a un repertorio più classico: il Piccione. Dalla cuisson saignant la sua carne, che rimane morbida e viene affiancata dal proprio contropetto crudo. Le note ematiche rilasciate sono ingentilite dalla dolcezza complessiva di un calibrato pairing, bietola e ristretto di granchio all’anice stellato. Il “side dish”, ovvero coscia del volatile fritta – ripiena di polpa del crostaceo – e hosomaki di fegatini, sebbene sposi la logica della circolarità, o piuttosto un proposito di pulizia al palato con l’acidità del roll, non sembra accrescere il valore sostanziale del piatto. Le amuse-bouche d’autore, su tutte Nascita della carbonara e Cornetto di amatriciana, al pari di alcuni assaggi à la carte, denotano invece un progetto culinario invitante indice di maturità tecnica e solida conoscenza della materia prima.
Tuttavia, se la cucina è arte, e come tale rappresentazione che poggia sulle idee e costruisce una connessione con i suoi fruitori (le grandes tables sempre più quali dimensioni “esperienziali”), diviene allora auspicabile che un cuoco di livello vada oltre la forma e al di là dell’esecuzione, indagandone l’essenza. In questo senso, ecco che alcune delle più recenti creazioni di Martini, seppur più pulite nelle geometrie e precise nel gusto, lasciano la sensazione di essere fedele appendice del proprio codice gastronomico, ma altresì di ancorarsi a una comfort zone stilistica che in certi casi finisce per eclissarne propulsione creativa e spirito evocativo, da tempo forza del suo messaggio. L’esito rischia di apparire meno coinvolgente di quei cavalli di battaglia che, nel periodo di Stazione di Posta, lo avevano portato alla ribalta come uno dei talenti più promettenti della sua generazione. Che la tecnica sia sempre mezzo e non fine dell’espressione. Che il cuoco sia libero di sentirsi chef, artigiano, scienziato o, perché no, un artista a tutto tondo; inestimabile privilegio moderno, forse mai afferrabile quanto oggi. E, inevitabilmente, con tutti i suoi paradossi.
IL PIATTO MIGLIORE: Merluzzo, patanegra e arancia amara.
Una proposta omakase; una alla carta; un menù che cambia al volgere di ogni stagione. “Autunno 2023“, come nei film di Kim Ki-duk, “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, anche se sembra sempre primavera da Kohaku: tempio devoto all’ospitalità giapponese (omotenashi dicono quelli bravi) tutto legno, sempreverdi e origami.
La cucina è autenticamente Kaiseki, ovvero avvitata sulla stagionalità e incentrata sul gusto puro dell’ingrediente, con un menù che cambia ogni stagione e ostenta un unico mantra: la materia, prima, centrale, ingredientistica nel senso etimologico di quella cosa – ingrediens – ‘che entra’, participio presente del verbo ingredior derivato di gradior, ‘camminare’, ma con prefisso in-: incamminarsi. In che senso? Che solo l’ingrediente di stagione, che nella filosofia giapponese è effimera e dura un momento, entra, introduce, fa il suo ingresso in menù. Menù che per appunto si articola nella cena omakase, ovvero al bancone, con incipit uguale per tutti, 20.30 spaccate. Oppure più tardi, o più presto, alla carta o, appunto, col menù da 6 o 10 portate che è stato quello da noi prescelto per scoprire Kohaku.
Ecco dunque che a ogni portata corrisponde, appunto, un rapporto, una progressione, una variazione sul tema: una combinazione, se si preferisce, che è poi foriera di ulteriori possibilità gustative. Uno studio sull’umami, in particolare, si può considerare il Tofu fresco con salsa ponzu, negi, nori e zenzero, mentre la Capasanta e verdure in brodo katsuodashi sembra più concentrata sulla consistenza burrosa del mollusco e del brodo, in dichiarata contrapposizione alla croccantezza delle taccole.
Poco o nulla si dirà della croccante, tesissima polpa di Sushi e Sashimi, di cui l’anguilla (nel sushi) rappresenta senz’altro il punto più alto. Piuttosto, impossibile non citare la sontuosa Anatra marinata al miso, funghi shiitake con sedano rapa e mela in salsa teriyaki in accompagnamento, a rappresentare proprio la quintessenza di questo autunno, coi suoi umori salati e ombrosi a ricordare quasi una Marmite, con l’insalata crepuscolare di funghi shiitake, sedano rapa e mela, come in un trompe-l’œil di ogni autunno, qui e ora. Altrettanto corroborante, e splendidamente tenuto considerata la compresenza di brodo e vellutata di patate, il maiale brasato.
Eccessivamente rinfrescante il dolce, Gelatina di yuzu e uva fresca, pure troppo coi suoi colori saturi e la temperatura, fredda, poco in linea con la stagionalità tanto agognata, ma senz’altro rievocata con l’uva. Ottima invece la piccola pasticceria a chiudere l’esperienza. Unico vero appunto va alla carta dei vini: d’accordo che si tratta di una cucina che può tranquillamente prescindere dal consumo di vino – tanto che noi senza alcuna incertezza né malumore abbiamo optato per il tè – ma dal momento che si decide di averla, qualche referenza meno istituzionale e più ricercata potrebbe arricchire ulteriormente l’esperienza.
L’idea è di Sabrina Bai, imprenditrice della ristorazione capitolina tanto delicata ed efebica tra i tavoli quanto, immaginiamo, anche ferma nelle sue convinzioni imprenditoriali e culinarie, in piena coerenza con la formula che propone.
IL PIATTO MIGLIORE: Anatra marinata al miso, funghi shiitake con sedano rapa e mela in salsa teriyaki.
È la cronaca, in positivo ci mancherebbe, del nostro ritorno ai tavoli di Barred, nel quartiere Appio Latino di Roma dai Palucci bros’. Torniamo in un’insegna che distilla atmosfere a tratti nordiche, ma come già scritto nel nostro precedente resoconto non è pago di riferimenti gustativi alla tradizione de’ casa nostra. Il dogma dei Palucci è ovviamente sovvertire i canoni tradizionali di lavorazione dell’ingrediente senza perdere di vista la resa finale scevra da qualsiasi forma di manierismo. Cucina schietta nell’accezione romana di approccio, ma rigorosa nella lavorazione materica in particolar modo sul versante vegetale. Una rosa di caratteristiche, queste, che ritroviamo tratteggiata nei tatuaggi dei due fratelli e, per estensione, nel quartiere stesso in cui si trova il Barred, che interseca culture e stili di altri paesi presentando una miscellanea, gastronomica e non, davvero molto divertente.
In un sequel immaginario la Sora Lella di Elena Fabrizi prende un volo diretto per Tokyo, con la celebre Fettuccina (e non si dica tagliatella!) in sposalizio a scalogni fritti e alla coppietta fatta però con il tonno. Una sorta di kastuobushi, ma con la tenace plasticità tipica del salume laziale essiccato. Da Tokyo a Bangkok, le ore di volo sono 6, da Barred sono stati sufficienti circa 10 minuti per spostarsi sull’Asparago glassato con crema di arachidi, coriandolo e peperoncino così atavicamente pad thai. Va ammesso tuttavia, che per le altre portate successive dobbiamo constatare un eccessivo lasso di tempo per un locale che, a capienza massima, esibisce una certa difficoltà di gestione della comanda. L’Ombrina, nella sua azzeccata cottura, incontra il frutto rosso per acida astringenza, a rincarare piacevolmente la dose ci pensa la bieta. Peccato invece per il Diaframma alla pizzaiola che soccombe a causa del pomodoro arrosto, relegando la succulenza del taglio al rango di fettina asciutta al sugo, dove nemmeno il vigore piccante dell’nduja riesce a risollevare in finale.
La triade dei dolci coniuga sapientemente le competenze pasticcere del Barred offrendo una corretta visione, a traino francofono classico, tra savarin, crème caramel e pain perdu. Nulla di nuovo sull’approccio enoico al 99% in chiave naturale adottato da questa insegna, sempre raccontato con minuzia e senza boria da prestazione. I Palucci come si evince anche dal loro aspetto, nel loro Barred perseguono un personale progetto di romanità, che qualche anno fa avevano solo idealmente abbozzato. I tratti oggi sono sempre più sicuri, le sfumature sempre più complesse, e in grado di delineare un ideale collegamento tra il mondo del tatuaggio e quello del ,cibo. Estro, artigianalità e narrazione, nonostante la natura diametralmente opposta del risultato ottenuto: temporaneo quello della gastronomia, permanente quello del tatuaggio. Pronti, allora, a vederne altri.
IL PIATTO MIGLIORE: Fettuccine, compiette di tonno e scalogno fritto.