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Aquavit

Nel cuore di Londra va in scena la grande cucina tradizionale nordica

Nella generosa offerta di ristoranti che la città di Londra offre, spicca, tra le recenti aperture, Aquavit, locale che replica il celebre indirizzo newyorchese aperto da investitori svedesi ormai tre decadi fa.
Alle spalle di Piccadilly Circus nell’ampia sala con bancone bar, caratterizzata da pannelli di legno su pareti che ospitano opere d’arte e fotografie, con sedie e sedute in pelle color rosa pallido e blu, su un pavimento in marmo rigorosamente scuro, va in scena un riuscito omaggio alla cucina nord europea tradizionale.
Lo chef Henrik Ritzèn propone pietanze che conducono direttamente al cuore dei sapori imboccando la strada più diretta allo scopo di esaltare ricette e ingredienti della casa madre Svezia.

Un linguaggio gastronomico universale e chiaro

La sua è una cucina semplice, piuttosto rotonda, che attraverso un’efficace e mai complicata combinazione di sollecitazioni insegue, conseguendola, la soddisfazione degli avventori in una location tanto affascinante quanto informale nel servizio. Una cucina che si differenzia dagli ipertecnici stili nordici affermatisi con successo negli ultimi anni, di cui il Noma è stato il capostipite, ponendo in essere un linguaggio gastronomico universale e comprensibile da tutti.

Le aringhe, portate all’inizio, ne sono una testimonianza: materia prima esaltata da accompagnamenti giustapposti o contrapposti senza orpelli né complicazioni di sorta.
Altra caratteristica è il corredo mai scontato e assai funzionale di frutta ed elementi vegetali che a vario titolo completano ed esaltano piatti che altrimenti potrebbero facilmente risultare non pienamente compiuti. È questo il caso degli squisiti mirtilli che danno una felice sferzata ai golosi Gnocchi svedesi (Kroppkakor) o del sorbo selvatico che conferisce un tocco coerente alle qualità del Cervo.
Tutti piatti che senz’altro si sviluppano in orizzontalità, ma in grado di veicolare, in una cornice di indubbio fascino, una ristorazione appagante attraverso la profonda conoscenza e il sapiente utilizzo di una cultura culinaria di indubbio interesse.

La galleria fotografica:

La tavola ammiraglia di Gordon Ramsay, ovvero un piccolo ristorante nel cuore di Chelsea, Londra

Sembra un paradosso.

Se qualcuno si aspetta che il flagship restaurant del marchio-colosso Gordon Ramsay sia qualcosa di mastodontico o sofisticato, quando mette piede in questi angusti spazi, potrebbe rimanere deluso. La cucina è più grande della sala, il bagno è microscopico, i camerieri rischiano di urtarsi a vicenda e quando ci si siede, le sedie vengono letteralmente incastrate tra il tavolo e il muro.

Ma questa non è una vetrina londinese, bensì una grande tavola, lascito di un grandissimo cuoco scozzese che ha arricchito il panorama gastronomico londinese con questo imperdibile luogo.

Siamo a Chelsea, zona sud est di Londra, a Royal Hospital Road per la precisione, ed è proprio qui che Gordon Ramsay iniziò, da protagonista, la sua carriera che lo ha portato a essere uno dei cuochi televisivi più famosi del globo. In un breve arco di tempo dall’apertura del suo ristorante arrivarono le ambite tre stelle (unico ristorante ala fine degli anni novanta a Londra a potersene fregiare); e presto Ramsey venne catapultato nel tubo catodico con “Boiling Point”, trasmesso da Channel 4, una miniserie foriera (del 1998) degli attuali talent gastronomici.

Urla, turpiloquio, tensione a mille e aria di terrore per i poveri commis che si perdevano la comanda o stracuocevano il foie gras.

A distanza di vent’anni di attività, Ramsay, che ormai vive negli Stati Uniti attratto da ben altri impegni, di tanto in tanto fa capolino in questa piccola bomboniera dove tutto è cominciato per salutare la sua attuale scuderia ed accertarsi che le cose vadano al meglio.

Una macchina ben oliata che percorre, giorno dopo giorno, la stessa strada dell’eccellenza

Non è un caso se questo posto, a prescindere da classifiche, opinioni e riconoscimenti, è sulla cresta dell’onda dall’apertura, registrando sold out in entrambi i servizi del pranzo e della cena.

Dopo l’uscita dell’acclamata Clare Smyth – che ha aperto il suo Core – le redini della cucina sono state affidate al giovane Matt Abé, da dieci anni nella scuderia di Ramsay. Uno che sa sicuramente il fatto suo visto i risultati.

Non si fanno capriole carpiate sulla sedia e non si resta a bocca aperta con preparazioni particolarmente concettuali o ultramoderne. Non crediamo che il fine ultimo di questa tavola sia quello di stupire, semmai quello di coccolare e far passare al cliente qualche ora di gran classe con una cucina classica, raffinata, dosata, alleggerendo il filone della cucina francese, tra materia prima straordinaria e cotture al laser.

I piatti principali sono innegabilmente da 3 stelle, per esecuzione, presentazione ed equilibrio di sapori. Abbiamo mangiato un Piccione magistrale, delle elegantissime Capesante (per gli aficionados, meglio conosciuti come pettini di mare) e una irresistibile Tarte tatin accompagnata da gelato alla vaniglia di rara bontà.

È un ristorante in cui sono state prese le misure per affrontare al meglio gli ultimi tempi in cui è impensabile pensare a eccessi e sprechi. Qui tutto e misurato ed essenziale, pur restando nell’aurea del grande ristorante.

E i prezzi, per Londra e per questa qualità, permetteteci, non sono neanche proibitivi.

Il servizio di sala è ineccepibile e ci fa piacere ritrovare molti connazionali (quasi tutti, maître, sommelier e camerieri, qui sono italiani) che sfoggiano con classe la propria professionalità. Senza aprire polemiche inutili, in questi ultimi tempi si parla tanto di emergenza sala. Vivaddio all’estero non sembra così. Magari poniamoci qualche interrogativo.

La galleria fotografica:

 

Recensione ristorante.

Secondo ristorante del bistellato Pied-à-Terre di Shane Osborne, l’Autre Pied mi aveva decisamente convinto 2 anni fa, quando, da poco aperto, era considerato uno dei più interessanti newcomer sulla scena mangereccia londinese.
Nel frattempo è arrivata una stellina e lo chef Marcus Eaves è passato a dirigere la cucina della casa madre, lasciando il piano al giovanissimo Andrew Mc Fadden.
Una ragione per tornarci, a posteriori senza pentirsene.
L’offerta a mezzogiorno è di quelle da non rifiutare: 3 piatti più coccole varie a 22 sterline e mezza (con meno di altre 20 ci si abbinano anche i vini), sebbene non vada trascurato il 12,5% di servizio obbligatorio, com’è usuale da queste parti.
I primi segnali mettono qualche apprensione: non fatichiamo a trovare posto pur non avendo prenotato (due anni fa era impossibile) e la location appare un po’ “affaticata” (qualche poltroncina un po’ lisa, parati non impeccabili).
In compenso lo staff, gentilissimo, pare molto motivato e ne ha ragione.
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Questa valutazione, di archivio, è stata aggiornata da una più recente pubblicazione che trovate qui

Recensione ristorante.

Per poter provare uno dei pochi ristoranti d’alta cucina londinesi davvero degni d’interesse (sì, perché qui gli stimoli semmai si provano in alcune cantine etniche da sogno tipo Koya o con i fasti del sushi e del sashimi di Yashin) bisogna essere un po’avventurosi. Lasciare i lussi di Belgravia o Knightsbridge e spingersi fino a Bethnal Green, nell’East End ancora poco imborghesito.
La Town Hall che è stata ristrutturata come bellissimo hotel che ospita il ristorante è un luogo di grande fascino (arrivateci con un po’ di anticipo e approfittatene per fare un giro al bar e non solo) e il ristorante stesso, messo su da qualcuno con la passione per l’interior design scandinavo, è davvero molto elegante.
Lo chef, Nuno Mendes, è un portoghese con un passato di giramondo ed è sicuramente un’interessante personalità, molto “nell’aria del tempo”, ma capace di mantenere una sua identità con nette influenze della sua terra d’origine, territorio davvero poco esplorato dall’alta gastronomia.
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