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Locanda del Pilone

Un gusto glocal

Un’incessante ricerca di densità, sapori e consistenze tali da contrastare l’acidità. Queste le alchimie più rappresentative del suo interprete, Federico Gallo, classe 1987, di “casa”, ormai, alla Locanda del Pilone a Madonna di Como, resort della famiglia Boroli a qualche chilometro da Alba, anche nota come la città delle cento torri. Dopo il diploma (2006) le esperienze, prima in Italia, in Toscana e poi dal Messico agli Stati Uniti e fino al nord Europa, gli hanno aperto la mente insegnandogli la strada per combinare il locale al globale.

Tra le prime nebbie autunnali sorprendente è lo scenario, ancora più vivido grazie alla raccolta delle erbe, dei fiori e dei frutti da lavorare e proporre nei diversi menu: “Classici”, “Piemonte”, “Acqua dolce” e “Tartufo”. Ingredienti volutamente solo territoriali, a differenza delle tecniche di cotture e delle preparazioni, che tra reinterpretazioni e rivisitazioni sfociano in piatti al confine tra il classico e il moderno. Tra gli amuse-bouche il cannolo di insalata russa è certamente il più persuasivo per il contrasto tra l’acidità della salsa e il saporoso e sottile wrap in cui è avvolta. Buoni anche i mini assaggi di plin e di fassona.

Spesso si raggiungono picchi d’estasi mediante l’esercizio di discipline cinesi che puntano all’armonia: gli ingredienti sono messi in scena in ambienti chiusi, come nel caso della giardiniera, raccolta in una conchiglia di zucchero, una pasta che sottolinea il dolce delle verdure croccanti poi insaporite, ancora, da caviale e acqua al pomodoro. Acqua che, da sola, è una sorta di ordinamento tra le componenti liquide che accompagnano più di qualche preparazione. D’altra parte proprio questa è la trasfigurazione della passione per gli aceti che caratterizza lo chef.

Design liquido

Il concetto di gusto di Federico Gallo non si piega alle mode strumentali. Piuttosto assomiglia a un vivere in solitaria, molto personale e silenzioso, come il geco tatuato. Frequenti le sue folgorazione per alcune materie prime, lavorate dapprima solo nella testa sino al momento in cui non riesce a trasformarle. Emerge così una certa testardaggine, il ripensare ai propri piatti, a volte pungenti altre oltre il punto di equilibrio come il baccalà, a causa di una più che coprente salsa alla nocciola, funghi e tartufo.

Il punto comune è, comunque, la ricerca dell’intensità, una forma di condensazione di essa che sia più precisa possibile, la quale si ritrova nelle sorprendenti – per delicatezza e avvolgenza – linguine con vongole e camomilla e nel capretto al fieno rappresentato in due cotture: quello cotto è goloso e carnoso mentre la parte cruda immersa nel brodo (sublime) trionfa per persistenza e definizione. La punta amara (nel brodo), comanda, si lega e raccoglie tutti gli altri elementi infondendo un aroma invadente ma piacevole, come l’umido dopo la pioggia nel bosco, evocato tramite il Vermouth e la combinazione degli aromi dell’alloro, del timo, della maggiorana e del fieno maggengo.

Nel reparto dolci, dopo qualche turn over si è arrivati a creare un laboratorio sperimentale in cui non mancano incursioni mixology: freschissima, come un gin tonic, la meringa con lemongrass.

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Un logo magico nell’alessandrino

Gianni Sarzano, Anna e Silvia. Padre, madre (a cui è dedicato il nome del ristorante) e figlia. Gli unici e sempre presenti attori in questa opera teatrale messa in atto dal giovedì a cena alla domenica a pranzo.

Un tempo proprietari e gestori di quel fantastico ristorante che fu il Bivio di Quinto vercellese. Un luogo magico già allora che, qui, nella prima collina dell’alessandrino, ha trovato nuovo impulso e una nuova energia positiva. Una famiglia unita, sodale, che vi farà respirare l’aria di casa: la loro casa. Eh sì, perché Casa Anna è prima di tutto la loro casa, aperta al pubblico, poco e selezionato, per pochi giorni la settimana. 12 coperti, non uno di più, potranno essere allietati dal calore e dalla gentilezza di Anna, che vi accoglierà sempre con un discreto sorriso, dalle impertinenti provocazioni enologiche di Silvia, che vi delizierà anche con qualche aneddoto di famiglia, e con la cucina di Gianni, immensa, fine ed elegante come una sciarpa di cachemire.

Perché Gianni ha un grandissimo senso del gusto e una grande sensibilità in cucina. Un pizzico, un tocco, un nonchè di ogni cosa è calibrato e moderato con estrema attenzione, finezza ed eleganza. Una cucina solida, diremmo tradizionale, ma che qui prende un fascino tutto suo sia grazie agli straordinari prodotti impiegati per costruirla, unici e selezionati come selezionati sono gli ospiti accolti, sia grazie alla mano dello chef, felice.

Ecco quindi che quelle rane, ancora pescate selvatiche, sono il viatico per intraprendere un viaggio di sapori, gusti e consistenze che davvero vi faranno sobbalzare sulla seggiola. I plin alle patate e culatello, dall’equilibrio dell’impasto perfetto – non stopposo ma soffice ed elegante – sono costruiti con una sfoglia eterea, quasi impercettibile. Del buon burro di qualità, odori dell’orto e il gioco è fatto.

Splendide anche le lumache, accompagnate da una fine crema di piselli e pancetta, e splendido il finale con le amarene sciroppate “maison”, gelato e ratafià.

Un progetto non per tutti, però, perché la cucina di questo cuoco è una cucina nobile e nobiliare, efficacissima nel rappresentare il rito elitario della tavola: in una parola, e come apostrofava il Maestro, Gualtiero Marchesi, il vero lusso dell’apparente semplicità.

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Il grande ristorante italiano

Pochi luoghi al mondo restituiscono la sensazione del tempo. Il tempo passato, quello presente e quello futuro, talvolta s’incontrano restituendo un’instantanea vividissima di quella cosa mistica e terrena che è, semplicemente, la vita. Questo, è uno di quei luoghi.

Un’architettura molto classica se vista dall’esterno; dall’interno, una casa estremamente contemporanea, abitata da elementi di design che prediligono le linee morbide a quelle spezzate e un discreto avvenirismo, quello di tecnologie studiate appositamente per preservare e conservare il piacere dei sensi, evidente tanto nel fumoir all’ingresso quanto nella sala, col suo discreto eppur inesorabile affaccio sui Colli Berici.

La Peca sarà forse anche cambiata, nel tempo, ma è cambiata dimostrando una coerenza verso se stessa, in una parola, un’integrità, che ha pochi uguali nel panorama identitario dei grandi ristoranti della contemporaneità. Merito, anche, di Luigi Portinari, uomo di sala capace di trasformare il servizio in una forma d’arte capace come poche di leggere i tanti livelli che affollano l’esperienza sensibile tanto che piatto, commensale e abbinamento diventano qui elementi di una pièce concepita dalla stessa ratio, dallo stesso genio, quello, famigliare, dei Portinari.

È dunque a Nicola Portinari che si deve un menù in cui l’Italia è sia musa che deus (dea) ex machina: una divinità totipotente e onnisciente che si permette infiniti giri intorno al mondo, infinite divagazioni e finanche depistaggi, ma parla sempre di se stessa, e per se stessa, interpolando i confini della verdura e della carne, della frutta e del pesce, annientando come detto i confini, soprattutto quelli geografici, dimostrandosi sì creativa ma sempre codificabile, famigliare, materna. E curatissima in ogni dettaglio.

Dalle straordinarie, croccanti carni di cozza e ostrica, sdrammatizzata e anzi elevata sin quasi alla sublimazione la prima dal concentrato di cetriolo, alla crema di marasche e cardamomo che trasforma la salinità dell’ostrica in umami puro. Passando, poi, per la tagliatella e per l’impareggiabile risotto al chipotle con gamberi, marasche e curry, chiusura del cerchio e anzi pacificazione di due spinte uguali ma contrarie: quella tra la cultura materiale locale veneta e la scuola della cucina internazionale.

È in questo, e in altri piatti come, per esempio, l’impeccabile anguilla alla brace, fungo Shiitake, teryaki e daikon piccante, che si corona l’essenza di quello che è, e sempre sarà, uno dei grandi ristoranti dell’Italia presente, passata e futura.

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L’esaltazione del territorio

È difficile completare, e arricchire, un percorso lavorativo ricco di soddisfazioni come quello che ha portato Maria Cicorella alla creazione di un locale dove l’esaltazione del territorio attraverso la cucina era divenuto uno status e un punto di riferimento a livello regionale. Eppure, la scelta di consolidare la strada intrapresa s’è coronata brillantemente con uno chef come Antonio Zaccardi che, insieme alla fidanzata, Angelica Giannuzzi, responsabile della partita della pasticceria, prima ha affiancato e poi ha sostituito la signora Cicorella.

La militanza pluriennale vicino a un fuoriclasse come Enrico Crippa, in quel di Alba, traspare nitida già dagli amuse bouche, degni di questo nome e significativamente programmatici riguardo il livello di attenzione presente in cucina. L’introduzione prosegue coerente con la qualità della fattura di salse, fondi e cotture in cui note aromatiche, acide o amare accompagnano sempre adeguatamente gli elementi scelti a costruire i piatti. Il tutto, poi, corredato da una profonda conoscenza, e dal suo conseguente utilizzo, di tutto ciò che la ricca terra di Puglia può offrire, a ideale completamento di un progetto che appare, così, compiuto e convincente.

Raffinatezza e concretezza

Nelle belle e spaziose sale del seminario arcivescovile, che da quattro anni rappresentano la nuova sede del ristorante, sarà quindi possibile gustare una cucina con i piedi saldamente ancorati al luogo che la ospita ma con uno spirito che aleggia alto, raffinato, aureo come, ad esempio, nella salsa al tartufo e fagiolini che duella spavaldamente con la cottura delle animelle, in una tenzone che si risolve in un gusto capace di essere al contempo piacevolmente gourmand e irresistibilmente gourmet.

Non è possibile, infine, non menzionare ancora una volta la figura di Antonello Magistà, che riesce a trascendere il ruolo di padrone di casa evocando quello del gentiluomo d’altri tempi, per cui il benessere dei propri ospiti è sacro e il cui perseguimento ne rappresenta ragione e missione di vita.

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Il canone classico italiano

Fare ed essere “classico”, oggi e, soprattutto, in Italia, rappresenta una scelta molto più coraggiosa di quanto possa non essere, invece, l’avanguardia. Non solo perché il classico implica il continuo e indefesso rapporto – e raffronto – coi giganti, ma anche perché le maglie entro le quali si muovono la mano, la mente e la materia del cuoco sono così strette da rendere impossibile, almeno apparentemente, qualunque movimento, qualunque novità. Eppure, non c’è mai stato tanto movimento e, di conseguenza, tanto respiro nella cucina classica italiana come in questo momento storico e il pranzo che stiamo per raccontarvi ne rappresenta, come vedremo, la perfetta epitome.

Da Vittorio risiede sulla sommità di una collina circondato da quello che potremmo definire, piuttosto semplicemente, invero, un giardino all’italiana contemporaneo. La sontuosa villa e il suo altrettanto sontuoso dehors che, vista la stagione, sarà anche la nostra sala, ci accolgono in una dimensione alta e altra del mondo, una dimensione in cui perfino il tempo acquisisce un andamento suo proprio, scandito dalla danza di una sala che è tuttora una delle più rigorose ma, al contempo, più distese e disinvolte del panorama contemporaneo.

L’Olimpo in terra

Una sala cui sono ancora affidati gli impiattamenti e le rifiniture, eseguite al tavolo, la cui cultura del servizio e disinvoltura nell’eloquio fanno apparire tutto fuorché retriva e la cui innata urbanità enfatizza anzi la sensazione di trovarsi in una sorta di Olimpo della ristorazione italiana; e, qui, arriviamo al punto: perché a onta del momento storico dianzi trascorso dai fratelli Cerea albergano ancora e forse ora più che mai una grazia e una felicità sopraffine, una estaticità che si ritrova in ciascuna delle portate, concepite con una precisione e una pulizia nuove e, in una parola, felici. Dal cherubico tourbillon delle entrée, in cui spiccano l’uovo all’uovo, evoluzione di una ricetta di cinquant’anni fa, la meravigliosa oliva bergamasca e l’insalata di tonno e ovoli, passando per il cacciarolo ripieno di polenta e fino al serafico risotto, impeccabile per cottura e mantecatura.

Ma non solo. Perché questo è anche uno dei pochi ristoranti italiani dove ancora saggiare – e godere – della più grande e più nobile materia prima: una materia tra le più selezionate, le più ricercate e, di conseguenza, tra le più onerose dello Stivale. È precisamente questo elemento, crediamo, a identificare il canone del ristorante classico così come noi lo intendiamo da sempre ed è esattamente questo il senso, e il gusto, unico, dello straordinario e raffinatissimo moro antartico con crème brulée di wasabi e avocado.

Medesima, beata ispirazione si ritrova anche nella sezione dei dolci, da sempre una delle più felici e caratterizzate dell’universo olimpico, esclusivo ed elitario che alberga Da Vittorio.

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