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Opera

Un’opera di ricerca a Torino

Per chi arriva a Torino in treno Opera è una meta comodissima. Il ristorante è a due passi da Porta Susa, in una posizione strategica e piuttosto centrale, dunque, che vede, varcata la porta d’ingresso, la cucina, gestita da Stefano Sforza, visibile da una piccola finestra che si affaccia sull’elegante corridoio da percorrere per raggiungere la sala centrale, divisa in due ambienti come una grande casa.

Gli spazi hanno una profondità notevole. Soffitto a volta, tavoli ben distanziati e seguiti con grande precisione dal maître Gualtiero Perlo – un grande estimatore di tè, a tal punto da dedicargli una piccola carta – affiancato in sala, per proporre vini e i drink durante la serata, dal giovane sommelier Carlo Salino.

Qui ogni portata è un nuovo dialogo con lo Chef, che conduce l’ospite nella sua idea di gusto, che si snoda tra piatti che puntano sull’innovazione e la concretezza degli ingredienti. Due i menù proposti, che mutano con le stagioni e le materie prime dell’orto, ubicato nella prima collina torinese. A questo si deve la predilezione per le verdure, tanto che vi si trova un intero percorso dedicato al pomodoro.

E poi c’è “Opera”, dove lo chef gioca con cotture e consistenze diverse per presentare uno dei suoi primi progetti di stile, in cucina, un percorso iniziato nel 2019 con il supporto della famiglia torinese Cometto che lo ha scelto per guidare il ristorante. La sua è una mano delicata alla ricerca  dell’equilibrio, sì, ma senza estremismi, frizioni o picchi di acidità. Sapori molto, molto rotondi, accoglienti. Un’identità che nasce da maestri prestigiosi come Pier Bussetti e Alain Ducasse, dal quale ha imparato il rigore, il rispetto e la disciplina, prima ancora dell’arte della cucina. Le basi, prima ancora delle basi del taglio o dello stare in un reparto specifico. Tra le esperienze di Sforza ci sono anche periodi al Bellevue di Cogne, Del Cambio di Torino, Trussardi alla Scala di Milano, e tre anni al Turin Palace.

L’Opera delicata che attinge da gusti personali e dal mondo

Classe 1986, Stefano, quando rincasa, non si adagia certo sugli allori. La sua testa continua a pensare a come arricchire il suo percorso da sette portate, la sua “opera”. E proprio il menù Opera vuole essere un giro intorno al mondo: dall’America meridionale all’Asia, si inizia con una barbabietola con aceto di more e tonburi presentata a forma di petali di rosa. Il gusto è in contrasto tra i suoi compagni di viaggio, sebbene resti dolce e concentrato sulla barbabietola. Si prosegue con un po’ di Oriente, si finisce, su suggerimento dello Chef, col bere dalla ciotola ma solo dopo aver terminato lo storione, proposto con una leggera marinatura e una ceviche con il latte di cocco, lime e un pizzico di peperoncino, per una spinta agrumata piuttosto marcata. Il caviale in superficie si contrappone allungando il sapore del piatto. 

La tartare di vacca con melograno e radicchio è un piatto che piace e, oltre all’estetica, diverte al palato anche la presentazione e l’effetto di rimbalzo sulle dolcezze e sulle consistenze che si crea alternando morsi alla chips di mais che racchiude la carne cruda. Ed è forse qui che si può rivedere la scelta di inserire i capperi, fritti e non. 

Il raviolo di tapioca con emulsione di zucchine alla brace è una grande rappresentazione di quella che è la pasta fatta a mano ripiena con crema di zucchina, di cui una parte cotta alla brace. La golosità è in un doppio strato perché il raviolo si apre, come una conchiglia…

Ma ecco che arriva l’estremismo, il picco del percorso, lo spaghetto con riccio di mare, vermouth rosso di Torino e cedro. Un piatto estremo e intenso: il riccio è fresco, il piatto apre dolce e chiude amaricante stemperandosi nell’amido. Pare di trovarsi in una nuvola che avviluppa il palato, e lo serra in una sensazione confortevole, quella del dolce amaro pastoso che aggroviglia e lega il senso. Un’idea che racchiude tutta la città di Torino e ben spiega, senza sconti, le scelte delle materie prime. 

Si chiude con il Brodo di olive, oliva già presente in un golosissimo e centrato amouse bouche – yogurt e limone salato – prima di un piccione con banana e curry, la cui doppia cottura non lascia scampo, conquista per progressione di sapore e concentrati, tra brace e sensazioni dolci, si raggiunge un livello di acidità più contenuto.

Una cucina, insomma, ragionata, contemporanea, nel vero senso della parola, perché ricerca un’idea pescando dal mondo e dalle esperienze pregresse, rendendole edibili prima ancora che comprensibili. Ogni tratto è deciso, soffice, ma non per questo scevro di ricerca. In ogni portata si inserire la giusta acidità; ogni ingrediente è presente ma con la giusta proporzione e, infatti, se qualcosa sembra che sia perso per strada – come gusto o intensità – in realtà è una alea voluta, pensata, studiata e provata, per trovare un (proprio) equilibrio.

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Una dimora di charme che continua a fare la storia dell’alta cucina bergamasca

Era il luogo prediletto del grande Luigi Veronelli, l’Osteria della Brughiera, un’oasi incantata fatta di sale eleganti e un giardino accogliente e di classe. Qui, da sempre, gli Arrigoni, prima il padre e oggi il figlio, Stefano, accolgono gli avventori nella monumentale cantina, ricca di vini di pregio e salumi, formaggi e sfiziosità altrettanto uniche, frutto di una ricerca maniacale. È in cantina che, difatti, sarete accolti per l’aperitivo, accompagnato da una coppa eccelsa, affettata all’uopo con la Berkel d’ordinanza. Però “la Brughiera” non è solo cibo di qualità, è anche un elegante e raffinato rifugio ricco di opere d’arte e buon gusto, ovunque.

Quanto alla tavola, da quando c’è Stefano Gelmi in cucina, giovane talento cresciuto tra i fornelli e il pass dell’Osteria della Brughiera, la freschezza di idee e la personalità dei piatti sono cresciute a dismisura. Se ne parla davvero poco di questo incantevole luogo ma il nostro menù – incominciato per onor di cronaca con un ritardo nella partenza davvero troppo elevato – si è poi indirizzato e articolato verso un tracciato davvero originale, molto centrato gustativamente e di qualità indiscutibilmente elevata.

Già la partenza, con il polpo di Porto Santo Spirito cotto e crudo con arachide ghiacciata, oliva nera e levistico ha davvero impressionato per originalità e centralità gustativa, poi confermato e anzi superato dalla seppia in variazione successiva, elegante quanto golosa e raffinata, per poi approdare alle paste, in cui hanno decisamente spiccato le penne lisce al burro di stevia, acciughe e gazpacho e gli spaghettini con telline sgusciate.

Ottimo e per nulla scontato il piccione, con abbinamenti e commistioni originali e di livello anche il comparto dolce, in cui spicca una millefoglie molto, veramente molto buona.

Delle difficoltà in partenza di servizio abbiamo già detto, dobbiamo anche dire che il patron e suoi ragazzi hanno poi recuperato adeguatamente con solerzia, attenzione e precisione rimarchevoli. Un plauso, quindi, all’Osteria della Brughiera che, come tante altre “osterie” nazionali, pur non essendo precisamente “osteria” vi cullerà col calore, il garbo e la piacevolezza di un tempo.

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Roberto Di Pinto è cresciuto

L’anno scorso effettuammo una visita da Sine che ci convinse, ma non del tutto. Troppo altalenanti i risultati, che passavano da qualche piatto centrato ad altri davvero molto azzardati e sbilanciati. In questo periodo, evidentemente, complice anche il momento di fermo lo chef campano ha rivisto i suoi progetti, probabilmente anche coadiuvato da una squadra in cucina con qualche innesto di pregio e qualità, e ha ripreso a correre verso una centratura gustativa ed un equilibrio più costante e continuativo.

La verve dell’azzardo non è stata completamente accantonata, anzi. Molti piatti, come gli spaghetti al pomodoro rifiniti con una nota dolce-piccante e con la pasta di mandorla grattugiata al posto del formaggio assurge alla dimensione del pre-dessert, diventando straniante ancorché davvero potente e interessante. O come l’astice, di una complessità e originalità davvero rimarchevoli col secondo servizio del babà salato imbevuto della sua bisque. Il risultato è molto elevato e decisamente riuscito.

L’ostrica al pisco sour, poi, rappresenta un colpo davvero intenso, con le note iodate e alcoliche, oltre che aromatiche, in decisa evidenza. Molto buono anche lo sgombro, forse penalizzato da un lieve eccesso agro-acetico, e interessante il raviolo margherita che, grazie alle sue nuance dolci, vedremmo più indicato come pre-dessert, per concludere la parte salata. Oggi a punto, e non era così nella nostra scorsa visita, il risotto al negativo di Marchesi, un omaggio al maestro liberamente tratto dal suo riso, oro e zafferano, qui impreziosito dalle verdure bruciate in polvere.

In sostanza Roberto Di Pinto e il suo Sine esprimono una cucina divertente, per nulla scontata e banale, ricca di stimoli che non vi lasceranno indifferenti. Azzarda, insomma, il cuoco campano, e per chi ama l’azzardo questo è il luogo dove trovarlo maggiormente, assieme a pochi altri, a Milano. Il servizio, giovane, è preparato e disponibile, anche in questo caso con maggiore attenzione e accortezza rispetto alla precedente visita. 

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Norbert Niederkofler: l‘incantatore della Val Badia

Norbert Niederkofler s’è formato dapprima nel Nuovo Mondo e poi in giro per gli stellati di tutta l’Ecumene. È stato questo peregrinare rapinoso e disorientante che, negli anni della prima globalizzazione, ha determinato per lui un ritorno in patria coinciso nient’altro che con l’esigenza – non decidibile, non tacitabile – di casa: una casa che era, allora come adesso, la montagna e l’urgenza di introiettarla, questa dimora estrema, sostituendo il particolare all’universale e farne teoria e finanche filosofia con Cook the mountain e Care’s e, pratica, al St. Hubertus

È la montagna, del resto, la responsabile del genio di Norbert Niederkofler nonché colei che ricorda all’uomo che ogni genius è prima di tutto genius loci diventando, della cucina, sia l’immaginario che il quotidiano. È solo così, del resto, che gli ingredienti acquisiscono una freschezza propria, tenera, virginale: quella delle cose appena nate. Come le erbe, in particolar modo, di cui questa cucina tanto si nutre quanto è nutrita e da cui mutua una vita intima, rizomatica e ariosa, ossigenata e rigenerata dalle altezze anche quando si tratta di sottosuolo o sottobosco come nel caso dei funghi e delle radici.

E non senza l’ausilio delle mani sapienti dell’head chef bergamasco Michele Lazzarini, già lodato anche in passato, che è uno dei talenti più brillanti del St. Hubertus: è anche grazie al lui, infatti, se l’elemento vegetale, in qualsiasi forma, diventa un protagonista capace di spartirsi, con pochi altri elementi, l’intera forza e l’efficacia del piatto. Accade con la salsa di nasturzio che accompagna il cervello nonché col brodo di anguilla dell’anguilla stessa, qui porchettata. Peraltro nell’impianto ergonomico di questo piatto si manifesta una seduzione importante, e assai ricorrente: quella verso una fruizione brutale, preistorica della cucina che cela anche l’invito, invero esplicito, a un rapporto non mediato col cibo, da esperire direttamente, con le mani.

Una frugalità di stampo classico

Tra gli elementi ricorrenti della cucina del St. Hubertus, poi, c’è l’acidità: che non significa necessariamente freschezza o, comunque, non solo. Perché tutto il repertorio delle acidità possibili è frequentato con assoluta disinvoltura da Niederkofler, che dimostra di esser capace di integrare ogni acuto e contestualizzarlo sempre forte com’è di un retaggio capace di conciliare l’elemento più classico, o più alto, col bruto (o col crudo). Tutta la sua cucina, anzi, potrebbe esser concepita come l’ambizione a una dimensione rustica e frugale dell’esistenza da parte di un cuoco con solide basi classiche d’impronta smaccatamente francese.

Peculiari i primi piatti che sono, ciascuno a modo suo, un piccolo calembour: fruttato di uva spina lo spaghetto freddo; umami slanciato il risotto, dove la spinta casearia, non paga di se stessa, viene rinvigorita e forse anche sdrammatizzata dalla verve della colatura di coregone. Quanto ai ditalini, formato di pasta comfort per antonomasia, questi accolgono una seduzione conturbante: quella ematica e deliziosamente borgognona dell’estratto di selvaggina.

Si torna dunque all’incanto della dimensione agreste e bucolica con la trota alla mugnaia e, soprattutto, con la carota, laccata fino alla torrefazione.

Perché dal raccolto alla casseruola, e questo Norbert lo sa bene, passa tutta l’italianità in cucina e ciò è tanto più vero a queste latitudini, dove tecniche come la fermentazione diventano mandatarie visto che la terra si chiude, diventando inaccessibile all’uomo, per oltre cinque mesi l’anno. Da qui la necessità della circolarità dell’economia: tutto quanto arriva nel piatto, infatti, arriva da un mercato di prossimità che si materializza in oltre 500 tra verdure, erbette e funghi, mentre dagli allevatori locali si comprano solo animali interi al fine di propiziare una competenza che, del sacrificio dell’animale, sappia celebrare tutto e vanificare nulla.

Una competenza che diventa un trionfo nel maialino dai rimandi fusion e nei ribs di agnello straordinari nella cremosità delle carni, al punto da sembrare bolliti. Una consistenza struggente e misteriosa, ulteriormente enfatizzata, ton sur ton, velluto su velluto, dalla potentissima zuppa di funghi vellutata dalla finitura, una schiuma di fungo a terminare la carrellata dei salati.

E proprio questa chiusura ci accompagna felici ai dolci, in una carrellata tra le migliori mai assaggiate: un crescendo di classicismo condito con sapienti interpolazioni fino al gran finale della imperiosa, definitiva tarte tatin.

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La Versilia autentica e vera nel piatto

La storia del bistrot è, come spesso accade in Italia, la storia di una grande famiglia italiana. Piero Vaiani, il capostipite, che è mancato lo scorso novembre, ha lasciato in eredità alla sua famiglia e in particolare ai suoi due figli un vero e proprio impero gastronomico dell’eccellenza, composto da ben 4 locali e una azienda agricola che produce gli elementi fondamentali, oltre al mare, altro grande alleato, per elaborare ciò che viene portato in tavola.

Un impero che spazia dal locale popolare di pesce, da oltre 1000 coperti al giorno in alta stagione, al bistrot raffinato, al sushi-corner in spiaggia per terminare con la punta di diamante, lo stellato Bistrot appunto. Ed in questo gruppo così variegato e strutturato, che sicuramente aiuterà in questi periodi difficili, il Bistrot, oggi guidato da una coppia d’oro è una vera oasi di piacere gastronomico. I due Andrea, Salvadori in sala e Mattei in cucina, sono due autentici fuoriclasse che si completano a vicenda.

Una sala giovane, dinamica, attenta e molto presente dialoga con una cucina classico-innovativa che ha una cifra stilistica davvero interessante. Uso calibrato delle sapidità, mai di troppo e sempre in sottrazione, accompagnata da discrete acidità donano ai piatti una eleganza e una raffinatezza uniche.

L’emblema sicuramente di questa stilistica è sicuramente il risotto, che invita a ordinarne un altro per quanto è goloso, bilanciato, intrigante. Ma ciò che sorprende è l’intensità della razza nei ravioli con ricci di mare, usati come spezia a condurre il gusto. E potremmo continuare così, su tutti gli altri piatti del menù. Anche i dolci, di buona tecnica e fattura, ci hanno pienamente soddisfatto.

Ottimi anche i secondi di carne, come il maialino, e ottime tutte le verdure in accompagnamento, che arrivano integralmente dalla tenuta agricola di proprietà del gruppo situata nella campagna lucchese.

Una valutazione lievemente arrotondata per difetto, quella di oggi, che invita a una visita in questo splendido luogo della Versilia più vera e più autentica.

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