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Enoteca Pinchiorri

Il classico in continuo movimento

All’Enoteca Pinchiorri il termine “classico” si riabilita. Troppo spesso interpretato, erroneamente, come stanco, paludato, immobile, retrò, la definizione dell’aggettivo non dice nulla di tutto ciò. Per “classico” si intende, infatti, una realizzazione materiale o immateriale così degna da elevarsi a modello, pertanto esemplare e fondamentale nel vero senso del termine. Ebbene, in questa definizione non c’è spazio per la stanchezza o l’immobilismo, anzi. Così come la tradizione, è infatti in continuo movimento anche la classicità e ciò è tanto più vero quando si parla di “classico contemporaneo” per descrivere il modello esemplare di Annie Feolde e Giorgio Pinchiorri, che hanno sparso il verbo e l’energia presso tutti i loro collaboratori.

Dalla grande accoglienza curata da Alessandro Tomberli alla splendida e attuale cucina capitanata da Riccardo Monco e Alessandro della Tommasina, tutto quanto racconta la storia di un luogo vivo e pulsante e il menù contemporaneo è il paradigma di ciò che è l’Enoteca Pinchiorri oggi. Un menù ricco, articolato, che si snoda attraverso passaggi pensati e coniugati rimanendo sempre fedeli al mandato del proprio nome. Qui siamo in una enoteca, anzi siamo nell’Enoteca, maiuscolo, per eccellenza. Un luogo che non ha eguali al mondo, in cui si celebra da sempre il rito della degustazione e, pertanto, le pietanze sono pensate in funzione di questo e in modo da far godere gli avventori, consentendo loro di degustare vini unici, spesso introvabili altrove. Ma ciò, si badi bene, non impedisce affatto alla cucina di imprimere eleganza, personalità, freschezza, concentrazione, gusto e, non ultimo, modernità e attualità. Un percorso che gioca a rincorrere tecnica, impronta personale e sapori italiani attraverso la trasposizione contemporanea, sia negli impiattamenti che negli ingredienti e nelle loro proporzioni.

Cucina-vino: un binomio imprescindibile

Il risultato? Una cucina leggera, gustosa, raffinata e perfettamente abbinabile al compendio enologico ottenuta imprimendo anche grande personalità e intensità al gusto. Un altro aspetto davvero interessante di questa cucina è, poi, l’irriverenza nel trattare l’elemento apparentemente principale del piatto come comprimario, elevando incredibilmente i presunti comprimari a protagonisti assoluti. Come dimostra la zuppetta di mandorle e olive celline, carciofi al bergamotto e astice al ginepro, esempio paradigmatico e significativo di questo concetto, e infatti non è un caso che l’astice sia nominato, volutamente, alla fine, mentre la prima parte è dedicata alla zuppetta di mandorle di Noto, fornite direttamente dal maestro Corrado Assenza.

Interessanti, tecnici e profondi, poi, i ravioli di scarola e mascarpone arrostiti e non bolliti, bottarga di muggine e spuma di aringa. Piatto che possiamo prendere da esempio, come il precedente, per il perfetto equilibrio tra sapidità e intensità gustative. L’equilibrio è, del resto, l’altro termine ricorrente di questa cucina, che ci stupisce spesso anche per il modo di trovarlo, questo equilibrio, considerando il livello di rischio e di difficoltà cui ogni piatto si sottopone.

Infine, nota ulteriormente di merito ma evidente solo il giorno successivo, la leggerezza. Leggera la digestione, leggero il percorso, leggero il pensiero. 

All’Enoteca però, come abbiamo detto in premessa, la componente enoica e, conseguentemente, quella del servizio, riveste una importanza pressoché paritetica, se non a tratti finanche superiore, alla cucina. E il merito del direttore di sala Alessandro Tomberli è precisamente quello di rispondere agli stimoli dei due chef con una gestione egregia di sala e cantina che brillano della sua innata classe, ma senza altezzosità. No, qui vi sentirete cullati, coccolati e accuditi con discreta ma profonda eleganza.

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Unica e inimitabile

Se chiedete a Diego Rossi come è nata Trippa, lui, con quel pizzico di saccenza che può permettersi solo il fuoriclasse, vi dirà che l’ha creata perché non c’era nulla che a lui piaceva in giro. Infatti, fin dai primi mesi dopo l’apertura di questo locale, sono stati in molti a voler replicare la creatura di Diego Rossi e Pietro Caroli, tutti tentativi poco riusciti perché Trippa non è una trattoria e neppure un ristorante, è un vero e proprio microcosmo. Ne fanno parte i fornitori, la brigata di sala e cucina, i clienti (più o meno affezionati), le modalità di prenotazione e quella voglia di rompere e sovvertire le regole che sono l’essenza intrinseca di ogni avanguardia. Volendo paragonare Diego Rossi a un artista, la migliore similitudine è quella con Michelangelo Merisi, perché questo cuoco, come Caravaggio, padroneggia la tecnica ma eleva a protagonisti i vegetali più bistrattati così come i pesci e le carni dimenticate. Il tutto innovandosi sempre mediante la leva di quanto stagioni e mercato offrono ogni giorno.

La nobiltà delle materie “povere”

Tra i piatti più riusciti ci sono sicuramente la zucca arrosto con la bagnacauda oppure il cavolfiore, dal sapore schietto, con fonduta e tartufo nero. Croccanti e delicati invece i carciofi, proposti in insalata con sarde di lago e pompia, un agrume, quest’ultimo, quasi sconosciuto ma di estrema bontà.

Tra i primi sono imperdibili le paste fresche col ragù del giorno, nel nostro caso un sugo di daino dal gusto ricco ma non invadente. Eccellenti anche i secondi, dove meritano di essere citate le cotture alla brace eseguite sempre a puntino. Lo chef è bravissimo anche a nobilitare il quinto quarto in tutte le sue forme, non solo la classica trippa, quasi sempre in carta e proposta in vari modi, ma anche qualcosa di meno usuale come il fegato di coniglio alla veneziana oppure il lampredotto all’amatriciana.

Se si è fortunati tra i fuori carta si possono trovare le parti meno nobili del pescato, dalla buzzonaglia di tonno ai sottogola alle teste del pesce arrostite, da mangiare rigorosamente con le mani.

Ma quando si parla di Trippa non si può dimenticare Pietro Caroli, l’alter ego di Diego, tra i tavoli, e tutto il personale di sala, per metà rimasto immutato dall’apertura e capace di instaurare un rapporto diretto con gli avventori, pur restando molto professionale. La carta dei vini è cresciuta col tempo, purtroppo anche nei prezzi, conservando la sua originalità e offrendo un’abbondante scelta, comunque per tutte le tasche.

Dopo varie visite, pensiamo sia arrivato il momento di valutare Trippa alla stregua di un ristorante, perché si può fare avanguardia e ricerca anche riscoprendo le tecniche di cottura classica come avviene tra questi tavoli, oppure proponendo dei prodotti vegetali alla stessa stregua di ingredienti più nobili e costosi. E poi ci sono piatti iconici come il vitello tonnato o la trippa fritta, ormai “classici” della cucina italiana d’autore.

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La cucina di Giacomo Devoto: tra etica ed estetica

Giacomo Devoto, chef patron de La Locanda de Banchieri, trova in questa nuova apertura la sua dimensione gastronomica. Sita geograficamente a Fosdinovo, nella primissima Toscana, quella che ancora si tradisce con la Liguria e si confonde con l’Emilia. 

Un territorio ricco che suggerisce un approccio che, lui e con la complicità dei prodotti dell’azienda agricola, sa cogliere e portare nel piatto. Una visione che vuole essere a misura d’uomo, di orto, di cortile e, quando non possibile, di prossimità. Un racconto territoriale come risultato di un processo di sostenibilità e di consapevolezza che lo sguardo al futuro sta, in qualche modo, in un passo indietro dell’uomo. Così nei meravigliosi piatti che arrivano al tavolo si trova il sapore del suo concetto di etica.  

Il racconto gastronomico del territorio

Un menù degustazione dall’ouverture delicata, un piccolo testarolo sarzanese concentrato di gusto, a cui segue zabaione e caviale che rimane nel territorio con il fagiolo zolfino e il caviale di trota di Equi. Parte un adagio con il prosciutto di cuore, che conserva la struttura e la delicatezza del prosciutto ma non dimentica la ferrosità del cuore di vitello. Prosegue il crescendo con i fegatini che sono esattamente il sapore che vorresti e dovresti sentire.

Il crostino toscano vegetale, ferma la musica. Giusto il senso di ferrosità ricavato dal mirtillo selvatico e dalla soia fermentata come giusta la consistenza data principalmente dal cavolo nero. Ma rimane una porta che sembra chiusa in faccia sul più bello, almeno finché il gambero del Tirreno in salsa di carapace e melanzana bruciata riparte con un allegro e suona tutte le campane. Allora viene da sorridere per il gioco di provocazione del crostino toscano vegetale dopo i fegatini di pollo che, a posteriori, crea un gioco di spigoli, di alti e di bassi che rende la degustazione divertente elevandola in qualche modo dal palato alla mente. 

Il primo è dirompente, pacchero cacio pepe e carbone vegetale con crema di Parmigiano Reggiano. Consistenza, pungenza, cremosità e una complessità straordinaria suonano all’unisono a tutto volume finché arriva la scorza di limone a chiudere tutto.  Al primo boccone ha l’impertinenza di uno schiaffo. Ma è nello spazio che porta al secondo boccone che avviene il colpo di fulmine. Il pollo in tre cotture, poi, mantiene la delicatezza palatale delle carni bianche ma morbidezza e consistenza di quelle rosse. Così succede che il pollo non ha più nulla da invidiare al filetto di manzo. 

La melanzana al cioccolato, arachidi e caffè è un dolce non dolce, il cioccolato esaudisce un desiderio e la grana di caffè lo corona, appagando completamente e definitivamente il fine pasto. 

In generale, ci è sembrata una cucina ragionata, capace di coniugare le tecniche più ancestrali a quelle più avanguardistiche con lo scopo di dare pari dignità a tutte le materie prime. E ci riesce. 

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Da Angelo Sabatelli a Putignano va in tavola la verità, solo la verità, nient’altro che la verità

In tempi incerti per la ristorazione quali quelli che stiamo vivendo, a latitare spesso dalle tavole è paradossalmente proprio la coerenza, il fil rouge tra idee e fatti, tra intenzioni e pratica, tra proclami e quel che arriva nel piatto. Una latitanza evidente nei menu degustazione che, se una volta rappresentavano la sinossi della filosofia dello chef, ultimamente si configurano come compilation di piatti certamente riusciti ma poco consequenziali. Tra i fedeli all’uso della consecutio temporum anche in cucina c’è sicuramente Angelo Sabatelli. Quello che non le manda a dire, quello che la verità te la racconta in ogni piatto, in ogni sua sfumatura, in ogni sua segreta trama. Una verità che durante una degustazione ti induce spesso a fermarti e riflettere. A farti domande. A chiederti cosa sta scatenando sinapsi e perché, con quale alchemico criterio sono state composte, scomposte e poi di nuovo ricucite acidità e sapidità, dolcezze accomodanti e amarezze disturbanti, note accattivanti e asperità disorientanti. Non ama troppo i piatti signature Sabatelli, quelli iconici, quelli che molti suoi colleghi addirittura datano e non mutano mai, quelli su cui costruiscono fortune. Non ne ama la staticità, proprio quella che spinge spesso i clienti a diventare assidui, a tornare per ritrovare certezze. Preferisce piuttosto provocare, spingerti a sondare il nuovo e l’ignoto, farti arrivare maieuticamente al piacere.

Radici e contaminazioni: l’extraterritorialità della Puglia

Puntuali, reiterati e sempre ben governati sono i riferimenti dello Chef alla sua terra, ai suoi prodotti migliori e spesso poco conosciuti, alle loro intime e infinite interazioni, alla loro mai esaurita potenzialità. Riferimenti tenuti insieme e impreziositi – come nella pratica giapponese del kintsugi – da sottili e luminose venature di contaminazioni frutto delle sue esperienze professionali in Estremo Oriente (cifra da sempre distintiva della sua cucina), da una solida tecnica e da una instancabile curiosità onnivora.

Ne vengono fuori sia capolavori di cesello estetico e picco sensoriale come il crudo di astice, mandorla, mandorla verde e ponzu, il risotto alle verdure acide, estratto di lievito e limone caviale marrone o i gyoza di sponzali e foie gras, sia potenti madeleines come l’irresistibile (un vero e proprio piatto a sé) pane all’olio, vincotto, semi di cumino e sale di Maldon,  il pancotto al tartufo nero e parmigiano 30 mesi o il bianchetto di agnello in pignata in cui si fondono tecnica francese e memoria di affumicature casalinghe.

Certezze anche nel dessert, solitamente campo di sconfitta anche nelle migliori e insospettabili famiglie. L’aspic di litchi, lamponi e rosa damascena, crema soffiata al Moscato di Trani e polvere di ibisco denuncia con chiarezza che tutto ha avuto inizio da un grande maestro pasticcere mai dimenticato.

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La cucina senza tempo di Isa Mazzocchi 

La Palta, in dialetto locale, è una rivendita di sali e tabacchi. Ma La Palta era anche osteria con la nonna prima e la mamma, poi, di Isa Mazzocchi, oggi chef e patron alla terza generazione mentre già si stanno scaldando i motori per la quarta, sempre in cucina.

Un sali e tabacchi e un’osteria che si è trasformata in un luogo del bien vivre piacentino. Brigata tutta al femminile, la sorella Monica, in sala, con il marito di Isa, Roberto, e un gruppo di giovani dinamici a coadiuvare il servizio. La sala, quella di un elegante relais di campagna, vanta una cantina da far invidia a molti mostri sacri in Italia, ma non solo, e diventa proscenio di una cucina sottile quanto persistente e identitaria. Una cucina fuori dal tempo, sempre classica e contemporanea in ogni istante, che ha personalità e stile e che, negli ultimi anni, dobbiamo riscontrare essere anche assai cresciuta in contrasto e persistenza gustativa.

La tecnica da queste parti non è mai mancata, Isa è allieva del grande cuoco francese, ma italiano di adozione, George Cogny, che proprio quei nel piacentino aveva stabilito la sua residenza, lavorativa e personale. Il gusto vola alto nell’insalata d’orzo ai pomodori arrostiti con animella al burro e pepe verde, con il tocco suadente della spezia, la persistenza del pomodoro arrostito, l’eleganza della ghiandola, di qualità sopraffina. Ma ci stupiscono, e continueranno a farlo per lungo tempo, le commistioni estero-italiane dei ravioli di riso tra Oriente e Occidente, un piatto monumentale che unisce la zuppa di cocco di origine Thai ai ravioli, qui con farina di riso venere, ripieni di cipolle stufate e un pizzico di Grana Padano. Un grandissimo piatto che fa rima con eleganza e persistenza. Splendido il dolce babà all’Amaro Amara con caponata di frutta e verdura, cappero al sale, sorbetto di fichi ma, a proposito di eleganza, una lezione arriva già all’inizio, con la coppa piacentina di benvenuto.

La cucina, splendida, accompagna, come dicevamo, un ambiente di classe ed elegante e un servizio presente, attento ma, al contempo, disinvolto. Se non avete ancora visitato La Palta è senz’altro il momento di farlo.

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