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Kohaku Kaiseki

Autunno

Una proposta omakase; una alla carta; un menù che cambia al volgere di ogni stagione. “Autunno 2023“, come nei film di Kim Ki-duk, “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, anche se sembra sempre primavera da Kohaku: tempio devoto all’ospitalità giapponese (omotenashi dicono quelli bravi) tutto legno, sempreverdi e origami.

La cucina è autenticamente Kaiseki, ovvero avvitata sulla stagionalità e incentrata sul gusto puro dell’ingrediente, con un menù che cambia ogni stagione e ostenta un unico mantra: la materia, prima, centrale, ingredientistica nel senso etimologico di quella cosa – ingrediens – ‘che entra’, participio presente del verbo ingredior derivato di gradior, ‘camminare’, ma con prefisso in-: incamminarsi. In che senso? Che solo l’ingrediente di stagione, che nella filosofia giapponese è effimera e dura un momento, entra, introduce, fa il suo ingresso in menù. Menù che per appunto si articola nella cena omakase, ovvero al bancone, con incipit uguale per tutti, 20.30 spaccate. Oppure più tardi, o più presto, alla carta o, appunto, col menù da 6 o 10 portate che è stato quello da noi prescelto per scoprire Kohaku.

La filosofia dell’ingrediente nella stagione

Ecco dunque che a ogni portata corrisponde, appunto, un rapporto, una progressione, una variazione sul tema: una combinazione, se si preferisce, che è poi foriera di ulteriori possibilità gustative. Uno studio sull’umami, in particolare, si può considerare il Tofu fresco con salsa ponzu, negi, nori e zenzero, mentre la Capasanta e verdure in brodo katsuodashi sembra più concentrata sulla consistenza burrosa del mollusco e del brodo, in dichiarata contrapposizione alla croccantezza delle taccole.

Poco o nulla si dirà della croccante, tesissima polpa di Sushi e Sashimi, di cui l’anguilla (nel sushi) rappresenta senz’altro il punto più alto. Piuttosto, impossibile non citare la sontuosa Anatra marinata al miso, funghi shiitake con sedano rapa e mela in salsa teriyaki in accompagnamento, a rappresentare proprio la quintessenza di questo autunno, coi suoi umori salati e ombrosi a ricordare quasi una Marmite, con l’insalata crepuscolare di funghi shiitake, sedano rapa e mela, come in un trompe-l’œil di ogni autunno, qui e ora. Altrettanto corroborante, e splendidamente tenuto considerata la compresenza di brodo e vellutata di patate, il maiale brasato.

Eccessivamente rinfrescante il dolce, Gelatina di yuzu e uva fresca, pure troppo coi suoi colori saturi e la temperatura, fredda, poco in linea con la stagionalità tanto agognata, ma senz’altro rievocata con l’uva. Ottima invece la piccola pasticceria a chiudere l’esperienza. Unico vero appunto va alla carta dei vini: d’accordo che si tratta di una cucina che può tranquillamente prescindere dal consumo di vino – tanto che noi senza alcuna incertezza né malumore abbiamo optato per il tè – ma dal momento che si decide di averla, qualche referenza meno istituzionale e più ricercata potrebbe arricchire ulteriormente l’esperienza.

L’idea è di Sabrina Bai, imprenditrice della ristorazione capitolina tanto delicata ed efebica tra i tavoli quanto, immaginiamo, anche ferma nelle sue convinzioni imprenditoriali e culinarie, in piena coerenza con la formula che propone.

IL PIATTO MIGLIORE: Anatra marinata al miso, funghi shiitake con sedano rapa e mela in salsa teriyaki.

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La selezione maniacale della materia prima

Se, messi alle strette, dovessimo consigliare un solo ristorante da provare in Giappone tra le decine visitati e, probabilmente, le migliaia che da soli valgono il viaggio, pensiamo che Tempura Matsu a Kyoto potrebbe essere il nostro favorito.

La casa del giovane Toshio Matsuno, oggi alle redini dell’attività familiare, è difficilmente classificabile. Se il nome e il locale fanno pensare a un ristorante di tempura dalla storica conduzione familiare (con lo chef ai comandi ci sono la simpaticissima mamma e l’abile sorella), l’esperienza gastronomica che viene proposta è un kaiseki contemporaneo, originalissimo e al tempo stesso rispettoso delle tradizioni: nella scansione del menu, nella bellezza inarrivabile delle preparazioni e delle stoviglie in cui sono presentate, nella selezione maniacale di una materia prima d’eccezione trattata con sapienza e rispetto.

Lo segnaleremmo, quindi, perché permette di avere un’idea di quanto grande possa essere la cucina nipponica e di quanto rosee siano le sue prospettive e anche perché, dettaglio meno alato ma rilevante, consente di farlo a prezzi molto ragionevoli.
Toshio-san non è lì per caso: oltre a essere erede dell’attività di famiglia ha pensato bene di studiare l’alta cucina internazionale lavorando da Beige di Alain Ducasse a Tokyo. Però, contrariamente a quanto accade spesso, questa apertura alla Francia non va nel senso di snaturare le preparazioni proposte, semmai di poter sapientemente introdurre stimoli nuovi in una tradizione ancora formidabilmente vivace.

Fuochi d’artificio al banco

La scelta si limita a 3 possibili omakase dal prezzo diverso, non in base al numero di preparazioni, ma al tipo d’ingredienti presenti (nel nostro mancava la straordinaria aragosta che abbiamo visto sfilare, sostituita da tonno e polpo altrettanto eccezionali).

La successione è un insieme di fuochi d’artificio, talvolta per la spettacolarità anche tecnica delle preparazioni, altre volte per l’eleganza indicibile delle stesse e la qualità degli ingredienti che le compongono. Si può parlare delle Seppioline cotte direttamente a tavola in una piastra rovente con ginger e riso o del doppio colpo del riso in abbinamento a Polpo e fiori di sansho (il “pepe giapponese” che per 2-3 settimane l’anno allieta i palati da queste parti con la sua aromaticità unica) o al Tonno e sesamo. O, soprattutto, si può citare la Zuppa dolce di miso con gambero e bambù, che possiamo annoverare tra i piatti più straordinari mai provati negli ultimi anni.

Anche quelli che sembrano divertissement all’occidentale, come i famosi Udon serviti in un cubo di ghiaccio scavato, con un brodo soavemente profumato ai fiori di ciliegio, sono non meno che eccezionali (la consistenza e il “morso” li collocano tra i migliori mai provati anche in Giappone) e mostrano che la voglia di giocare della giovane età non è mai gratuita o inconsapevole.

Anche la proposta di tempura, rispettosa della storia del locale e limitata a 4-5 assaggi tra il vegetale e il pesce, è inappuntabile, con la gioia di osservare i gesti, ripetuti sempre uguali un’infinità di volte, da un sapiente, anziano aiutante.
La passione per la cucina si alimenta, sempre più difficilmente, nel tempo, grazie a esperienze come questa, capaci di sorprendere, emozionare e aprire la mente. Un passaggio da queste parti è una gioia e la nota è solo lievemente arrotondata per eccesso, perché siamo certi che questa sia destinata a essere e restare a lungo una delle grandi tavole del mondo.

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Un laboratorio di materie prime, ingredienti e sapori

Perfino nella notoriamente difficile realtà dei grandi ristoranti giapponesi, Sugalabo spicca per la difficoltà di accedere a uno dei suoi pochi posti a sedere. Da un lato, le serate in cui il “laboratorio” di Yosuke Suga è aperto al pubblico sono poche, perché la maggior parte del suo tempo lo chef lo trascorre girando il Paese per selezionarne gli ingredienti migliori; dall’altro, perché chi è riuscito ad accedervi una volta prenota la prossima visita prima di andar via, di fatto rendendo il posto una specie di club. A rafforzare questa condizione, l’accesso al locale stesso: nascosto da una parete mobile all’interno di una galleria d’arte, senza alcun segno che faccia supporre la presenza di un ristorante.

Le nostre aspettative, non lo nascondiamo, erano altissime e per alcuni versi totalmente fondate: la qualità della selezione è straordinaria perfino a queste latitudini, il lavoro di ricerca dello chef è instancabile e non è un caso che in una cena ci si possa imbattere nella patata più straordinaria mai mangiata, in fragole che sono il sogno di ogni gourmet, perfino in un prosciutto crudo prodotto da un piccolo artigiano giapponese capace di rivaleggiare con le migliori espressioni del Parma a cui si ispira.

Così come la tecnica nella realizzazione dei piatti si conferma quella di un maestro, forte di oltre 15 anni di esperienza, che si vedono tutti, al comando di cucine nel gruppo Robuchon.

Le “stazioni” gourmet fino alla epifania, a sorpresa, del doggy bag

Quello che ci ha appassionato meno, in un confronto ravvicinato con altre espressioni di vertice della gastronomia locale, è proprio l’idea di cucina: laddove un grande kaiseki moderno garantisce sempre la leggerezza impeccabile delle singole “stazioni” del suo percorso e del suo insieme, qui, dove si propone una cucina di chiara impronta transalpina, non mancano passaggi dove la grassezza si sente e, a fine pasto, si accusa (anche se l’accorta decisione di proporre dessert di straordinaria freschezza cerca di bilanciare questo problema). Il rischio, in alcuni momenti, è che proprio la valorizzazione di questi straordinari prodotti sia più limitata dalla filosofia della cucina francese rispetto a quanto riesca a fare la cucina nipponica.

Ci sono momenti altissimi, come la Radice di loto con tartufo e brodo di pollo al ginger, non a caso il piatto più giapponese di tutti, a parte la presenza del tartufo forse perfino pleonastica, con un brodo densissimo eppure mai stancante e la radice di loto che è un capolavoro di finezza vegetale; o i formidabili dessert, capaci di valorizzare al meglio prodotti rari e pregiatissimi (la fragola di Nara è paradisiaca; il pomelo Buntan, un agrume di straordinaria freschezza, dal morso appagante con l’abbinamento di acidità e note amare in proporzioni mai provate). Ci sono, però, anche episodi meno felici come nella Patata di Hokkaido, caviale, aglio selvatico, in cui il meraviglioso tubero è meno protagonista del dovuto in un piatto dalla concezione un po’ datata e comunque già vista.

Tutto è inappuntabile sul versante realizzativo (si pensi al feuilletage dell’amuse bouche iniziale o alle straordinarie cotture alla plancia del raro akamutsu), ma ci si chiede se questa fenomenale abbinata di ingredienti e savoir faire non potrebbe arrivare ancora più in alto dando maggior peso all’anima nipponica.

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Kyota Sushi, il tempio del pescato, a Tokyo

Una delle affermazioni più ricorrenti quando si parla di sushi è relativa all’importanza che ha il riso nella composizione del pezzo perfetto. Per alcuni incide anche per il 70% sul risultato finale e anche noi di Passione Gourmet lo abbiamo sempre sostenuto con forza. Ci stiamo riferendo a quello che è definito “shari”: consistenza del riso, temperatura, quantità, acidità. Sono tantissime le varianti possibili che si possono incontrare tra i tanti sushy-ya di Tokyo.
Minor peso si tende a dare al “Neta”, cioè il pesce, il topping. Ma il taglio, la frollatura, la quantità e il gusto dato dal neta sono tasselli fondamentali. La frollatura in particolare ha un ruolo principe per raggiungere il gusto e la consistenza migliore.
Bilanciamento, precisione e armonia tra le due componenti vanno a comporre il sushi perfetto.

Kiyota Sushi fa vacillare questa regola non scritta sul rapporto di forza tra Neta e Shari e lo fa offrendo al cliente semplicemente il miglior pescato che nella sua vita possa aver mai assaggiato. Intendiamoci, non si tratta solo di pesce superbo, ma anche del modo in cui viene preparato e servito.
Questo è un tempio del sushi: in questo locale ha officiato per anni Takeaki Niizu, che è stato, tra gli altri, il maestro di Araki (ora trasferitosi a Londra) e Sawada.
La mano è passata poi a Masa Kimura e ora c’è una ennesima nuova generazione dietro il bancone.

Quei bocconi da Imperatore

Kiyota Sushi è uno dei locali più costosi di tutto il Giappone; molte delle sue fortune sono legate proprio alla qualità assoluta del tonno che viene servito, a detta di tutti il miglior tonno (e il più costoso) che possa essere trovato al mercato del pesce di Tokyo.
La fase iniziale del pasto è dedicata al sashimi: non abbiamo difficoltà a dire che questa parte ci ha letteralmente sconvolto, costringendoci a riparametrare tutte le nostre convinzioni relative alla qualità del pesce e al modo di trattarlo. Un sashimi da 20/20, incredibile per gusto e consistenza.
Poi si passa al sushi: lo shari è delicato, estremamente elegante, ideato per lasciare spazio al pesce che compone ogni pezzo.
Non si ravvisa la stessa tecnica che si può ritrovare, ad esempio, nel sushi di Jiro, un vero Maestro nel corretto bilanciamento tra shari e neta e nella capacità di costruire quello strato d’aria tra riso e pesce che rende ogni boccone entusiasmante.

In alcuni pezzi le quantità non sono risultate perfette (troppo riso o troppo poco) e le due componenti sono risultate slegate.
Ma il pezzo con i ricci di Hokkaido, non comune da trovare come nigiri, rimarrà a lungo impresso nella nostra memoria: un boccone da Re, anzi, da Imperatore, forse uno dei migliori sushi mai mangiati. Così come tutti gli sconvolgenti pezzi di tonno, di qualità incomparabile. O ancora cosa dire degli Shirauo (Ice-fish), serviti sia come sashimi che come sushi, il pesce che più di tutti rappresenta l’arrivo della primavera in Giappone: semplicemente paradisiaci.

Un costo da pagare molto, molto alto, ma una esperienza incredibile, capace di regalare in più di un’occasione quei brividi che tanto ricerchiamo nelle nostre scorribande gastronomiche.

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Il Kaiseki è qualcosa di più di un grande pasto

A parte le regole di cui si compone e di cui più volte abbiamo parlato su Passione Gourmet, non è sufficiente mangiare una serie di portate favolose per valutare in maniera positiva un pranzo Kaiseki.
Il Kaiseki è sostanza, è forma, è colore, è bellezza, è uno stato di assoluta serenità.
Non sarebbe pensabile fare un grande pasto Kaiseki in mezzo alla confusione o in un luogo qualunque: l’ospite deve essere catapultato in una dimensione di pace assoluta, in modo da poter mangiare prima con gli occhi, poi con il palato e la pancia e infine con la mente.
Ogni dettaglio allora assume un valore fondamentale.Le stoviglie, preziosissime, imprescindibile vettore di piacere alla vista e al tatto. La natura, rappresentata in tavola e tutta intorno: la vista su un giardino ordinato, l’illuminazione perfetta, gli ingredienti stagionali.
La bellezza si deve fissare nella mente dell’avventore: solo allora si potrà dire di avere fatto un grande pasto Kaiseki.

La Grande Bellezza Nipponica

Così si può spiegare la diffidenza verso i nuovi clienti in tanti ristoranti giapponesi, spesso non prenotabili se non su presentazione di qualcuno che è già loro cliente.
Da Yakumo Saryo hanno deciso di aprire le prenotazioni del lunch a tutti i clienti, mantenendo la cena invece appannaggio esclusivo di chi ha già avuto una esperienza nel loro locale.
Noi quindi abbiamo potuto sperimentare il pranzo, pur consapevoli che di sera l’esperienza sia molto diversa e più complessa.

I più oltranzisti potrebbero far notare come, per molti dettagli, Yakumo Saryo sembri un locale pensato per i “Gaijin”, cioè gli stranieri. Noi rispondiamo che, invece, questo locale, nato dalla felice intuizione del designer Shinichiro Ogata, ha certamente deciso di proporre un Kaiseki moderno, fuori da alcuni paletti della tradizione, ma in modo intelligente e convincente. Inoltre, aspetto non secondario, il fluente inglese del direttore di sala trasforma un pranzo da Yakumo Saryo in un vero momento didattico: ogni aspetto del piatto e dei dettagli che gli ruotano intorno saranno spiegati e valorizzati, rendendo il tutto ancora più interessante per un appassionato di cucina.
La bellezza e la caducità della stessa sono due punti ricorrenti della cultura giapponese: questo pasto è riuscito a meraviglia nel suo intento, facendoci passare due ore di grande piacere, emozionandoci per portate di grande valore e nello stesso tempo mettendoci nella condizione di rilassarci e godere a pieno del momento.
La consistenza e il gusto della Zuppa di gambero tigre, la perfezione estetica e aromatica della composizione di piccoli piatti serviti in omaggio alla stagione, il piacere del rito del The matcha: piccoli passi verso il piacere e la calma.
Locale consigliatissimo, nella speranza di poter presto provare anche la cena.

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