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Australia Gourmet – Brae

Quello che state per leggere è il resoconto delle esperienze fine dining compiute dalla sottoscritta in occasione del The World 50 Best 2017 di Melbourne. Un viaggio in cui non ho pernottato mai più di due notti nello stesso hotel; ho preso 15 taxi e quasi tutti i mezzi di trasporto conosciuti; ho bevuto una dozzina di cocktail e assaggiato un numero non quantificabile di vini australiani, tasmani e neozelandesi; ho mangiato formiche verdi e raccolto – e subito divorato – le omonime ostriche nella placida baia di Coffin Bay; ho nuotato coi leoni marini nel periglioso mare a largo di Cape Catastrophe (nomen omen!) e ho pianificato – e fallito – l’evasione di un maestoso lobster di 10 kg sulla spiaggia di  fronte a Golden Island. Non paga, mi sono arrampicata su un numero indefinito di eucalipti solo per poter accarezzare il manto ispido e polveroso di grossi koala.

Tutto il resto, invece, lo trovate di seguito.

Una cucina rigenerante, luminosa e ispirata come il cielo su Birregurra

Siamo nello stato di Victoria, a circa 130 km a sud-ovest di Melbourne e, a guardarsi intorno, non sembrerebbe affatto di essere in un centro abitato. C’è l’Oceano a 25 km, alcuni mulini a vento, un’infilata di inevitabili eucalipti sullo sfondo e, più vicino, un orto e una serra, un forno ipogeo e, perfino, un piccolo, dignitosissimo cimitero ricco di quella umile austerità che tanto amo nei cimiteri anglosassoni.

E c’è Dan Hunter stesso che, con l’energia di un novizio, ci spiega di come ha trasformato, in meno di 4 anni, un normale ristorante di provincia in un punto di riferimento dell’arte culinaria contemporanea, a partire dalla terra di questa gentile collina, brae, in aussie, che ha rinverdito con una fattoria biologica di 30 acri, il ristorante stesso e sei suite per gli ospiti.

“Rigenerativa”, del resto, è l’etica agricola qui sposata, che ripaga il suo artefice, soprattutto in autunno, di un paniere turgido di verdure, drupacee, agrumi, noci, bacche e olive, col quale si ricava, tra le altre cose, l’olio extra vergine. Ci sono polli e galline che razzolano liberi e indisturbati e api che, oltre al miele, impollinando fecondano e rigenerano. Il 90% delle materie prime utilizzate dal Brae è autoprodotto o, comunque, proviene dalle risorse locali – come l’acqua servita a tavola che, opportunamente filtrata, piove dal cielo di Birregurra. Allo stesso modo, il 90% dei rifiuti è di origine orgogliosamente e rigogliosamente vegetale.

Similmente a quanto già accadde da Attica, al momento di sedermi riconosco la colonna sonora: si tratta di Angel dei The XX e, ancora una volta, mi stupisco di quanto le corde della ristorazione tutta, a queste latitudini, suonino all’unisono con quelle della migliore contemporaneità artistica e musicale. Nemmeno il tempo di intrattenermi in questa riflessione e arriva il gustoso Metodo Classico Überbrut Holly’s Garden ad accompagnare l’iconica Crostatina di piselli crudi e limone Aspen che, col suo impasto profumato di burro e suggestioni campestri è l’emblema stesso della bucolica cucina di Hunter, per buona pace del suo cognome. A proposito di icone, non poteva mancare nemmeno un Cetriolo sottaceto con formiche verdi e Lemon myrtle (spezia locale con un intenso aroma di limone; in cucina si usano le foglie disidratate), che leggo come un omaggio alla Orana di Zonfrillo, pur introducendo il commensale alla elfica sensibilità che anima il mondo vegetale di Hunter e al suo tocco nobile, riposante e benefico. Riposante è, del resto, il Brodo freddo di erba cipollina pressata e desert lime (varietà di agrume dal sapore molto acido di limone) su cui stanno assise delle grosse vongole e quella serica, dolcissima nebulosa che lega tra loro i semi del pomodoro.

Arriva dunque un’inaspettata IPA, intensamente e prevedibilmente tropicale con sentori di mango e caramello a incorniciare un prosieguo che, proprio nell’abbinamento, trova la sua chiave interpretativa: una Rapa rossa arrostita al barbecue, miele estivo delle api del Brae e uova di trota arcobaleno, combinazione dolce, terrosa e floreale, con punte sapide, estemporanee e provvidenziali. A incalzare le suggestioni del mare – qui vicino – una “breve ma intensa” Ostrica gelata con alga spirulina, resa insospettabilmente lattica dal gelato e umamizzata dall’alga dalle mille virtù. Buona, ma non si percepisce il classico sentore dell’ostrica.

Arriva dunque un pane – commoventemente abitato da profumo di grano e di miele – e un burro vaporoso, mantecato all’uopo con un vino canarino, semplice ma succoso, degno rappresentante della Valle de la Orotava, che accompagna una carnosa melanzana su cui si adagia l’Agnello Flinders Island Saltgrass (tradizione che rimanda alla Normandia e al suo agneau de pré-salé) su un’acqua dolce di cipolla, erbe e fiori dell’orto.

A preparare la bocca al dessert, anche in questo caso di una semplicità unica, ma coerentissima, arriva un misterioso Empty Bell Rosé 2014, con l’etichetta manoscritta, il sorso ematico e gli accenti floreali ad accompagnare una malinconica Tarte tatin al limite tra il dolce e il salato che custodisce, sotto la sua glassa, gli ultimi pomodori del giardino.

La galleria fotografica:

Quello che state per leggere è il resoconto delle esperienze fine dining compiute dalla sottoscritta in occasione del The World 50 Best 2017 di Melbourne. Un viaggio in cui non ho pernottato mai più di due notti nello stesso hotel; ho preso 15 taxi e quasi tutti i mezzi di trasporto conosciuti; ho bevuto una dozzina di cocktail e assaggiato un numero non quantificabile di vini australiani, tasmani e neozelandesi; ho mangiato formiche verdi e raccolto – e subito divorato – le omonime ostriche nella placida baia di Coffin Bay; ho nuotato coi leoni marini nel periglioso mare a largo di Cape Catastrophe (nomen omen!) e ho pianificato – e fallito – l’evasione di un maestoso lobster di 10 kg sulla spiaggia di  fronte a Golden Island. Non paga, mi sono arrampicata su un numero indefinito di eucalipti solo per poter accarezzare il manto ispido e polveroso di grossi koala.

Tutto il resto, invece, lo trovate di seguito.

Il conciliante sauvagisme dell’Hentley Farm & Restaurant

Non racconterò questa storia dal suo inizio ma dal momento in cui ho cominciato a prenderne coscienza, nel bel mezzo del trompelœil della sala di Hentley Farm & Restaurant. 

Ero ad Adelaide in occasione del The World’s 50 Best Restaurant 2017, il mio compito, per circa dieci giorni, sarebbe stato quello di testare alcuni dei migliori ristoranti della nazione assecondando lo zelante programma del munifico ente del turismo australiano che aveva pianificato la mia permanenza alla maniera di una caccia al tesoro. Disponevo di un programma di massima, ma era solo indicata la destinazione designata, ovvero la camera dell’hotel di turno, dove avrei saputo nei dettagli cosa sarebbe accaduto nelle 24 ore successive.

Fu precisamente nella suite 121 del Mayfair Hotel di Adelaide che appresi dunque che saremmo partiti, entro poche ore, per un tour in Barossa Valley, una delle regioni vitivinicole più antiche del paese, oggi alla sua sesta generazione di produttori.

Decido di impegnare il mio jet lag facendo alcune ricerche: scopro così che l’area deve il suo nome all’antica battaglia di Barrosa, in Spagna, dove il 5 marzo 1811 gli inglesi assestarono una gloriosa vittoria sull’esercito francese tale che il colonnello e pioniere William Light volle battezzare col suo nome le fertili colline dove anche noi, oggi, siamo diretti. Il caso, poi, volle che il nome fu trascritto male ed eccoci qua in Barossa Valley: 10 mila ettari vitati e votati, soprattutto, alla produzione di Shiraz e, in ordine di importanza, di Cabernet Sauvignon, Grenache, Chardonnay, Semillion, Merlot, Riesling e Mourvedre.

Quando si arriva qui, colpiscono immediatamente l’impasto della terra, soffice e rugginoso, la pietra nuda dei muretti, gli ulivi e i mandorli selvatici, alcuni dei quali centenari ma, soprattutto, l’infilata di eucalipti biondi, odorosi e stordenti le cui fronde, dorate e strepitanti, definiscono al vento il confine, anche uditivo, tra il Greenock Creek e l’altrove. Eccoci arrivati all’Hentley Farm & Restaurant, dal 1997 di proprietà di Keith ed Alison Hentschke e, dal 2014, parte del prestigioso gruppo Relais & Châteaux.

A fare gli onori di casa è Lachlan Colwill, head chef  del ristorante, divertente e divertito “Barossa Boy” di origini scozzesi che, alla maniera di un giovane Arcimboldo, ci porge un paniere di vimini rigoglioso d’ogni ben di Dio: piccoli cuori di bue, le foglie del basilico più carnoso e più odoroso che si possa immaginare, una zucca – che poi cuoce nel forno in ghisa appena fuori dal ristorante – e altre delizie tra cui spiccano, voluttuosi, turgidi boccioli di rosa bianca. Saranno questi gli ingredienti del nostro pranzo, poiché qui tutto è imperniato di un orgoglioso locavorismo.

Il nostro pranzo comincia nella maniera più australiana possibile: una carrellata di piccoli appetizer tra cui una croccante Foglia d’insalata dell’orto servita con Jersey cream, miele e mandorle tostate ancora calde. Si prosegue con una Cialda di mais sormontata da un uovo di quaglia e un’erba dal sapore lievemente narcotico, mentre la polpa del granchio, servita comme il faut, nel suo carapace, è così pura, dolce e carnosa da muovermi quasi alla commozione.

In questa carrellata, spettacolare è la performance delle Ostriche affumicate al rosmarino con il passion fruit. Indimenticabili, invece, i ritrovati pomodori cuore di bue appena scottati, pelati e serviti con ricotta, gallette di segale e aglio nero.

Cosa interessante, all’Hentley Farm & Restaurant, è che il personale di sala consta di una sola persona: una ragazza squisita interamente dedita alla mescita dei precisissimi vini aziendali. Gli 11 chef di cucina, infatti, servono ciascuno il proprio piatto, lo raccontano, se ne assumono l’onore e, in alcuni casi, anche l’onere. Come nel caso del superbo Filetto di kingfish su cipolla, riso selvatico e agresto, che ci riporta alla mente la celebre massima di Karl Kraus “per essere perfetta le mancava solo un difetto”, considerazione che estendiamo anche allo scolastico Riesling Eden Valley 2016 in abbinament0.

Evocativo, invece, il Canguro marinato al finocchio selvatico, spremuta di rapa rossa e boccioli di rosa selvatica: un’emozione deflagrante, ematica e affumicata, dolce e lontanamente luttuosa, che amiamo all’inverosimile, peraltro, in combinazione col Shiraz The Beauty 2015, con cui la rosa intrattiene un idillio floreale incalzato dalla percezione del pepe e della carne, dolce e ferrosa. 

A chiudere, l’ottimo Uovo di yogurt con tuorlo di passion fruit e semi di papavero in accompagnamento a Poppy 2016, “field bland” di Chardonnay, Riesling, Viognier, White Frontignac, Fiano e Pinot Gris. 

La galleria fotografica:

Quello che state per leggere è il resoconto delle esperienze fine dining compiute dalla sottoscritta in occasione del The World 50 Best 2017 di Melbourne. Un viaggio in cui non ho pernottato mai più di due notti nello stesso hotel; ho preso 15 taxi e quasi tutti i mezzi di trasporto conosciuti; ho bevuto una dozzina di cocktail e assaggiato un numero non quantificabile di vini australiani, tasmani e neozelandesi; ho mangiato formiche verdi e raccolto – e subito divorato – le omonime ostriche nella placida baia di Coffin Bay; ho nuotato coi leoni marini nel periglioso mare a largo di Cape Catastrophe (nomen omen!) e ho pianificato – e fallito – l’evasione di un maestoso lobster di 10 kg sulla spiaggia di  fronte a Golden Island. Non paga, mi sono arrampicata su un numero indefinito di eucalipti solo per poter accarezzare il manto ispido e polveroso di grossi koala.

Tutto il resto, invece, lo trovate di seguito.

Efesto, il dio del fuoco ai fornelli

A 75 km a Est di Melbourne, in una distesa fertile che è tutto un susseguirsi di farms e allevamenti di bestiame, si trova Geelong, la seconda città più popolosa dello stato di Victoria, affacciata sulla baia di Corio e solcata dal fiume Barwon. È qui che prende forma l’incredibile cucina primitivista di Aaron Turner nel suo ristorante IGNI. 

Aron Turner è l’Efesto, il dio del fuoco dello Stato di Victoria. Lo dichiara lui stesso già nel nome scelto per il ristorante, dal latino ignis, ovvero fuoco. Ma non solo, perché lo chef è anche il custode di un immaginario curioso imperniato di un brutalismo che dichiara già all’ingresso del ristorante dove, a dare il benvenuto, un altare votivo è messo a mo’ di memento, con tanto di ofrendas pendenti con scheletri e altre amenità, come fiori essiccati e un favo ricolmo di miele. Una teca ricca di stimoli estetici e intellettuali, che fa pensare a una natura morta appassita, un tempo rigogliosa e debordante di tutte le primizie dell’Arcadia di cui stasera resta, in vita, solo il miele. Il miele, appunto, che è poi il co-protagonista del piatto che più ho amato. Ma andiamo con ordine.  

La sala consta di pochi elementi lignei, che sembrano ignifughi a quel fuoco che Turner utilizza per preparare ogni pietanza, ma che riesce ad ammansire tanto egregiamente che raramente se ne avverte la presenza mentre un efficientissimo sistema di cappe e correnti aspira, rinfresca, sanifica. E difatti l’aria è sempre pulita, come le pareti della sala e i materiali puri, nudi, e senza stoffe. 

Per cominciare, arriva un amuse-bouche che difficilmente dimenticheremo: Chips di pelle di pollo croccante spalmati di maionese, caviale blu e aneto; un Fiore di zucca alla piastra ripieno di caprino fresco; una Foglia ostrica e, quindi, adorabili grissini di farro appena sfornati avvolti di bacon da un lato, di lardo dall’altro. Il pane, che arriva dopo, è anch’esso cotto in forno a legna e la crosta, di una croccantezza totale, libra in bocca profumi intensi di miele e di fieno.

Per tutta la successione di questi piccoli assaggi bevo di gran gusto il popolarissimo Ancestrale Sparkling Rosé di Fairbank, un vino di Victoria della Sutton Grange Winery che assomiglia in tutto a un vento caldo di tiglio, sambuco e zagara mentre, in bocca, ha un ché di officinale, di tè verde salato, tannico e metallico.

Fa quindi capolino, quasi timido, un Dumpling ripieno di merlano King George con pomodoro, tamarindo e caviale di trota, che assaporiamo con lo Chablis 2015 di Christophe et fils, che celebriamo – benché un poco immaturo – nel suo sorso di gesso, fiori di campo e finocchio selvatico. 

Torniamo quindi in Australia col Riesling biodinamico della Clare Valley Opa, watch out!, un nettare attraversato da un’acidità stridente, viperina e vegetale, che ben si sposa con l’incredibile Fungo shiitake e daikon.

In Australia, in fatto di vino, sono molto smaliziati, tanto che etichette afferenti al mondo orange e naturale, tanto in voga anche da noi, popolano forse con maggior zelo le tavole dei ristoranti fine dining. È il caso di questo Memento Mori di Dane Johns, un macerato di Moscato Giallo, Vermentino e Fiano che, col suo profumo di tè alla menta, salvia, rosmarino, più un quid di noce moscata, ben si sposa con quello che, di fatto, è il piatto più convincente della serata: l’Agnello, il miele, i fichi e il mazzetto di prezzemolo a cui la sapiente cottura ha restituito una certa secchezza, pur mantenendovi una misteriosissima carnosità. Il piatto in questione, comunque, rappresenta una delle più compiute esperienze sensoriali di questo emisfero: il miele, difatti, è masticatile perché ancora contenuto dal favo e, assieme alla carne, succulenta, ferrosa, dolce, caramellizzata dal contatto con le braci, è un idillio che contiene in nuce tutte le dolcezze più organiche, più ematiche mai esperite e che, soprattutto se abbinato al vino, comincia a vibrare di profumi intensamente rurali e campestri.

Per dolce, a confermarci l’indifferenza dell’Australia verso il mondo della pasticceria, arriva un Gelato al latte di capra cosparso di polvere di Davidson Plum, aghi di pino e lamponi disidratati. Lo apprezziamo, certo, benché nel minimo sforzo, e tanto più col superbo sorso del sidro Cider de Fer 2015, da mele stravecchie della Cedrerie du Vulcain.

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Quello che state per leggere è il resoconto delle esperienze fine dining compiute dalla sottoscritta in occasione del The World 50 Best 2017 di Melbourne. Un viaggio in cui non ho pernottato mai più di due notti nello stesso hotel; ho preso 15 taxi e quasi tutti i mezzi di trasporto conosciuti; ho bevuto una dozzina di cocktail e assaggiato un numero non quantificabile di vini australiani, tasmani e neozelandesi; ho mangiato formiche verdi e raccolto – e subito divorato – le omonime ostriche nella placida baia di Coffin Bay; ho nuotato coi leoni marini nel periglioso mare a largo di Cape Catastrophe (nomen omen!) e ho pianificato – e fallito – l’evasione di un maestoso lobster di 10 kg sulla spiaggia di  fronte a Golden Island. Non paga, mi sono arrampicata su un numero indefinito di eucalipti solo per poter accarezzare il manto ispido e polveroso di grossi koala.

Tutto il resto, invece, lo trovate di seguito.

A tavola con gli aborigeni 

Mandatory, obbligatorio, questa è la parola che mi viene in mente quando ripenso all’esperienza vissuta al ristorante Orana di Adelaide.

A proposito di esperienze altrettanto inderogabili, in South Australia, mi viene in mente solo nuotare coi leoni marini nel loro sanctuary di fronte a Thistle Island, visitare almeno una cantina in Barossa Valley e intrattenermi coi venditori del famigerato mercato coperto di Adelaide dove, tra le altre cose, è possibile gustare gli ottimi gin di Kangaroo Island, mangiare carne di canguro e coccodrillo essiccata, frutta esotica all’inverosimile e fare incetta di formiche verdi; il ché ci riporta speditamente da Orana. 

Orana fu la prima esperienza fine dining del mio viaggio in Australia durante quella fortunata serie di eventi che, nel 2017, mi portò a prendere parte al The World’s 50 Best Restaurant di Melbourne. Per circa dieci giorni il mio compito sarebbe stato quello di testare alcuni dei migliori ristoranti della nazione assecondando lo zelante programma del munifico ente del turismo australiano che aveva pianificato la mia permanenza in una maniera squisitamente “aussie”, per dirla in gergo, dacché somigliava in tutto e per tutto a una caccia al tesoro.

Arrivai al ristorante in una fresca sera d’inizio autunno e non senza la vertigine del meme di John Travolta giacché il suo ingresso, non segnalato, constava solo di quella che sarebbe sembrato, a un’occhiata superficiale, la scala di servizio del Bistro Blackwood al 285 di Rundle Street. Una volta dentro, però, ricordo che riacquisii padronanza di me nel riconoscere i graffiti del writer milanese Jacopo Ceccarelli, aka 2501. Una coincidenza non da poco se pensate che lo conobbi anni addietro durante un evento milanese a seguito del quale il suo sagittario ha giganteggiato sulla copertina del mio account Facebook dove, volendo, ancora lo si trova…

Nomen omen 

Una volta seduta, la lignea nudità del tavolo mi fa da preambolo a un eccellente gin tonic impreziosito di piccoli, croccanti e tannici frutti di nome ruby saltbush berries che, a ben vedere, rappresentano il nodo gordiano di tutta questa storia: intraducibili, incomparabili elementi privi di un qualsiasi corrispettivo non solo nominale, ma anche referenziale nel nostro mondo. Benvenuti in Australia e, certamente, benvenuti da Orana!

Il ristorante, concepito dallo chef scozzese di origini italiane Jock Zonfrillo con lo squisito e nobile pretesto di servire nel piatto l’Australia più recondita e, per certi aspetti, più vessata, quella degli aborigeni, consegna al visitatore un’esperienza che sarebbe stata cara all’antropologo Ernesto De Martino. Zonfrillo, infatti, è chef sotto le mentite spoglie dell’antropologo e, come tale, tramite il cibo edifica un linguaggio che, solo mangiandolo, diventa universale. E lo fa in una maniera così efficace che il prodigio della traduzione della parola aborigena “orana” in “benvenuto” avvenne, nella mia mente, in maniera pressoché spontanea. 

Ma ecco Alkoopina, apostrofa Brent Mayeaux, l’allora wine guy del ristorante, come a zittire i miei pensieri, introducendo i piccoli piatti d’entrata. Nell’ordine, Spiedini di pasta di patate infilzati su un bastone di lemon myrtle, burro affumicato di nocciole makadamia e grandi telline assise sulle foglie di una pianta grassa localmente conosciuta come “la succulenta della spiaggia”: da mangiare o no? Non lo sapremo mai, perché lesti arrivano i Gamberoni Spencer Gulf incipriati di polvere di Davidson’s Plum, un frutto selvatico tipico dell’area  subtropicale dell’Australia orientale, quintessenza di una carnosità dolce, appena fruttata. Quindi, come a a chiudere un capitolo, una ciotolina corroborante di Bacche tra le quali riconosciamo il riberry, il ginepro, il cosiddetto muntrie berry e il mango. 

Devo avere evidentemente un’espressione ben perplessa se arriva Mayeaux a offrirmi, puntualissimo, quello che, in effetti, sarà l’unico elemento familiare della serata: l’unica àncora: la Grande Cuvée di Krug che, in questa circostanza, mi è particolarmente cara.

La carrellata continua quindi con una successione di Ostriche Smoky Bay, Tendini di canguro e pepe della Tasmania, incantevoli Sfogliette di rapa rossa fermentata avviluppate su se stesse a mo’ di decadenti roselline selvatiche e, per finire, una splendida Seppia scavata, ripiena di carne essiccata, finger lime e prezzemolo di mare.   

“Alkoopina è quasi finito – avverte Mayeaux – possiamo dunque cominciare col pasto vero e proprio”. Per tutta risposta pretendo un altro calice di Grande Cuvée.

Ecco dunque un bel piatto irregolare, in ceramica, sormontato da un Filetto di triglia di Coorong e cera di Geraldton col suo miele cosparso delle già incontrate formiche verdi, le quali, col loro rush citrino e delizioso, ammantano il piatto, slanciandolo. 

E poi il Kohlrabi, ovvero un cavolo-rapa cosparso di dorrigo, un pepe stordente di montagna, con pepite di quandong, una bacca altrimenti detta “pesca del deserto” e il già incontrato lemon myrtle, ovvero un mirto così potente da sembrarmi, semplicemente, narcotico.

Ma è solo quando penso di aver visto tutto, e che tutto sia abbastanza, che arriva il piatto della serata: Lily pily, ovvero minuscole bacche spontanee simili a melette rosa, ma in miniatura, su un filetto di canguro addormentato su un letto di avocado e kutjera. Quest’ultima è una bacca secca simile a un pomodoro, completamente differente da un pomodoro, però, perché dell’outback, che è tra le aree più desolate e semi-desertiche dell’Australia. È con quest’ultimo piatto che, peraltro, Brent mi propone un vino divertente e assai divertito: si tratta di Positive Vibrations dell’azienda Gentle Folks, 90% Pinot noir da macerazione carbonica (sì, avete letto bene!) e 10% Gewürztraminer macerato (sì, avete letto bene!), dal naso festoso ed esuberante di eucalipto, rosa e violetta, e una bocca dolce, vinosa e balsamica.

Quanto al dolce, stento a credergli: non posso immaginare, infatti, che un pasto tanto erratico e selvaggio come questo sia chiuso da un dolce così semplice e codificabile. Col tempo, poi, scopro che non è propriamente nelle corde delle tavole australiane articolare il dolce sul modello della elaborata pasticceria francese, per cui devo mettermi l’anima in pace. Per stasera, quel che so, e che invero mi basta, è che questo Biancomangiare con acqua di pomodoro ed essenza di eucalipto è tanto rassicurante e confortevole che, come le scarpette d’argento di Dorothy, trova la strada per riportarmi a casa. 

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