Passione Gourmet Recensione Archivi - Pagina 5 di 220 - Passione Gourmet

Trattoria Guallina

Un inno all’oca a Mortara, terra di tradizione

La Lomellina è terra d’oca da molto più di un secolo. Si narra, infatti, che poco dopo l’anno 1000 qui si allevasse già quest’animale, anche per via di una nutrita comunità ebraica che, non potendo assumere carne suina per motivi religiosi, ha assurto l’oca a divin pennuto. Riflettendoci, l’oca è più che un valido sostituto del maiale; si presta a mille preparazioni, è golosa, grassa e ricca e, come per il maiale, è un animale del quale non si butta via nulla.

Alla Trattoria Guallina, a Mortara, da sempre si esalta il sopracitato pennuto, tanto che il consiglio è prenotare in anticipo, di almeno 2 giorni, l’oca intera arrosto servita con patate cotte nel suo grasso. Nel caso vi doveste trovare da queste parti per caso e non abbiate fatto in tempo a prenotarla per tempo, l’oca e le sue variazioni saranno comunque sempre presenti. Salumi d’oca con una mortadella di fegato e del patè di fegatini, Risotto con pasta di salame d’oca, fagioli dall’occhio e Bonarda, gli strepitosi Ravioli d’oca che non smetteresti mai di mangiare, il Bottaggio d’oca – una sorta di cassoeula d’oca per intenderci – con polenta di mais Ottofile, l’immancabile Scaloppa di fegato grasso e il petto d’oca con patate cotte nel suo grasso.

Ottimi e dolci quanto basta i fine pasto, con uno strudel da manuale e una cantina rifornita di tante referenze veramente interessanti con qualche grande etichetta di annate passate a prezzi concorrenziali, e un servizio curato dalla maître-patron Elena veramente caldo e avvolgente. Non mancate una visita da queste parti, in questo luogo che è il regno dell’oca, il divin pennuto per eccellenza!

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La cucina Nikkei secondo Albert Adrià

Una delle cose che si apprezzano di Albert Adrià è che non senta alcun bisogno di mascherarsi. È un frontman e va fiero di esserlo. Punta dritto all’essenza delle sue idee disegnandone contorni definiti e pitturandone con tocchi decisi le atmosfere. Per questo si espone a rischi, che si traducono in una sequenza infinita di dettagli, che se non curati adeguatamente potrebbero far risultare l’opera incompleta.

A Pakta, avamposto Nikkei nel centro di Barcellona, tutto è organizzato secondo quell’architettura creativa che Adrià pare abbia trovato il modo di standardizzare e replicare. Il meccanismo che porta al successo sembra essere ben oliato con la firma dell’artista che si esplica fin dall’accoglienza, calorosa e professionale, passando per una tempistica del servizio ineccepibile, senza sottovalutare l’importanza di alcuni aspetti spesso trascurati, come la comodità delle sedute e la qualità dell’illuminazione. Eppure, al contrario delle nostre precedenti visite, questa volta ci siamo imbattuti in una serata non entusiasmante. Abbiamo comprato il biglietto per una partita in cui il fuoriclasse si è dimostrato sì più bravo degli altri, senza però emozionare.

Quando il dettaglio fa la differenza

L’analisi di questa serata lascia spazio a una duplice considerazione. Qualcosa, va detto, può essere attribuito e ridimensionato all’interno di un ciclo che inizia e finisce nella serata presa in esame. Ci riferiamo alle temperature di servizio, che durante la nostra cena hanno mostrato un tasso di approssimazione che non ci saremmo aspettati. I campanelli d’allarme, però, arrivano da alcune fasi della degustazione che non rappresentano errori di natura tecnica ma che affondano l’origine dei propri difetti sulla reiterazione di alcuni ingredienti all’interno del menù che, causa anche la stagione invernale non propriamente generosa, ha dato vita a una sequenza di passaggi troppo rassomiglianti gli uni agli altri causando un assopimento emozionale del palato discretamente rapido. Alla luce di questo ci interroghiamo sulla scelta di proporre due menù, entrambi composti da 22 portate, anziché proporne uno più breve, in cui concentrare intensità e sapori. Inoltre, non possiamo esimerci dall’aprire una parentesi sulla materia prima, che, in una cucina essenzialmente di prodotto, non può che essere eccezionale e che invece si è fatta trovare spesso non più che buona.
Qualche passaggio decisamente memorabile c’è ovviamente stato, e più di uno: parliamo di piatti come l’anguilla alla brace con salsa teriyaki o i piselli di Maresme, fave ravanello, foglie di oxalis, kimchi e okra.

Per concludere, sottolineiamo come da Pakta si respiri il profumo di un grande ristorante, che in qualche occasione è anche lecito che possa non esprimersi come tale. Dispiace, e dispiace doppiamente dover ammettere che anche gli eroi abbiano dei punti deboli. Si tratta di dettagli, che per un genio come Albert Adrià non sarà difficile aggiustare, così da riportare la sua idea di cucina Nikkei a splendere a Barcellona.

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L’impronta italiana di un grande ristorante, nel vicentino

Sono ormai 30 anni che La Peca ha aperto i battenti, e possiamo certamente affermare che essa ha lasciato un’impronta indelebile nell’alta ristorazione italiana. Non si è mai mangiato così bene in Italia, lo sentiamo dire da più parti e anche noi ne siamo convinti: ecco perché, qualche volta, ci rimproveriamo di non possedere 50 bocche e altrettanti stomaci: tanti di noi ci vorrebbero per essere sempre presenti, dappertutto, testimoni di un percorso che continua inesorabilmente, e provvidenzialmente, a crescere. Senza dimenticarsi di nessuno.

Ed è un peccato, per dire, dimenticarsi de La Peca dei fratelli Portinari. Due grandi uomini che hanno creato un luogo di elezione e, senza clamore alcuno e senza protagonismi – facili in questo periodo di sovraesposizione mediatica – hanno giorno dopo giorno continuato a salire di livello, creando un luogo in cui si esprime tutta la grande vivacità di una cucina di impronta – la peca, appunto – tutta personale e in cui si culla il rito dell’arte del bien vivre a tavola.

Nicola, in cucina, è chef ormai maturo: si muove con una destrezza e audacia, da vero campione tanto che, nella nostra lunga serie di assaggi, non s’è riscontrata nessuna sbavatura, nessuna indecisione. Solo qualche reiterazione stilistica, a dire il vero lieve, ha fatto capolino tra i piatti. Il rametto di salicornia, pleonastico in molti casi, può essere assurto a firma autografa di piatti in cui la complessità di ingredienti e di tecniche alzano notevolmente il livello di difficoltà. Ma solo i grandi trovano equilibrio nella complessità, e ciò che riesce perfettamente a questa cucina che vive anche un’impronta davvero definita: autoriale.

Un’impronta tangibile e definita

Ne sono un fulgido e limpido esempio il Risotto ai peperoni chipotle, crudità di gamberi, marasca e aspro di curry, in cui l’apparente nota pleonastica dei gamberi crudi in realtà avvolge di dolce grassezza e dona completezza di texture a un piatto dai sapori formidabili. Notevole l’apparente gioco della Meringa al pepe con fegato grasso e frutti rossi, il Friabile d’alghe, black-cod cremoso e caviale davvero lungo e persistente e, infine, il piatto signature La terra in autunno, riproposto diversamente a ogni stagione dell’anno. Semifreddo al pepe verde, ravanelli, pimpinella e agrumi è, infine, un dolce che esprime tutta la grande sensibilità di un palato unico come quello di Pierluigi: elegante come una sciarpa di cashmere, setoso e intrigante. Il grande dolce di un grande ristorante.

Ma la Peca è, sopratutto, una grande famiglia italiana. Ed ecco quindi che la lunga mano di Pierluigi, che si esprime divinamente nel comparto dolce ma che dona tutta la sua classe e la sua personalità in sala, dov’è coadiuvata dalla compagna Cinzia Boggian, lady elegante, discreta e raffinata, aggiunge alla cucina di Nicola quel tocco in più. E, a proposito di sala, menzione speciale va alla squadra, giovane e meravigliosa, che ci ha fatto trascorrere ore indimenticabili.

Impronta indelebile, da provare quanto prima.

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A Licata splende la memoria culinaria della Sicilia più profonda 

Abbiamo scritto fiumi di parole su Pino Cuttaia e su La Madia di Licata. Correva l’anno 2004 quando varcammo per la prima volta la soglia di questo grazioso ristorante, allora senza riconoscimenti e con poche menzioni. Fu un’emozione profonda trovare una cucina così tanto matura ed emozionante, tecnicamente precisa e raffinata. Elegante, spesso sussurrata, intensa e vibrante.

Pino Cuttaia scelse la sua terra, e ancora oggi crede che il futuro passi dalla riscoperta del suo territorio. Ha fatto tanto, davvero tanto per la sua gente e la sua terra. Ha reso famosa Licata in tutto il mondo; oggi flotte di stranieri affollano le sue sale, a dire il vero mai abbastanza secondo noi. Perché siamo certamente al cospetto di un cuoco dalla sensibilità e dalla raffinatezza uniche, che sa scorgere i sapori e i profumi ancestrali riproponendoli in chiave moderna e attuale.

La Sicilia come fil rouge tra i piatti storici e quelli nuovi

E, come già abbiamo detto più volte in passato, i suoi piatti storici sono un tripudio di sapori e odori intensi della Sicilia più profonda. Continuano un lento e incessante cammino di rinnovamento e cambiamento, non stanno mai fermi, come lui del resto. Sempre in giro a dispensare il verbo della sua terra, trova anche il tempo di creare qualche nuovo piatto.

E, proprio con i nuovi piatti – Scala dei Turchi in cima a tutti – ci trafigge il cuore e giunge diritto all’anima. L’esplorazione vegetale del piatto di verdura e topinambur strizza l’occhio alle nuove mode senza mollare i piedi ben saldi in Sicilia, con il ricordo della bietola e con i suoi sapori tipici del luogo. Quelli di tartufo e cozza, che sorprendentemente virano verso la terrosa lumaca.

L’insalata di mare, lo sbeffeggio elegante del Cocktail anni ’80, la favolosa Pasta minestra di crostacei, in cui uovo e canocchia simulano il crostaceo nobile che al tempo i pescatori vendevano e non consumavano. Memoria visiva che ricorda a tutti la madeleine di proustiana memoria della fettina al limone che la mamma ci preparava per renderci più forti e vivi. Qui sostituita da un velo di Alalunga.

Perfino i dolci quest’anno hanno subito un cambiamento. Manca davvero poco affinché questo cuoco e questo ristorante entrino nell’olimpo dei grandi. L’elementarità della proposta dei secondi piatti, ricercata e voluta dallo chef, andrebbe arricchita al pari del percorso degli antipasti, di un passo e di una eleganza, nonché di pensiero, decisamente di ordine superiore.

Evviva un grande cuoco, evviva la Madia di Licata.

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Un vero ristorante di famiglia

Con il suo patrimonio di prodotti della terra e del mare e le influenze culinarie stratificatesi nel corso dei secoli, il Salento può contare su un potenziale culinario non comune, e questa non è certo una novità. Il movimento sviluppatosi intorno alla gastronomia è, invece, notizia di questi ultimi anni e può vantare, fra i suoi molti meriti, quello di aver contribuito a superare, almeno in parte, la sterile celebrazione degli ottimi prodotti di un territorio che non ha, da questo punto di vista, nulla da invidiare ad altri più celebrati spicchi di Meridione. Accanto alle – invero sempre poche – novità gourmet, ciò che riscontriamo è un sostanziale ampliamento della base, riconducibile a locali che, non paghi di omaggiare il Salento attraverso l’eterna riproposizione dei piatti tradizionali, hanno iniziato a comprendere come la cultura del territorio sia, per citare Gustav Mahler, la custodia del fuoco e non l’adorazione delle ceneri. Ed è nelle campagne intorno a Vernole, a pochi chilometri da Lecce come dalle marine adriatiche, che troviamo una bella e numerosa famiglia impegnata nel più nobile fra i due compiti. Claudio Tramis, ristoratore di lungo corso e infaticabile selezionatore di prodotti, si è da qualche anno installato nel rustico e affascinante complesso di Masseria Copertini insieme alla madre, cuoca, alle due figlie Martina e Giulia, rispettivamente in pasticceria e in sala e a Matteo Romano, che della giovane Giulia è il cucinante compagno.

Un ricambio generazionale dalle premesse assai incoraggianti

Da un paio di anni seguiamo l’evoluzione di Lilith e abbiamo avvertito, nel corso del tempo, sempre più palpabile l’influenza della generazione più giovane, che sembra oggi aver trovato un primo punto di equilibrio stabile. Se Matteo si è diplomato qualche anno fa presso l’ALMA, Giulia ha conseguito una laurea in Scienze Gastronomiche a Pollenzo, prima di rientrare alla base. La cucina che propongono è fresca, frizzante, ben eseguita e la formazione accademica si percepisce – eccome! – in preparazioni che superano le aspettative della lettura in carta. La Coscia di pollo farcita con capocollo e salvia ne è un eloquente biglietto da visita. Un minimo ma percettibile scarto dalla tradizione e una realizzazione competente convivono in un piatto che non cessa, tuttavia, di aderire perfettamente a un’insegna che recita “cucina tipica”. In carta, le chiocciole fioccano come nespole (cit.), ma la ricerca non si ferma all’apparenza di un simbolo da esibire nel menu, finendo per illuminare angoli insoliti della proposta. Troviamo allora in tavola dall’acqua al vino prodotti locali particolarissimi.

Un futuro tutto da decidere

Nel corso delle nostre visite, abbiamo avuto modo di apprezzare tanto le qualità di base quanto un processo di crescita non limitato alla sola componente culinaria. La valutazione, in tal senso, potrebbe spingersi già ora persino verso il “conto pieno” nella nostra scala di giudizio per le trattorie, ma abbiamo la sensazione che ci siano tempo e ulteriori margini di crescita per poter rivalutare con calma, forse persino con un passaggio nel campionato più competitivo. Per tali ragioni scegliamo, per il momento, la strada della prudenza.

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