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Il Pagliaccio “parallels experience”

Esperienze parallele, l’Omakase di Anthony Genovese

Anthony Genovese continua inarrestabile la sua crescita, anche dopo aver superato la soglia della apparente maturità. Lo fa con idee e contenuti davvero personali. Supportato ormai da tempo dal suo restaurant manager, Matteo Zappile, che è molto di più di una spalla. È il completamento di un cerchio che si chiude o, se la volete vedere così, l’incontro di due rette parallele che si intersecano all’infinito, alzando in continuazione l’asticella e spingendosi reciprocamente, senza mai sovrapporsi.

L’Esperienza Parallela di cui vi parliamo qui riguarda il progetto di un ristorante nel ristorante. Una sorta di Omakase dello Chef, prenotabile da 2 a 6 persone al massimo, in un luogo appartato e con servizio dedicato. Una tendenza in atto, questa, che sarà destinata a replicarsi in molti, moltissimi locali. Da un lato il ristorante, di grande livello e di grande qualità, dall’altro una esperienza ancora più audace, avanguardistica, profonda.

Il menù, 14 passaggi, ripercorre tutta la storia di Anthony Genovese e proietta la sua cucina verso vette ulteriori. I primi passaggi, folgoranti, hanno sancito definitivamente ciò che pensiamo da tempo: qui ci troviamo nel miglior ristorante di Roma capitale, senza se e senza ma. Come una Tatin, Mela, Rapa e Patate nasconde dietro l’apparenza di un prototipo di cucina di palazzo una serie di irriverenti sfumature speziate che solo il tocco di questa mano poteva pensare e assemblare. Un sottobosco di una profondità unica. Seguito da un altro colpo da maestro, Ostrica, rafano e coda di bue, che trova un connubio tra un brodo romano e un mitile bretone. Pare un uovo di colombo a cui però nessuno aveva mai pensato, sensazionale! Si prosegue poi con il terzo colpo ben assestato, quel Piccione a Pechino tanto rischioso – i piccioni ormai proliferano sulle grandi tavole da tempo – quanto originale, difficile ricordarne uno di tale intensità aromatica.

Proseguiamo poi con molti piatti divertenti e intriganti per poi approdare alla Faraona, magistralmente cotta, sugosa, tenera con pelle croccante accompagnata da un Pithivier semplicemente splendido. L’Astice poi, che racchiude un condensato della timbrica dello Chef, ci ha fatto volare tra India e Giappone, passando per Francia e condendo con pizzico di Italia. 

Una cucina, quella di Anthony Genovese, intensa e vibrante come non mai, ancora più in alto a quanto ci aveva abituato. Andateci! Senza esitazione e al più presto.

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Piccoli diavoli crescono …

Abbiamo seguito fin dagli albori la nuova avventura di Giuseppe Gasperoni al Povero Diavolo. Una avventura che, seppur in un periodo non facile, è già costellata di molti successi: Giovane dell’anno per la guida Emilia Romagna a tavola del 2022 e nuova stella Michelin, conquistata nel novembre 2020.

E il nostro ritorno a questa tavola ha confermato tutte le aspettative e le attese. Abbiamo trovato un cuoco più maturo, più centrato sui gusti e sulle presentazioni, coadiuvato da una sala con giovani, dinamici interpreti di un servizio informale ma attento e preciso. Ma la cucina, che è ciò che più attira la nostra attenzione, ci ha convinto e appagato con uno stile personale seppur sempre nel solco e nella direttrice del grande maestro e mentore del cuoco, Riccardo Agostini, del Piastrino di Pennabilli.

La stilistica di portate quali Carciofo, erbe macerate a crudo, crema di arachidi o Pasta reale in brodo di funghi, angelica e ginepro rimandano a una sorta di primogenitura stilistica del folletto di Pennabilli, in cui il primo si fa riconoscere per la dirompenza, a tratti forse eccessiva, della nota amara delle erbe macerate, mentre il secondo ci stupisce per equilibrio, la compostezza gustativa e la lunghezza complessiva. Ottime, seppure nella loro rusticità, le Cotiche, aceto di ciliegie e pecorino, decisamente buoni e intriganti i Ravioli in variazione di papavero, in cui il kimchi di foglie di papavero utilizzato come farcia dei ravioli ha donato all’insieme intraprendenza e personalità  (peccato, forse, per l’eccesso di formaggio di fossa).

Seconda nota di merito, poi, al servizio giovane, attento, e decisamente sul pezzo. L’esperienza complessiva ci fa propendere per una valutazione superiore al passato, seppur arrotondata, ma che fa presagire una continua e precisa crescita.

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Il classico in continuo movimento

All’Enoteca Pinchiorri il termine “classico” si riabilita. Troppo spesso interpretato, erroneamente, come stanco, paludato, immobile, retrò, la definizione dell’aggettivo non dice nulla di tutto ciò. Per “classico” si intende, infatti, una realizzazione materiale o immateriale così degna da elevarsi a modello, pertanto esemplare e fondamentale nel vero senso del termine. Ebbene, in questa definizione non c’è spazio per la stanchezza o l’immobilismo, anzi. Così come la tradizione, è infatti in continuo movimento anche la classicità e ciò è tanto più vero quando si parla di “classico contemporaneo” per descrivere il modello esemplare di Annie Feolde e Giorgio Pinchiorri, che hanno sparso il verbo e l’energia presso tutti i loro collaboratori.

Dalla grande accoglienza curata da Alessandro Tomberli alla splendida e attuale cucina capitanata da Riccardo Monco e Alessandro della Tommasina, tutto quanto racconta la storia di un luogo vivo e pulsante e il menù contemporaneo è il paradigma di ciò che è l’Enoteca Pinchiorri oggi. Un menù ricco, articolato, che si snoda attraverso passaggi pensati e coniugati rimanendo sempre fedeli al mandato del proprio nome. Qui siamo in una enoteca, anzi siamo nell’Enoteca, maiuscolo, per eccellenza. Un luogo che non ha eguali al mondo, in cui si celebra da sempre il rito della degustazione e, pertanto, le pietanze sono pensate in funzione di questo e in modo da far godere gli avventori, consentendo loro di degustare vini unici, spesso introvabili altrove. Ma ciò, si badi bene, non impedisce affatto alla cucina di imprimere eleganza, personalità, freschezza, concentrazione, gusto e, non ultimo, modernità e attualità. Un percorso che gioca a rincorrere tecnica, impronta personale e sapori italiani attraverso la trasposizione contemporanea, sia negli impiattamenti che negli ingredienti e nelle loro proporzioni.

Cucina-vino: un binomio imprescindibile

Il risultato? Una cucina leggera, gustosa, raffinata e perfettamente abbinabile al compendio enologico ottenuta imprimendo anche grande personalità e intensità al gusto. Un altro aspetto davvero interessante di questa cucina è, poi, l’irriverenza nel trattare l’elemento apparentemente principale del piatto come comprimario, elevando incredibilmente i presunti comprimari a protagonisti assoluti. Come dimostra la zuppetta di mandorle e olive celline, carciofi al bergamotto e astice al ginepro, esempio paradigmatico e significativo di questo concetto, e infatti non è un caso che l’astice sia nominato, volutamente, alla fine, mentre la prima parte è dedicata alla zuppetta di mandorle di Noto, fornite direttamente dal maestro Corrado Assenza.

Interessanti, tecnici e profondi, poi, i ravioli di scarola e mascarpone arrostiti e non bolliti, bottarga di muggine e spuma di aringa. Piatto che possiamo prendere da esempio, come il precedente, per il perfetto equilibrio tra sapidità e intensità gustative. L’equilibrio è, del resto, l’altro termine ricorrente di questa cucina, che ci stupisce spesso anche per il modo di trovarlo, questo equilibrio, considerando il livello di rischio e di difficoltà cui ogni piatto si sottopone.

Infine, nota ulteriormente di merito ma evidente solo il giorno successivo, la leggerezza. Leggera la digestione, leggero il percorso, leggero il pensiero. 

All’Enoteca però, come abbiamo detto in premessa, la componente enoica e, conseguentemente, quella del servizio, riveste una importanza pressoché paritetica, se non a tratti finanche superiore, alla cucina. E il merito del direttore di sala Alessandro Tomberli è precisamente quello di rispondere agli stimoli dei due chef con una gestione egregia di sala e cantina che brillano della sua innata classe, ma senza altezzosità. No, qui vi sentirete cullati, coccolati e accuditi con discreta ma profonda eleganza.

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Una dimora di charme che continua a fare la storia dell’alta cucina bergamasca

Era il luogo prediletto del grande Luigi Veronelli, l’Osteria della Brughiera, un’oasi incantata fatta di sale eleganti e un giardino accogliente e di classe. Qui, da sempre, gli Arrigoni, prima il padre e oggi il figlio, Stefano, accolgono gli avventori nella monumentale cantina, ricca di vini di pregio e salumi, formaggi e sfiziosità altrettanto uniche, frutto di una ricerca maniacale. È in cantina che, difatti, sarete accolti per l’aperitivo, accompagnato da una coppa eccelsa, affettata all’uopo con la Berkel d’ordinanza. Però “la Brughiera” non è solo cibo di qualità, è anche un elegante e raffinato rifugio ricco di opere d’arte e buon gusto, ovunque.

Quanto alla tavola, da quando c’è Stefano Gelmi in cucina, giovane talento cresciuto tra i fornelli e il pass dell’Osteria della Brughiera, la freschezza di idee e la personalità dei piatti sono cresciute a dismisura. Se ne parla davvero poco di questo incantevole luogo ma il nostro menù – incominciato per onor di cronaca con un ritardo nella partenza davvero troppo elevato – si è poi indirizzato e articolato verso un tracciato davvero originale, molto centrato gustativamente e di qualità indiscutibilmente elevata.

Già la partenza, con il polpo di Porto Santo Spirito cotto e crudo con arachide ghiacciata, oliva nera e levistico ha davvero impressionato per originalità e centralità gustativa, poi confermato e anzi superato dalla seppia in variazione successiva, elegante quanto golosa e raffinata, per poi approdare alle paste, in cui hanno decisamente spiccato le penne lisce al burro di stevia, acciughe e gazpacho e gli spaghettini con telline sgusciate.

Ottimo e per nulla scontato il piccione, con abbinamenti e commistioni originali e di livello anche il comparto dolce, in cui spicca una millefoglie molto, veramente molto buona.

Delle difficoltà in partenza di servizio abbiamo già detto, dobbiamo anche dire che il patron e suoi ragazzi hanno poi recuperato adeguatamente con solerzia, attenzione e precisione rimarchevoli. Un plauso, quindi, all’Osteria della Brughiera che, come tante altre “osterie” nazionali, pur non essendo precisamente “osteria” vi cullerà col calore, il garbo e la piacevolezza di un tempo.

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Norbert Niederkofler: l‘incantatore della Val Badia

Norbert Niederkofler s’è formato dapprima nel Nuovo Mondo e poi in giro per gli stellati di tutta l’Ecumene. È stato questo peregrinare rapinoso e disorientante che, negli anni della prima globalizzazione, ha determinato per lui un ritorno in patria coinciso nient’altro che con l’esigenza – non decidibile, non tacitabile – di casa: una casa che era, allora come adesso, la montagna e l’urgenza di introiettarla, questa dimora estrema, sostituendo il particolare all’universale e farne teoria e finanche filosofia con Cook the mountain e Care’s e, pratica, al St. Hubertus

È la montagna, del resto, la responsabile del genio di Norbert Niederkofler nonché colei che ricorda all’uomo che ogni genius è prima di tutto genius loci diventando, della cucina, sia l’immaginario che il quotidiano. È solo così, del resto, che gli ingredienti acquisiscono una freschezza propria, tenera, virginale: quella delle cose appena nate. Come le erbe, in particolar modo, di cui questa cucina tanto si nutre quanto è nutrita e da cui mutua una vita intima, rizomatica e ariosa, ossigenata e rigenerata dalle altezze anche quando si tratta di sottosuolo o sottobosco come nel caso dei funghi e delle radici.

E non senza l’ausilio delle mani sapienti dell’head chef bergamasco Michele Lazzarini, già lodato anche in passato, che è uno dei talenti più brillanti del St. Hubertus: è anche grazie al lui, infatti, se l’elemento vegetale, in qualsiasi forma, diventa un protagonista capace di spartirsi, con pochi altri elementi, l’intera forza e l’efficacia del piatto. Accade con la salsa di nasturzio che accompagna il cervello nonché col brodo di anguilla dell’anguilla stessa, qui porchettata. Peraltro nell’impianto ergonomico di questo piatto si manifesta una seduzione importante, e assai ricorrente: quella verso una fruizione brutale, preistorica della cucina che cela anche l’invito, invero esplicito, a un rapporto non mediato col cibo, da esperire direttamente, con le mani.

Una frugalità di stampo classico

Tra gli elementi ricorrenti della cucina del St. Hubertus, poi, c’è l’acidità: che non significa necessariamente freschezza o, comunque, non solo. Perché tutto il repertorio delle acidità possibili è frequentato con assoluta disinvoltura da Niederkofler, che dimostra di esser capace di integrare ogni acuto e contestualizzarlo sempre forte com’è di un retaggio capace di conciliare l’elemento più classico, o più alto, col bruto (o col crudo). Tutta la sua cucina, anzi, potrebbe esser concepita come l’ambizione a una dimensione rustica e frugale dell’esistenza da parte di un cuoco con solide basi classiche d’impronta smaccatamente francese.

Peculiari i primi piatti che sono, ciascuno a modo suo, un piccolo calembour: fruttato di uva spina lo spaghetto freddo; umami slanciato il risotto, dove la spinta casearia, non paga di se stessa, viene rinvigorita e forse anche sdrammatizzata dalla verve della colatura di coregone. Quanto ai ditalini, formato di pasta comfort per antonomasia, questi accolgono una seduzione conturbante: quella ematica e deliziosamente borgognona dell’estratto di selvaggina.

Si torna dunque all’incanto della dimensione agreste e bucolica con la trota alla mugnaia e, soprattutto, con la carota, laccata fino alla torrefazione.

Perché dal raccolto alla casseruola, e questo Norbert lo sa bene, passa tutta l’italianità in cucina e ciò è tanto più vero a queste latitudini, dove tecniche come la fermentazione diventano mandatarie visto che la terra si chiude, diventando inaccessibile all’uomo, per oltre cinque mesi l’anno. Da qui la necessità della circolarità dell’economia: tutto quanto arriva nel piatto, infatti, arriva da un mercato di prossimità che si materializza in oltre 500 tra verdure, erbette e funghi, mentre dagli allevatori locali si comprano solo animali interi al fine di propiziare una competenza che, del sacrificio dell’animale, sappia celebrare tutto e vanificare nulla.

Una competenza che diventa un trionfo nel maialino dai rimandi fusion e nei ribs di agnello straordinari nella cremosità delle carni, al punto da sembrare bolliti. Una consistenza struggente e misteriosa, ulteriormente enfatizzata, ton sur ton, velluto su velluto, dalla potentissima zuppa di funghi vellutata dalla finitura, una schiuma di fungo a terminare la carrellata dei salati.

E proprio questa chiusura ci accompagna felici ai dolci, in una carrellata tra le migliori mai assaggiate: un crescendo di classicismo condito con sapienti interpolazioni fino al gran finale della imperiosa, definitiva tarte tatin.

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