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Kodawari Ramen (Tsukiji)

Il Ramen di Parigi

Ispirato allo storico mercato del pesce di Tokyo, il più grande mercato all’ingrosso di pesce e frutti di mare al mondo fondato nel 1935 e chiuso nel 2018, Kodawari Ramen (Tsukiji) attira ogni giorno uno sciame di avventori, per lo più autoctoni ma anche qualche turista o qualche orientale, colto da un eccesso di nostalgia, in cerca di un ottimo pasto caldo in un ambiente senz’altro posticcio ma anche misteriosamente credibile. Complice, forse, il trattamento spartano dei ragazzi di sala, vestiti di scafandri e stivaloni di plastica, l’effetto “mercato del pesce” è qui davvero assicurato.

Ciò premesso, il ramen è ottimo e del ramen, ovvero di quel piatto transnazionale di cui non esiste alcuna ricetta codificata quanto, piuttosto, una molteplicità di versioni quante sono, in Cina come in Giappone, i frammenti di mondo, Kodawari Ramen è veramente la più aderente delle manifestazioni. Paesaggio anche interiore, ogni ramen rappresenta una specifica visione del mondo, per questo accade che ciascuno dei pregiati e succulenti tagli di pesce e carne (che qui spaziano dall’orata pescata al pollo ruspante, per culminare col Pata Negra Cebo de Campo) leviti perfettamente in sospensione in un brodo che non può esimersi dall’essere, a sua volta, un brodo di pesce, sia esso di orata o di sardine, con la sostanziale variante consentita della sua densità (si può scegliere infatti se averlo denso – ovvero bollito per oltre cinque ore – o chiaro) e impreziosito da una carrellata di ingredienti, miscele e interpunzioni fusion come il lardo di Colonnata.

A questo proposito è stato interessante apprendere che i noodles sono fatti col grano del campo Kodawari in Acy-Romance, coltivato da un agricoltore di nome Jean Potier. Il mugnaio, anch’esso chiamato per nome, al secolo Gilles Matignon, lo trasforma in farina presso un mulino dell’Ile-de-France, mentre la pasta “stagiona” per 24 ore prima di subire la prassi del temomi, ovvero la schiacciatura a mano. Le uova sopra al Paitan di orata sono alla coque, ma marinate per 48 ore, le sardine, tutte, arrivano dalla Bretagna e la salsa piccante, ottenuta con quello che sembra un misto di burro di arachidi e diversi tipi di pepe e peperoncino, è deliziosa. Del resto della passione per l’umami, ma senza glutammato né esaltatori di sapidità, ne hanno fatto uno sport aziendale, praticato combinando tra loro dashi, Kombu, pesci e shiitake

Quintessenziale la lista delle bevande alcoliche – due Sake, un solo tipo di birra, un vino alle prugne e un cocktail – mentre quella dei dessert riserva, almeno sulla carta visto che complici le porzioni abbondanti non siamo riusciti ad ordinarne alcuno, opzioni invitanti come la Crème brûlée alla maniera di una capasanta.

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Occhio alla sostanza

Dimentichiamoci degli eccessi e delle luci scintillanti di Shibuya, l’eleganza e la ricercatezza dei moderni ristoranti di sushi. Da Waraku, a Roma, con il suo locale semplice, a tratti spoglio, siamo in una vera e autentica trattoria giapponese. La sostanza è la vera regina del locale; è il cibo a portarci in Oriente, più che i pur presenti rimandi alla cultura del Sol Levante. Questo bistrò ha l’intento di avvicinare il cliente ai vari mondi della cucina giapponese che, troppo spesso, sono completamente dimenticati alle nostre longitudini a favore del sempre più celebrato sushi che, però, rappresenta solo una piccola parte del patrimonio culinario nipponico, per giunta ascrivibile solo alle occasioni particolari. La cucina quotidiana, familiare, di casa, è altra cosa e qui riusciamo ad averne un chiaro esempio.

Oltre al ramen c’è di più

Il ramen rappresenta sicuramente l’architrave della proposta: tradizionale o vegetariano, viene declinato in moltissime sfumature, passando dal piccante all’agro fino alla dolcezza del cocco. La versione con la zuppa di miso ci ha conquistato; leggermente meno salata della classica zuppa di soia, risulta molto equilibrata e delicata, consentendo di apprezzare al massimo l’apporto dei singoli condimenti, garantendo la sensazione di una zuppa diversa ad ogni assaggio. Molto apprezzata la possibilità di richiedere il “Kaedama”, la ricarica di un’intera porzione di spaghetto alla zuppa.

Da atteso protagonista, il ramen lascia il palcoscenico a quelli che, paradossalmente, sono presentati come accompagnamenti. I famosi gyoza risultano impeccabili nella tradizionale farcia e nell’ottima chiusura a mano, perdendo però di personalità nel condimento, risultando troppo appiattiti sugli stessi gusti. Il contrario accade per il meno celebre buta kimchi, fettine di maiale marinate nella soia con verza coreana, che sorprende per il gusto che strizza l’occhio all’umami.

E sul gusto si concentrano tutti gli sforzi della cucina, trascurando, forse anche troppo, il lato estetico dei piatti; anche la sala e la mise en place (praticamente assente) non si sottraggono a questo giudizio. Pur comprendendo che, per chi aspira ad essere una trattoria familiare, la presentazione del piatto non rappresenti un aspetto centrale, una maggiore cura consentirebbe di valorizzare la qualità della preparazione, permettendo di mangiare con gli occhi, oltre che con le bacchette.

Non esiste una vera carta dei vini strutturata, mentre dello spazio è riservato ad alcune birre giapponesi e ad una selezione di tè, da gustare durante il pasto o come digestivo. Anche la selezione di dessert è piuttosto limitata, con molte influenze italiane; tengono alta la bandiera nipponica i simpatici mochi.

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Un nuovo angolo di Giappone a Milano

Yoshikazu Ninomiya è una vecchia conoscenza degli appassionati di cucina giapponese a Milano. È stato, fino all’infausto avvento del Coronavirus, l’anima di quello che era uno sei più autentici avamposti nipponici della città: Fukurou, poi chiuso anche a causa di un mancato accordo con i proprietari delle mura.

Il nuovo, omonimo locale di Ninomiya – “Kappou” sta per “katsu” (“tagliare col coltello”) e “pou” (“cucinare”) – si è trasferito a poche centinaia di metri dalla predetta insegna. Il locale è ancora più piccolo ma l’offerta gastronomica è pressoché la stessa di Fukurou, con una lunghissima carta delle vivande, suddivisa per tipologia di preparazioni, che, nelle serate di pienone, rischia di prolungare di troppo le tempistiche di servizio. Kappou Ninomiya ha aperto da qualche settimana e già registra il pienone ogni sera (accaparrarsi uno dei pochi posti al bancone, dove si vede lo chef all’opera, è ancora più complicato e vi consigliamo di prenotarlo con largo anticipo).

Oltre ad alcuni piatti preparati dallo chef davanti agli occhi (nigiri, maki e il sempre affascinante polpo marinato nel wasabi fresco) abbiamo assaggiato dalla cucina le ostriche impanate fritte e il wagyu (qualità A5) alla griglia (è stata servita la parte del diaframma), entrambe preparazioni semplici ma ben eseguite. Qualche sussulto in meno per il pesce dei nigiri – ci ricordavamo assaggi migliori – ma, anche in questo caso, preparati in proporzione e temperatura pressoché perfetti. Pochi assaggi per un prezzo non proprio popolare, a differenza del pranzo durante il quale c’è un’offerta di bento box (jubako) e ramen dall’ottimo rapporto qualità/prezzo. È un vero peccato l’assenza, almeno per il momento, di una esperienza “omakase” che, dato le differenti preparazioni proposte, sarebbe una scelta ideale.

Chiaramente, è molto presto per assegnare delle valutazioni: saranno necessari diversi passaggi a rodaggio completato e molteplici assaggi dallo sterminato menu. Ma già non vediamo l’ora di tornare.

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Oslo –Tokyo andata e ritorno

Il nesso tra Norvegia e Giappone? Gastronomicamente parlando mai così eterogenee, eppur mai così vicine, come dimostra Hriminir Ramen, avamposto nipponico nel cuore di Oslo, uno di quei locali melting pot dove due culture s’incontrano creando un sodalizio di sapori. A dirla tutta, il suo fautore  David Quist non vanta chissà quali trascorsi stellati nelle cucine di mezzo mondo, anzi è un microbiologo americano appassionato di cucina che, folgorato sulla via del ramen, ha deciso di apprendere questa antica tradizione da uno dei più celebri mentori in questo campo, Kibomoto San del Ramen Kai di Tokyo.

Ebbene la mentalità scientifica di Quist, applicata alla conoscenza della biodiversità e alle tecniche che la cucina nordica ma di riflesso anche quella giapponese offrono, ha fatto sì che l’offerta di Hrimnir Ramen, sia tra le più innovative, in questo campo, mai assaggiate. Tecniche classiche, consacrate alla realizzazione del ramen, incontrano gli ingredienti misconosciuti del grande Nord atlantico, sferzato da vento, altipiani innevati e burrascose correnti marine.

Tra koji, miso e shoyu, trovano spazio cuori di balena fermentati, pickels e nuovi kitmchi sperimentali come quello, sensazionale, realizzato con il cavolo di Bruxelles, nerboruto nel lato fermentato ma delizioso e intrigante al palato, oppure l’insalata di patate giapponese con sesamo e uova affumicate di merluzzo. E poi lui, il protagonista della nostra esperienza: il ramen. Alla prova di assaggio in duplice versione nell’hen shoyu ramen con la tipica chashu, tipica e fondente pancia di maiale brasata con una magistrale scorzonera fermentata e cipollotto. Mentre nel secondo assaggio, quello da knock out umamico, il paitan gyokai shio ramen, il più antico delle declinazioni nel mondo del ramen, dove la sapidità è data da un brodo semplicemente salato (senza ausilio di salsa di soia in questo caso rispetto allo shoyu), ma che lascia spazio alla molteplicità di ingredienti impiegati: l’immancabile pancia di maiale, l’uovo marinato nel caffè di soia, topinambur fermentato, aglio orsino, cavolo nero essiccato, cipollotto e gli ottimi noodles, homemade, of course, dell’Hrminir.

In buona sintesi, possiamo dire che ciascuna delle cucchiaiate del ramen di Hrminir spazia negli 8404 km che separano Oslo da Tokyo che, credeteci, non vi sembreranno poi così distanti.

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Un autentico ramen bar, sotto i portici di Bologna

Arriviamo in due alle 19.30 di un venerdì sera di fine inverno. Ci sono tre persone in fila prima di noi, ma ci fanno accomodare immediatamente. Presto svelato l’arcano, scritto a chiare lettere all’ingresso del locale: hanno la precedenza i gruppi al completo.

La musica di sottofondo alterna l’elettronica al minimal e, in un battibaleno, via delle Lame trasfigura nel set di Blade Runner, con più calore, però, restituito non solo dai fumiganti vapori del brodo, ma anche da alcune accortezze, come quella dei lacci per i capelli per chi, avendoli lunghi, si senta limitato nella suzione del ramen stesso, “da consumare velocemente e, come da tradizione, rumorosamente”. Queste le prescrizioni.

Parole d’ordine: nitidezza e rapidità

Tutto, qui, appare regimentato. L’organizzazione di questo piccolo, urbanissimo ramen bar fila come un orologio svizzero: ci si accomoda, si ordina autonomamente, tramite un menu completo di glossario, tra i cinque ramen, quattro classici più un extra, e cinque appetizer a rifinire la proposta.

Per noi, tofu fritto con zenzero grattugiato, olio al wasabi e cipollotto, spugnoso e croccante e, ovviamente, molto piccante, e lo spicy karaage bao: un panino al vapore ripieno della polpa soda e croccantissima della panatura di un pollo umettato con l’immancabile maionese allo yuzu.

A seguire, il ramen Shoyu toriniku, con brodo a base di soia e sashi tradizionale, pollo sfilacciato,  bambù marinato, uovo e alghe e il Kinoko paitan, completamente vegetariano con funghi freschi, germogli di soia, cipollotti, uovo, tufo fritto e alghe. Sapori molto nitidi, riconcilianti col mondo, una panacea dopo una fredda giornata lavorativa. Da segnalare, la curiosa la consistenza amidaceo-viscosa del ramen vegetariano che, nell’insieme, sembrava più sostanzioso di quello al pollo.

Dulcis in fundo…

Quanto al giudizio, benché più lusinghiero, ci sentiamo di fare un appunto. Chiaramente, qui tutto è concepito per un consumo rapido, prescrizione che non intendiamo biasimare anche perché puntualmente dichiarata. Tuttavia, vedersi consegnare il conto, senza averlo chiesto, alle 20.30 e senza che nessuno fosse in attesa dopo di noi è una di quelle inezie in grado di mettere in discussione l’intera percezione dell’esperienza.

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