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Pashà

L’esaltazione del territorio

È difficile completare, e arricchire, un percorso lavorativo ricco di soddisfazioni come quello che ha portato Maria Cicorella alla creazione di un locale dove l’esaltazione del territorio attraverso la cucina era divenuto uno status e un punto di riferimento a livello regionale. Eppure, la scelta di consolidare la strada intrapresa s’è coronata brillantemente con uno chef come Antonio Zaccardi che, insieme alla fidanzata, Angelica Giannuzzi, responsabile della partita della pasticceria, prima ha affiancato e poi ha sostituito la signora Cicorella.

La militanza pluriennale vicino a un fuoriclasse come Enrico Crippa, in quel di Alba, traspare nitida già dagli amuse bouche, degni di questo nome e significativamente programmatici riguardo il livello di attenzione presente in cucina. L’introduzione prosegue coerente con la qualità della fattura di salse, fondi e cotture in cui note aromatiche, acide o amare accompagnano sempre adeguatamente gli elementi scelti a costruire i piatti. Il tutto, poi, corredato da una profonda conoscenza, e dal suo conseguente utilizzo, di tutto ciò che la ricca terra di Puglia può offrire, a ideale completamento di un progetto che appare, così, compiuto e convincente.

Raffinatezza e concretezza

Nelle belle e spaziose sale del seminario arcivescovile, che da quattro anni rappresentano la nuova sede del ristorante, sarà quindi possibile gustare una cucina con i piedi saldamente ancorati al luogo che la ospita ma con uno spirito che aleggia alto, raffinato, aureo come, ad esempio, nella salsa al tartufo e fagiolini che duella spavaldamente con la cottura delle animelle, in una tenzone che si risolve in un gusto capace di essere al contempo piacevolmente gourmand e irresistibilmente gourmet.

Non è possibile, infine, non menzionare ancora una volta la figura di Antonello Magistà, che riesce a trascendere il ruolo di padrone di casa evocando quello del gentiluomo d’altri tempi, per cui il benessere dei propri ospiti è sacro e il cui perseguimento ne rappresenta ragione e missione di vita.

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L’universalità del dialetto

Molto spesso l’esercizio della critica, in qualsiasi campo, si riduce a una forma di equilibrismo, con la necessità di esprimere un giudizio in maniera per quanto possibile oggettiva, prudente, che consideri in maniera puntuale il suo oggetto di interesse in rapporto ai suoi “simili”, per garantire l’affidabilità della stessa specialmente se sintetizzata in un voto.

Rare volte, però, capita di trovarsi davanti a esemplari davvero unici, di difficile confronto, che generano sorpresa, persino entusiasmo, anche in chi è difficilmente impressionabile. Una visita da Bros’ nell’estate del 2020 rientra in queste occasioni perché qui davvero niente è come altrove; certo, Floriano Pellegrino e Isabella Potì sono estremamente informati su cosa si muove nel mondo della cucina contemporanea, hanno fatto la giusta formazione, sono totalmente inseriti tra le giovani star della gastronomia, non solo italiana. Ma il loro progetto è totalmente originale ed è già oggi pienamente maturo nonostante la giovane età degli chef.

Bros’ è un ristorante di alta cucina profondamente salentino eppure totalmente internazionale, che ha fatto in questo 2020 la scelta di proporre un menù interamente vegetariano nel quale il gusto del territorio trova una sublimazione assoluta, che esprime un amore profondo per le proprie radici e una capacità unica di raccontarle con un linguaggio universale e modernissimo. I due menu proposti si distinguono solo per la lunghezza, sono descritti in leccese o in inglese e sono un succedersi di momenti molto pensati, in cui ogni proposta ha dietro un’idea chiarissima del gusto che si vuole proporre ed è realizzata utilizzando ogni tecnica possibile, da quelle della tradizione a quelle sviluppatesi nei tempi più recenti.

Il menù delle radici

Gli amuse-bouche qui sono effettivamente un’indicazione di quello che troveremo dopo e sono tutto tranne la successione di bocconcini anodini e sempre uguali, pur esteticamente curati, che connotano gran parte dell’alta cucina contemporanea. La sequenza dei piatti parte con note più lievi per poi arrivare a gusti sempre più complessi, dando la sensazione di una successione molto pensata e pienamente appagante, in cui nulla è casuale. La “‘nsalata ‘vanzata” gioca con la memoria degli avanzi più poveri per dare grande prova di tecnica e spingersi su acidità estreme ma padroneggiate con sapienza; lo “spunzale ‘rrustutu, tartufu” è una delizia golosa che sposa il povero e il ricco; la “ricotta scante, finocchietto”, ennesima variazione su un ingrediente essenziale di questo territorio, è una sferzata (unico appunto: ne basterebbe una porzione anche più ridotta, vista l’intensità).

Sulle paste, la combinazione dell’ormai classico “pasta, aju, grassu rancidutu, piparassu maru”, con la “candila, piparussu ‘rrustutu, muddhica” è davvero riuscita, oltre a proporre due dei piatti di pasta più belli a vedersi del panorama nazionale. Dopo altri momenti che vanno dallo straordinario “aju, vaniglia, alghe” al meno riuscito “ciciru lacciu” (mousse di ceci, sedano e riduzione di ceci, l’episodio meno convincente del menu) si arriva a un piatto principale realmente da fondo scala: “carota rossa allu fuecu, noce, fiche”, una straordinaria rapa rossa cotta nella cenere, con salsa alle noci e fico glassato. Degno del miglior Passard, si stampa nella memoria come uno straordinaria combinazione di gusti veicolata in un’immagine di bellezza rara.

Dolci di eccellente livello, come sempre da queste parti, se possibile ancora più riusciti del solito: il “milune di acqua sotto sale, spumone allu casu di capra” è la traduzione di un ricordo (l’anguria lasciata raffreddare nell’acqua di mare che, tagliata, manteneva la nota salata delle goccioline rimaste) e una combinazione totalmente originale di ingredienti (anguria, formaggio di capra, aceto) inusuali in un dessert a qualsiasi livello di ristorazione. Per capire quanto poco di casuale ci sia in un piatto così, vi invitiamo a vedere il video in cui la chef racconta la genesi del piatto e l’impatto gustativo ricercato e ottenuto.

Per evitare fraintendimenti: non stiamo più parlando di un ristorante di grandissima prospettiva, ma di una realtà tra le più importanti dell’intero territorio nazionale, di un pranzo che si colloca tra i migliori dell’anno in termini assoluti e di un’esperienza di divertimento puro, da suggerire con vigore a tutti gli appassionati.

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Due freschi vini per l’estate 2020

Puglia Primitivo “Inprint” IGT 2017 – Mark Shannon

Questa è la storia di Mark Shannon, californiano di origine ed Elvezia Sbalchiero, friulana. Si conobbero a fine anni novanta in Sicilia per poi ritrovarsi tempo dopo in Puglia, complice la folgorazione di Mark per il primitivo – considerato il padre dello Zinfandel, vitigno tanto famoso e diffuso in Californiae – e le sue viti ad alberello.

Mark Shannon, con metodi contemporanei ma con attenzione alla natura e ai ritmi della stessa, produce vini intensi ma dalla bevibilità eccelsa, come questo Imprint. Ricavato da uve appassite 100% Primitivo, prevede una vinificazione con vendemmia tardiva e appassimento in fruttaio. Successivamente il vino riposa in vasche di cemento per 6 mesi e per ulteriori 6 mesi in bottiglia. Il risultato? Decisamente inaspettato, forse anche grazie alla macerazione carbonica.

Di colore rosso porpora con riflessi violacei, al naso di esprime intenso con profumo di frutti rossi, more, lamponi e mirtilli per chiudere con un finale lievemente speziato, ricorda quasi un Beaujolais. Di grado importante, ma non percepibile e fastidioso, conferma in bocca tutti gli aromi e i sentori riscontrati al naso. Un vino che è facilissimo finire, senza dubbio alcuno. Si consiglia in abbinamento a piatti di carne importanti e ricchi; se degustato sotto i 14 gradi, esprime tutto il suo potenziale di bevibilità, freschezza e balsamicità.

Prezzo online Officina del vino: 9,90 euro

Colli Aprutini “Centovie” IGT Rosato 2019 – Umani Ronchi

La moda dei rosati non accenna ad arrestarsi e anche l’azienda Umani Ronchi propone il suo rosè ottenuto da uve Montepulciano. Un vino lavorato secondo i dettami del regime biologico che aiuta ad estrarre ancor più incisivamente la freschezza, leggerezza e la bevibilità, delle uve Montepulciano.

Il vigneto è impiantato su un terreno franco argilloso, a tratti sabbioso con buona presenza di scheletro, ha una esposizione a sud/est e si trova a circa 200 metri sul livello del mare. La vinificazione di sole uve Montepulciano viene effettuata delicatamente in pressa per ottenere una breve macerazione a bassa temperatura seguita da una pressatura soffice, al fine di esaltarne gli aromi e non estrarre troppo colore. Successivamente il mosto viene fatto fermentare in serbatoi di acciaio a temperatura controllata. Prosegue l’affinamento in vasche di acciaio per circa 3‐4 mesi prima dell’imbottigliamento.

Dal colore rosa intenso con riflessi aranciati, al naso regala sentori freschi di rosa, ciliegia matura ed una leggera nota agrumata. Al gusto è fresco e di piacevole beva. Si consiglia in abbinamento ad un pesce alla griglia ad una catalana di crostacei. Il risultato è ottimo, anche considerando il prezzo di accesso.

Prezzo online Negozio del vino : 8,70 euro

Marche e Puglia

Verdicchio Castelli di Jesi DOC Classico Romita 2018_Podere Santa Lucia

Podere Santa Lucia si trova nelle Marche, più precisamente a Monte San Vito in provincia di Ancona. L’Azienda nasce nel 2005 come una piccola realtà a conduzione famigliare, condotta secondo i dettami della viticoltura biologica e il rispetto intrinseco della natura. Dal giugno del 2018 sono certificati ufficialmente Bio.

Un animo genuino e artigianale accompagna il lavoro in vigna, basato principalmente sul rispetto per l’ambiente e per le persone che ci lavorano. Una sintesi di equilibrio fra la natura e i suoi elementi. Le Marche sono terra di mare, di monti e di tradizioni, per questo Podere Santa Lucia concentra le sue forze nella produzione di due vini simbolo del territorio: Verdicchio e Lacrima di Morro d’Alba, antichi vitigni reperibili solo in questa regione.

Il Verdicchio, così chiamato per i suoi riflessi verdolini, è il vino marchigiano per eccellenza. Le uve di questa etichetta firmata Podere Santa Lucia provengono dal vigneto di Montecarotto (An) a 450 m slm.

Dal colore giallo paglierino scarico con riflessi verdolini; al naso presenta un bouquet di frutta e note verdi. Mela verde, ginestra, biancospino e salvia per un finale leggermente dolce delineato da note di acacia che ben si integrano con quelle più erbacee. Il gusto è sapido e abbastanza acido, una buona persistenza e un retrogusto amaricante. La  freschezza salina del primo sorso, percettibile all’inizio del palato, pulisce la bocca e si rende adatta ad accompagnare anche portate con tendenza grassa. Si consiglia l’abbinamento con piatti a base di pesce o tipici della cucina marchigiana come vincisgrassi e cannelloni.

Il marchio del Podere è ispirato alla Pala di Santa Lucia (Lorenzo Lotto 1532, Palazzo Pianetti – Jesi)

Prezzo vendita online e-commerce Winedoor: 7.60 euro

Primitivo Quota 29 IGT Salento 2018_Menhir Salento

L’azienda Menhir Salento, fondata nel 2002 dalla famiglia Marangelli, nasce da un’idea ben precisa dei fratelli Gaetano e Vito. Menhir Salento è situata a Minervino di Lecce, un cittadina nascosta tra i due comuni Maglie e Otranto, e viene oggi portata avanti con una mission: interpretare il territorio in tutte le sue sfumature. Grazie alla collaborazione di Miriam Daniele – Brand Ambassador “che ha il Salento nel cuore” – e ad amici e parenti, la famiglia Marangelli è riuscita negli anni ha ricreare la propria idea di mediterraneità.

Un areale ricco da un punto di vista naturalistico e non solo. Un luogo circondato da reperti archeologici dolmen e mehnir per un paesaggio composto da vigne ad alberello, antiche masserie e frantoi ipogei.

In etichetta, il nome del vino riporta esattamente l’altitudine della vigna da cui provengono le uve di questo primitivo: “29 m sul livello del mare”. Un 2018 scalpitante per un vitigno che si esprime bene anche con il passare del tempo – si denota, qui, la gioventù affiancata da una prima evoluzione.

Dal colore rubino con riflessi porpora, si presenta al naso abbastanza intenso e vinoso. Esprime nettamente note di frutta rossa come amarena, ciliegia e prugna, unite a note di fieno e pepe nero. Al palato è morbido e avvolgente, definito da una trama tannica che si amalgama armonicamente. Un finale con note di liquirizia e mandorla.

Si consiglia in abbinamento con grigliate di carne o con formaggi stagionati.

Prezzo vendita online e-commerce Winedoor: 6.90 euro

 

La Puglia, al centro di una proposta familiare

Nella concezione classica la “quintessenza” era sinonimo di “etere”, ovvero il quinto elemento immateriale che, unito a fuoco, acqua, terra e aria, costituiva il reale.
Nell’approcciarci all’omonimo ristorante di Trani gestito dai fratelli Di Gennaro, ci siamo chiesti dove tale elemento potesse essere trovato. La risposta ci è giunta a fine pasto, respirando la profonda armonia che il servizio, l’ambiente e le portate ci hanno profuso.

Impossibile, infatti, non cogliere l’amore e il rispetto che la famiglia Di Gennaro nutre nei confronti della Puglia. Ogni elemento concorre ad omaggiare una terra feconda ed indimenticabile, dalla tradizione culinaria solida e riconoscibile, qui riproposta in chiave moderna.
La storia di questa ottima tavola inizia nel 2011 e prosegue fino al 2016, anno dell’assegnazione della prima stella Michelin, a tutt’oggi mantenuta.

I fratelli Di Gennaro si dividono i ruoli in ogni parte del locale, e non potrebbero lavorare con più puntualità: Stefano gestisce la cucina con mano sicura e con un occhio teso alla valorizzazione del territorio, sia nelle componenti ittiche sia in quelle vegetali. Saverio cura la mescita dei vini con la giusta dose di professionalità e levità, mantenendo alta l’attenzione sulle etichette locali. Domenico coordina il servizio in sala, rendendo partecipe l’ospite dell’esperienza con garbate spiegazioni e delucidazioni sui piatti serviti. Infine Alessandro affianca in cucina il fratello Stefano nella preparazione dei dolci, dimostrando una padronanza di tecnica e immaginazione ben più mature della sua età.

Le performance della brigata si concretizzano in un ambiente estremamente minimale ma non per questo gelido, riflesso di una spoliazione che si fa attenzione all’essenziale.

Tra mare e terra, per un’interpretazione della tradizione

Nella nostra visita abbiamo optato per il menu “Quintessenziale”, una summa della filosofia del locale. L’impronta dello Chef si è palesata tanto nella scelta delle materie prime quanto nella composizione delle portate: a farla da padrone vi è infatti un elemento ittico al quale è stato affiancato un comprimario vegetale, con in chiusura un terzo interprete cremoso o liquido.

Se Pesce spada al salmoriglio, yogurt, piselli ha evidenziato uno sbilanciamento gustativo della parte vegetale che ha sminuito la centralità dell’elemento ittico, senza che nemmeno l’acidità dello yogurt o la sapidità della cialda di riso al nero di seppia riuscissero a fornire un cambio di rotta alla prepotenza dei piselli, è pur vero che in due occasioni siamo rimasti molto stupiti dalle soluzioni proposte. La prima è stata Eliche, sarago al lime, zucchine novelle, cipolla bruciata, in cui l’appagante pulizia finale è risultata il degno traguardo del bilanciamento tra la freschezza del sarago, la dolcezza delle zucchine e le note leggermente balsamiche delle chips di zucchine alla menta, trovando inoltre in chiusura la lieve amarezza della cipolla bruciata a completare la gamma gustativa.

La seconda si è manifestata con Polpo, pomodori e fagiolini, in cui il gioco di consistenze tra la squisita morbidezza del polpo e la croccantezza della cialda di alghe e farina di riso si sono perfettamente abbracciate, completando il connubio palatale nell’accennata acidità del pomodoro e nelle sfumature erbacee dei fagiolini. Il piatto migliore del servizio.

Un grande dolce ha chiuso le danze come meglio non si poteva: Colazione del Contadino: biscotto all’olio, gelato di ricotta, salsa di frutta, è infatti come nobilitazione della colazione dei contadini a base di pane e formaggio, qui reinterpretata con il biscotto di di grano arso a fungere da crosta, il pan di spagna a simulare la mollica e il gelato di ricotta ad accordarsi con la crema alla vaniglia, avendo nella marmellata di pesche una marcata acidità finale.

La strada intrapresa dai fratelli Di Gennaro prosegue su una via consolidata e senza intoppi. Corretti i piccoli sbilanciamenti, e con un pizzico di audacia in più, siamo sicuri la proposta potrà donare notevoli sorprese negli anni a venire.

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