Oustau de Baumanière.
Ecco un’altra storia, tutta francese, che affonda le proprie radici nella genetica vocazione, pura e intensa e nella più genuina passione.
Nel dicembre del 1945 Raymond Thuilier, assicuratore prossimo alla cinquantina, decide di abbandonare la professione e dedicarsi al proprio interesse principale: la cucina.
Nipote di albergatori savoiardi e figlio di una ristoratrice (la madre gestiva un buffet in una stazione ferroviaria di provincia) il nostro risponde tardivamente al richiamo del dna e trasforma il proprio hobby in una delle pietre miliari dell’alta ristorazione francese.
Qui all’Oustau, divenuto in breve tempo punto di riferimento regionale, solo per fare un esempio, un giovanissimo Heston Blumenthal rimase folgorato sulla strada di Damasco dell’haute cuisine dopo una visita.
In meno di nove anni, nel 1954, L’Oustau raggiunge il massimo riconoscimento transalpino, le tre stelle, che deterrà fino al 1990 tre anni prima della morte del fondatore.
Le date e, più in generale, l’inquadramento storico non sono pedanti note fini a se stesse, piuttosto dettagli importanti per capire come i francesi creino e costruiscano nel tempo i loro monumenti gastronomici.
In un luogo del genere sono concentrati più di cento anni di esperienze, cui lo stesso Thuilier fa espresso riferimento quando, parlando dell’apertura del ristorante, afferma che essa è stata un passo logico e naturale.
Nel 1970 si è aggiunto il nipote Jean Andrè Charial, tutt’ora al comando della struttura, che ha diversificato l’offerta con investimenti in altre risorse alberghiere limitrofe, come La Cabre d’or, o poco distanti, e nella produzione di olii e vini.
Dal 2005 responsabile della cucina è Sylvestre Wahid, giovane pakistano arrivato in Francia col sacro fuoco dell’alta gastronomia.
Con un passato così denso alle spalle e così marcatamente radicato nel territorio, lo stile non può che essere classico, anche se la matrice provenzale delle pietanze si giova di nuances speziate e fruttate che ne vivacizzano piacevolmente la già notevole validità.
Una full immersion nella Provenza più profonda è così possibile e didatticamente raccomandabile a questa tavola.
Chiunque voglia avere un’introduzione gastronomica alla regione non può non passare da queste parti e godere di fondamentali impeccabilmente eseguiti, come una spigola cotta alla perfezione accompagnata dalla sua salsa al vin Jeaune di impressionante incisività o ancora il piccione il cui salmì alla lavanda e miele conferisce una golosità d’altri tempi.
Golosità ripresa nel magnifico soufflèe all’arancia e Grand Marnier che chiude brillantemente un pasto in questo silenzioso Relais immerso nel verde di una vallata alle pendici di Baux de Provence.
Non si può non fare un doveroso riferimento all’immane cantina ricca di ben 60.000 bottiglie che coprono un intervallo di tempo a cavallo di tre secoli in un vero e proprio tesoro nazionale, frutto di un certosino e paziente lavoro che rende la possibilità di bere all’Oustau un autentico viaggio nel viaggio.
Mise en place
Madeleine, olive nere e pesto, panna cotta di capra e peperoni, cannolo al foie.
Pane squisito.
Olio, da queste parti assai popolare.
Molto buono il foie d’anatra con variazione di pesca speziata.
Veloutè di astice, gnocchi in gelatina di barbabietola, tartufo nero. Eccellente la bisque.
Spigola, girolle, gamberi della Camargue, divina salsa al vin Jeaune.
Piccione con patata arrosto e interiora, filetto con “marmellata” di olive, salmì alla lavanda, miele, olive.
Predessert saggiamente molto fresco: crema alla vaniglia, mandorle, kiwi, mango e sorbetto al mango.
Magnifica crèpe che racchiude un soufflée all’arancia e Grand Marnièr d’altissima scuola. La quintessenza della Francia in un dolce che è un dichiarato omaggio a Monsieur Thuilier.
Fresca variazione di albicocca con mango, meringa e cioccolato bianco.
Petit Fours
Dal carrello killer dei frutti caramellati…
…mandorle e fichi
Uno chenin blanc di gran valore
Particolare della sala.
L’Oustau.
Esterno.
L’Oustau dans le vallon…
Il parco del Luberon, alle spalle della fascia costiera provenzale, è una delle mete turistiche più conosciute in Francia e non solo.
La bellezza dei piccoli e deliziosi paesini che ne costellano i rilievi montuosi, poco più che colline, ognuno con la sua storia, vere e proprie enclave separate dal mondo con pochi e sparuti turisti, offre la possibilità di una salutare e balsamica pausa in una dimensione diversa.
In una di queste salvifiche piccole oasi urbane, Bonnieux, posta in un territorio che è un irresistibile mix fra il mare e la montagna rappresentata dalle vicine alpi, opera da diversi anni, nella Bastide arroccata sulla sommità del paese, Eduard Loubet.
Lo chef, già giovanile speranza sciistica transalpina, nasce infatti in Val-Thorens, savoiarda stazione di sport invernali, acquisisce subito dimestichezza con l’alta cucina di matrice alberghiera grazie al prestigioso hotel di famiglia, il Fitz Roy.
Successivamente affina il suo talento e la sua passione prima da Alain Chapel a Mionnay e poi dal cappello più famoso di Francia, Marc Veyrat.
Soprattutto l’imprinting di quest’ultimo sembra riconoscibile nella sua cucina, dall’elemento vegetale con tutto il suo spettro di sensazioni, dal tannico all’acido, al dolciastro e all’amaro, tutto apporta una connotazione che ne caratterizza profondamente lo stile rendendo ogni portata, di volta in volta, una piccola scoperta capace di far passare persino l’ineccepibile maestria delle esecuzioni in sé come qualcosa di scontato o di complementare.
Già l’aperitivo, servito sulla bella terrazza della Bastide, è sintonizzato sulla meticolosa attenzione a tutte le opportunità che può offrire l’adeguata conoscenza di verdure ed erbe spontanee.
Il coerente prosieguo a questa brillante introduzione sono gli intingoli che guarniscono i piatti che vengono serviti nel giardino interno dove ha luogo la cena.
Il saperli utilizzare in modo appropriato a ogni ingrediente principale attraverso sfumature, consistenze, temperature, capaci di esaltarlo, ogni volta in maniera differente, fin quasi a rubarne la scena, è l’essenziale attributo di questo bravissimo chef.
Così, ad esempio, una splendida salsa fredda al levistico esalta il cuore di girasole sottolineandone, accompagnandola, la mineralità e armonizzando il tutto in un contrasto caldo-freddo equilibratissimo; l’altrettanto calibrata nota acida del pompelmo dell’astice viene completata dalla magnifica bisque alla maggiorana che la rifinisce o, ancora, la ferrosità del fegato di vitello anestetizzata da una funzionale e riuscita salsa di barbabietola e origano.
Più in generale qui ogni pietanza provata nel degustazione grande, “Hommage à Yvon”, è fondata sull’affascinante ambiguità che lascia amabilmente indeterminato il dubbio su chi fa da corollario a cosa.
La durata del pasto trascorre piacevolmente dall’inizio alla fine rappresentata dagli impeccabili dolci di alta scuola che concludono degnamente un’esperienza funestata solo dalla considerevole umidità progressivamente calata che ha costretto il solerte servizio a dotare la quasi totalità degli astanti di plaid confortevoli quanto la cucina provata.
Romantica mise en place
Piccolo aperitivo caratterizzato dal tartufo. Sia nello champagne che nella dignitosa pizza. Squisiti grissini a la viande des Grisons (carne di manzo essiccata e aromatizzata).
Cromesqui d’agnello e mostarda di rucola, crema di patate con mousse alla maggiorana.
Piccola e deliziosa cornucopia all’anchoiade (salsa di verdure e capperi con verdure di stagione).
Burro affumicato eccellente e pericoloso: ci vuole “professionalità” per astenersene…
Pane altrettanto squisito (come sopra).
Ragout di lumache con emulsione alle erbe. Emulsione che è un vero e proprio biglietto da visita.
Da qui le foto non rendono giustizia ai piatti … cala il buio ma non la qualità …
Tartufo in crosta su coulis di mais alla melissa, pop corn e girolles. Seconda prova di livello sulle salse.
Cuore di girasole, tartufo, radicchio bianco, girolles in vinaigrette, gazpacho al levistico. Eccellente piatto in cui il minerale trova giusta accoppiata con il tartufo, anche qui splendida la salsa al levistico.
Fegato di vitello, salsa di barbabietola e origano e piccola insalata di tetragonia e acetosa.
Golose coscette di rana, emulsione di patate, erbe di campo.
Astice agli agrumi, bisque alla maggiorana. Ennesima prova nella preparazione delle salse oltre che delle cotture. La nota acida, legata principalmente al pompelmo e quella fresca, legata alla maggiorana, completano un piatto di alta scuola.
San Pietro, salsa alla mostarda ed elicriso, aglio dolce.
Intermezzo defaticante con infuso fresco di foglie di Achillea.
Filetto di maiale, salsa al rabarbaro e ruta.
Insalata in accompagnamento con loprioresche variazioni di note amare. Eccellente.
Variazione alla lavanda. Concentrazione sublime…
Fragole con olio extravergine e aceto balsamico, gran mousse al gusto di opèra e pistacchio. Di nuovo salsa dalla concentrazione sorprendente.
Soufflèe al cedro del Luberon, crema ai chiodi di garofano, nocciole.
Petit Fours.
Un gran bel vino.
Angolo del giardino della Bastide
Bonnieux…
Al netto di doverose considerazioni riguardo al costo che comporta un’esperienza del genere non si può non valutare la “Vague d’or”, ristorante del Rèsidence de La Pinède, e il suo grande chef Arnaud Donckele, per quello che sono: una di quelle mete da raggiungere, possibilmente, almeno una volta nella vita con il fine di regalarsi emozioni indimenticabili.
Tutto, dal servizio di sala condotto da Thierry Di Tullio (probabilmente uno dei migliori al mondo), alla location au bord de mer, alla cucina, trova nella classe, nell’eleganza e nella finezza il minimo comune denominatore.
Soprattutto in cucina, poi, ed è ciò che a noi più preme, tutto è giocato in punta di fioretto.
Il percorso di crescita dello chef è stato oltremodo istruttivo e significativo.
Donckele infatti nasce, figlio di un pizzicagnolo, a Rouen in Normandia e passa anni da Michel Guerard, al Louis XV di Ducasse e Cerutti a Monaco e da Nomicos al tempo del Lasserre a Parigi, prima di trasferirsi definitivamente in costa azzurra in una zona di Saint Tropez distaccata dal congestionato e frenetico centro cittadino.
L’excursus professionale è importante per sottolineare ancora una volta, ovemai ce ne fosse bisogno, che anche i cuochi più talentuosi necessitano di solide basi e maestri che le sappiano inculcare.
A questo impianto così valido, dall’imprinting certamente classico, Donckele ha aggiunto una capacità tutta personale di operare con raffinato equilibrio e vivace freschezza, firme indelebili della sua cucina.
Altro pregio non da poco dello chef è l’abilità a coniugare felicemente elementi appartenenti a territori diversi come il Var, in primis, che ospita Saint Tropez, e in senso più ampio la Provenza e il Mediterraneo, operando un mirabile blend fra ingredienti e influssi differenti.
La perfetta sintesi di tutti questi componenti è la sua cucina, forse non clamorosamente azzardata, senz’altro, però, espressione di una levità e di un gusto straordinari.
Nel menù provato nulla è men che soddisfacente e curatissimo nei particolari: basti pensare a una variazione di pomodori che accompagna la leccia, tutti di diversa e adeguata acidità o alla “semplice” oliva ricostruita con acciuga affumicata e nappata da una gelatina al nero di seppia o, ancora, alle verdure selezionate per il pot au feu, tutte di qualità eccellente.
Se poi si va sui fondamentali, qui non ce n’è per nessuno: cotture da manuale, fritture dall’impalpabilità tutta giapponese, salse tirate senza indulgere in eccessiva grassezza, nuance dosate col bilancino definiscono un quadro di livello assoluto.
Persino un passaggio dalla golosità palesemente ostentata e apparentemente fuori contesto come gli ziti al tartufo e foie cela in sedicesimi i principi ispiratori della cucina di Donckele: salse alleggerite ma dal gusto intatto, proporzioni impeccabili, per non parlare della cottura perfettamente al dente del maccherone in un omaggio evidente a Jean-Louis Nomicos ma che chiaramente si riallaccia agli insegnamenti della cuisine minceur di Michel Guèrard.
Il pasto, ambientato in una cornice incantevole, scorre, così, sospeso in una dimensione separata dove gli affanni e le inquietudini appaiono lontani e indefiniti.
Mise en place.
Primo, scenografico, amuse bouche: Marshmallow con arachidi e rosmarino, oliva ricostruita con acciuga affumicata e gelatina al nero di seppia.
Tuile croccante alle alghe e sugo di crostacei.
Tempura di acciughe.
Grande salsa bèarnaise al pomodoro.
Calamaro e polpo in brodo al basilico thai, tartelletta al pomodoro ed erbe.
Selezione degli ottimi pani.
Servizio di burro al timo e olio.
Leccia appena grigliata, avocado e variazione di filetti di pomodoro confit. Grande salsa con bonito essiccato, Lambrusco ed erbe.
Scampo arrostito, verdure crude, dressing di carapace alla maggiorana e pomodoro, gocce di limone…
…gazpacho con le chele…
….ed eterea tempura
Particolare.
Ziti ripieni di tartufo estivo e foie gras, carciofi, nuvola di basilico, leggero pesto, salsa al tartufo. Momento massimamente goloso. Omaggio a Jean Louis Nomicos.
Branzino cotto in alghe, spinaci, caviale, nappata con squisita salsa di abalone.
La guancia con caviale, salicornia, polpa di granchio e nuvola di vervena.
Sorbetto al finocchio su granita di limone e timo con assenzio.
Faraona e aragosta servite con un pot au feu di verdure e un infuso squisito, in stile tè, dei due protagonisti con erbe. La foglia di spinaci cela, in un boccone da re, le interiora della faraona.
Convincente mix dessert formaggio:
Brousse du Rove, formaggio di capra, Yogurth marsigliese di Les Caillols, pera al vino, miele allo zafferano di La Mole (località alle porte di Saint Tropez).
Albicocca e mela verde…
…in solido con infuso di combava…
…e in forma di eccellente soufflé.
Petit fours con, in evidenza, una notevolissima tarte tropèzienne seguita da kumquat e arancia e tartelletta di cioccolato e vaniglia.
Deliziosa mousse di aloe vera e pompelmo a chiudere.
Gran Chenin bianco in purezza, ricco di personalità scelto da una carta dei vini che non brilla causa ricarichi proibitivi (a tratti folli) e con poca personalità sul versante Borgogna e Bordeaux.
Blanc & jaune….
Tramonto di lusso sul lusso….
Vague d’Or reloaded – Roberto Bentivegna
Siamo ripassati in questa oasi alle porte di Saint Tropez in un fine settembre di avvolgente tepore, quasi a farsi beffe di una estate 2014 che non ricorderemo certamente per il sole.
Una cena alla carta questa volta, per approfondire ancora meglio la conoscenza di questo trentaseienne della nuova cucina francese.
Il giudizio è stato solo confermato.
Incredibile il servizio guidato da Thierry Di Tullio, che sfidando ogni conformismo ha voluto con sé una squadra quasi tutta al femminile: uno dei migliori servizi di sala di tutto il panorama europeo.
Stupefacente il team di cucina, con il pastry chef Guillaume Gaudin su tutti, da sempre al fianco dello chef Donckele, pasticcere di cui si sentirà molto parlare in futuro: la sua millefoglie ai dieci agrumi è un vero capolavoro.
E poi la grande cucina di Arnauld Donckele, capace di dare una nuova lettura della cucina classica francese, rivestendola di freschezza e rendendola attuale con una semplicità disarmante.
Mediterraneo da scoprire e gustare in tutte le sue sfumature.
Piatti complessi, completi, volutamente lontani dal minimalismo imperante. Forse non sempre ancora completamente a segno, ma abbiamo chiaramente visto in lui le caratteristiche del fuoriclasse.
Nel segno della assoluta eccellenza.
Una eccellenza che non va ricercata negli abbinamenti inconsueti o nei contrasti sorprendenti, ma nella perfezione dei singoli dettagli, tale da rendere tutta l’opera memorabile.
Gamberoni del Mediterraneo
Sottile fette marinate nel cedro Mano di Buddha, corallo ghiacciato.
Medaglioni e ravioli vegetali in un brodo fatto con le teste e olive
La coda leggermente scottata in un carpaccio multicolore di pomodori
Giardino d’estate e scampi alla maggiorana
Scampi arrostiti, vegetali croccanti al cedro
Tempura
Salsa choron con buccia di limone e corallo
Pasta Zitone accompagnata da una supreme di pollo
Primo servizio: cotto lentamente nella sua vescica
Secondo servizio: cosce, ali, boccone del prete e punta di petto in un brodo infuso come un the.
Agnello in due servizi
Primo servizio: barone di agnello al timo selvatico, jus all’olio di argan, melanzane siciliane con pomodoro e marmellata di cipolle
Secondo servizio: piede, trippe, spalla, animella e rognone
Millefoglie di 10 agrumi leggermente mentolata
Cioccolato nero e lamponi del Var, alcuni al naturale e altri marinate nel cedro Mano di Budda.
Recensione ristorante.
Passando per vacanze dalla Provenza, si fa fatica a resistere alla tentazione di andare da Jean-Luc Rabanel.
Dove si trova un 2 stelle che proponga un menu a 45 euro, preparato poi da un cuoco che è un ottimo comunicatore, con quella faccia da moschettiere che si ritrova?
Recensione ristorante.
Il Palma di Alassio si avvia a completare il primo secolo di vita.
Un lungo percorso dove il ricambio naturale delle persone e l’evoluzione delle loro idee non si è mai fermato. La generazione al timone dell’istituzione Alassina , rappresentata oggi da Massimo Viglietti e Signora, ha da tempo abbandonato la linea di cucina che tanti riconoscimenti ottenne nel corso dei passati decenni. Oggi, in questo locale , piaccia o no, è possibile nutrirsi solo di idee anticonformiste trasformate in composizioni edibili solleticanti o spiazzanti.
Non per bizzarria fine a se stessa, quanto per esprimere un concetto cerebrale che si stacchi da ogni conformismo, che esca da ogni tracciato confortevole, da ogni percorso collaudato e funzionale pressoché in ogni altro locale ligure.