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Ambaradan

Tanta qualità e un pizzico di originalità nel cuore di Milano

Ambaradan è un locale nato a Milano qualche anno fa in zona Sempione, e insediatosi in breve tempo ai vertici delle pizzerie meneghine. Il merito va attribuito in primis alla qualità della proposta, che a un impasto ottimo e digeribile affianca una buona selezione di materie prime.

A tutto ciò si aggiunge un servizio spigliato, attento e una simpatica politica in termini di prezzo. È infatti il cliente a scegliere il prezzo del conto, in base al gradimento dell’esperienza stessa: tutte le pietanze e le bevande hanno, infatti, un range di prezzo a seconda della valutazione che vi si attribuisce (ottimo, buono, insufficiente). A fine cena, si concorda un giudizio, unico per tutto il tavolo, e l’eventuale “extra” spesa viene girata al personale di sala.

Ottima pizza napoletana 

Il menù è limitato a una dozzina di tipologie di pizze, sia a base bianca che rossa; lo stile è napoletano con un alto e soffice cornicione; l’impasto leggero e digeribile.

Molto interessante la Taggiasca, una base rossa con olive e acciughe, che si è rivelata ben bilanciata e non troppo saporita. Ottima la salsa di pomodoro, utilizzata volutamente poco cotta e non eccessivamente dolce. Anche la variante con nduja e cipolla rossa ha colpito per intensità e armonia degli ingredienti. Buone poi le pizze bianche, come quella con stracciatella e un dolcissimo prosciutto crudo San Daniele. La vegetariana, invece, è parsa un po’ monocorde.

Tra le proposte c’è anche la pizza fritta, perfettamente eseguita sia nella cottura – il fritto è asciutto e croccante – che nel ripieno, ben dosato e filante al punto giusto.

Per concludere, c’è qualche classico dolce come il cannolo siciliano riempito al momento. Il servizio è informale e sempre pronto a farsi perdonare le piccole sbavature.

Va infine sottolineato che nonostante l’elevata qualità degli ingredienti utilizzati, i costi delle pizze restano in media contenuti, anche considerando la media della piazza milanese e, in particolare, i locali di maggior tendenza.

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A Scicli una pizzeria che non ha eguali nel raggio di molti km

Siamo a Scicli, patrimonio dell’umanità secondo l’Unesco e cittadina barocca che rappresenta uno dei tanti punti di riferimento in una zona, la Sicilia sud-orientale, nota a molti come l’Ibleide, uno degli angoli più incantevoli ed affascinanti dell’Isola. E proprio qui ha dimora il locale di due giovani fratelli che stanno cercando di proporre una pizza di qualità con ricerca sugli impasti e sui condimenti, mai banali e sempre ricercati.

Il lavoro è ancora tanto lungo, la strada lievemente in salita, ma ciò che fa ben sperare è l’impegno e l’umiltà di questi ragazzi, davvero capaci e volonterosi. Le nostre patate di entrata scontavano una cottura troppo anticipata nel tempo e una non rigenerazione perfetta, che rendeva lievemente acidula e molle la preparazione. Le pizze, il fulcro di questo luogo, ci sono sembrate invece ottime e ben variegate. Forse l’unico appunto che ci sentiamo di muovere è relativo ai condimenti. Denotano l’ardore e la spinta di un giovane talento, lievemente fuori controllo, che tende ad esagerare, a voler strafare. Le capacità ci sono, le basi della pizza sono realizzate con un’ottima materia prima che le rende leggere, fragranti e digeribili. Andrebbe dunque forse dato maggior spazio a queste, talvolta appesantite da un eccesso di condimento… del resto siamo pur sempre in terra barocca, perdinci!

A parte questo piccolo appunto, ricordatevi di Scicli e della sua Pinsere, perché ne sentiremo parlare a lungo, tanto più che bisogna fare molti, moltissimi km prima di trovare una pizza all’altezza di questa nei paraggi.

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Il Sannio a testa alta

Alessio di Muccio è un giovane pizzaiolo che sta portando avanti, con dedizione e tanti sacrifici, il suo progetto di qualità in una terra difficile e ostile.

Perché qui, se vuoi sopravvivere con la clientela locale – e tutti devono confrontarsi con questo aspetto, a maggior ragione, oggi – non puoi permetterti troppi voli pindarici. Prezzi bassi – la marinara 4 euro – e compromessi continui. Eppure Alessio non rinuncia al suo sogno e sforna, nella country house di famiglia, ogni giorno prelibatezze che promettono decisamente bene. E la stessa nostra marinara è risultata pressoché perfetta, per gusto punto di cottura e lievitazione, così come la siciliana e la scapece, che l’hanno seguita.

Tutte digeribilissime, frutto di una lavorazione e di una cottura impeccabili. Forse l’unico appunto che possiamo muovere, ma che comprendiamo viste le latitudini, è un eccesso lieve di sapidità sui fritti iniziali. Ma il resto si assesta su un livello semplicemente ottimo e a buon mercato, a prezzi che non è possibile immaginare inferiori nonostante qualcuno abbia avuto da rimproverargli questo, nonché le velleità di fare innovazione. Ebbene, noi questo luogo lo premiamo a modo nostro: con una valutazione non piena ma molto vicina a quello che questa pizzeria potrà essere, se gli verrà data la fiducia che merita.

Così, se transitate in Campania venendo o tornando dal nord Italia (siete a meno di 30km dall’uscita autostradale di Caianello sulla A1, nei pressi di Caserta), non dimenticate di fare tappa da Alessio tenendo anche conto della disponibilità di due deliziose camere matrimoniali.

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…il viaggio continua…

Riprendiamo il nostro pellegrinaggio goloso alla ricerca delle mille tentazioni e storie che possono offrire i cibi di strada lungo la Penisola.

Napoli

Luca Iaccarino ha giustamente sottolineato, in un suo bel volume dedicato a queste intriganti tematiche che, a Napoli, il cibo e la strada coincidono, per una radice storica che ha preso piede nel 1700 quando, per gran parte delle famiglie, in seguito alla notevole espansione demografica, si doveva far di necessità virtù. Non è un caso che alcuni tra i piatti simbolo della cucina italiana, pizza e pasta, siano nati proprio nei quartieri della Città del Vesuvio. “Tutte le strade della Napoli popolare erano una strepitosa osteria“, come ricorda Paolo Monelli nel suo Il Ghiottone errantela venditrice di frittelle le confeziona sotto gli occhi dei passanti e si intrattiene con la venditrice di cozze o dà una voce alla venditrice di limoni in fondo alla piazza“. Testimonial su tutte Sofia Loren che, ne “L’oro di Napoli“, di Vittorio De Sica, arringa i passanti con il suo celebre “scialate, venite a fare merenda e pagate tra otto giorni“. I maccaronari cominciarono a popolare i vicoli verso la fine del ‘600 con delle caldaie dove cuocevano la pasta e, a fianco, ampie scodelle colme di formaggio misto a pepe (il pomodoro sarebbe arrivato più tardi) tanto da colpire Alexandre Dumas il quale, nel suo viaggio in Italia del 1835, annotò con stupore “il mangiatore del volgo si fa forchetta di due dita, solleva i maccheroni mezzo palmo sopra la mano e poi, facendo un lieve momento di girazione a spirale, ve li caccia dentro senza scottarsi“. Una precisione quasi… chirurgica.

Grande classico il brodo di polpo. Un tempo il ricco si mangiava il polpo, il povero si sorbiva il brodo. Poi si è giunti a una via di mezzo e “servito nella tazza stracolma di brodo, il tentacolo (la “ranfetella”) spunta mentre si beve questo elisir di mare” come ha ben descritto Giuseppe Marotta, tanto che “il brodo così ottenuto si sorseggia proprio come fosse un vin brulè; un sugo di mare che sfida il palato per un gusto tutto marino“, parole di Annarita Costagliola cui si aggiunge Matilde Serao che, nel suo “ventre di Napoli”, ricorda come “questo commercio lo fanno le donne nella strada, con un focolaretto e una piccola pignatta“. Tradizione vuole che vada bevuto per strada la notte del 5 gennaio. Infinite comunque sono le mille tentazioni partenopee, tra cui vanno ricordate le frittatine di pasta, un disco un tempo composto con gli avanzi di tagli diversi ripieno di besciamella, piselli, prosciutto cotto e provola fritta nonché un piatto “non per tutti”, posto che Pulcinella si lamentava che lui non lo avesse mai assaggiato in quanto, a casa sua, non avanzava mai pasta. E che dire del cuoppo, un cono di carta paglia che si può trovare in versione di terra (con crocchè di patate, verdure pastellate, fori di zucca) o di pesce (con acciughe, totani, gamberi, baccalà) posto che, a Napoli, con un po’ di fantasia, si riesce a friggere di tutto. E tentatore per giunta se lo stesso Antonio De Curtis in “Totò a Parigi”, per conquistare la bella madame ebbe a dire “Miss, mia cara miss, ‘nu cuoppo io divento per te“. Prima di lasciare la città nel golfo non si può però non citare la mozzarella in carrozza, anche questa frutto della fantasia del riciclo, si dice sorta ai tempi di Federico II quando si prendevano due fette di pane raffermo, bagnate nell’uovo e poi fritte dopo aver avvolto la mozzarella avanzata, con acciuga.

L’Urbe e il centro Italia

Nella Roma papalina incontriamo il supplì, polpette di riso al ragù di carne, dalla forma particolare che fece scrivere, nel 1831, a un sornione Gioacchino Belli nel suo sonetto intitolato “il Papa” (rifacendosi alla forma del copricapo del pontefice, il triregno o tiara): “quel triregno, che poi pare un supplì, vuol dire che lui comanda“. Cambiano i tempi e, con la tecnologia, adesso abbiamo il “supplì al telefono” in quanto, con l’aggiunta della mozzarella, quando la crocchetta viene divisa con le mani, le due metà restano collegate tramite la mozzarella filante, come una cornetta al telefono. Risalendo la costiera adriatica troviamo diversi rimandi alla tradizione della transumanza, di ciò che mangiavano i pastori abruzzesi. Dagli arrosticini (spiedini con piccoli pezzi di carne ovina) alla ventricina, carne tagliata a punta di coltello messa a fermentare con sale, spezie e peperoncino, detta così perchè, un tempo, veniva preparata usando il ventre del maiale come contenitore ed era il cibo che si usava durante i giorni della mietitura, con pezzature anche di setto-otto chili, mentre adesso viene usata la vescica e quindi la confezione è di un chilo circa. Se dici Marche il rimando va alle olive ascolane, una preparazione nata nell’800 grazie ai cuochi delle case nobiliari per gestire il consumo della carne in eccesso e la necessità di ottimizzare anche il raccolto delle preziose olive. Vengono snocciolate, tagliate a spirale, farcite di carne (generalmente manzo, maiale e pollo) impanate e fritte. Tanto buone da stregare perfino Giuseppe Garibaldi che, dopo un suo passaggio ad Ascoli, nel 1849, se le portò in Sardegna per coltivarsele in santa pace. Altra delizia da gustarsi in riva al mare sono le crocette, molluschi da consuarsi “in porchetta”, cotte con pomodoro e finocchietto selvatico. Al contrario della lumachina di mare, che si pesca con lo stecchino, la crocetta si ciuccia, con un rito molto coinvolgente, così descritto dal poeta Eugenio Gioacchnile prendi tra due dita come un fiore/le baci come fosse il primo amore/le ciuci e riciuci con la scorza e le dita”.

Firenze è sinonimo di lampredotto, tema già trattato in altre puntate, ma tutta la regione Toscana è custode di storie e tradizioni, dal tortello alla lastra, cibo di pastori e montanari lungo gli apennini, al curioso “5e5”, tipico di Livorno, un panino farcito con una focaccia di farina di ceci e olio, nato negli anni ’30 del ‘900 quando, all’ambulante di turno, si chiedevano 5 centesimi di pane e 5 di torta. Ora è diventato un vero rito, con tanto di percorso gastronomico per le vie della Città. Anche l’Emilia è un crogiolo di tentazioni che hanno la loro sublimazione nel passeggio della riviera adriatica: dallo gnocco fritto alle tigelle per non parlare delle piadine, ma se ne racconterà con omaggio dedicato.

La Serenissima

Questo viaggio partito da Palermo, dopo lunga navigazione non poteva che approdare a Venezia. Qui regnano indiscussi i “cicheti“, che non sono bicchierini di liquore come nel resto d’Italia, ma variegati stuzzichini (dal latino “ciccus”, piccole quantità) che prendono origine dal crocevia di mercati, tradizioni che ha visto Venezia regina del mare e degli scambi con mondi lontani. Su tutte le sarde in saor (cioè in sapore), che si dice abbiano preso piede nel ‘300 quando, per conservare il pesce, fu ideata questa salsa agrodolce a base di cipolle cotte in padella a fuoco basso con aceto di vino, uvetta e pinoli. La cipolla abbondante serviva ad aggredire e uccidere i batteri, a togliere al pesce il sentore di vecchio. Tradizione consiglia di lasciarle frollare almeno 48 ore. “Cibo di marinai e scorta di terraferma” come ebbe felicemente a descriverle Bepo Maffioli, storico del cibo e della cultura veneta, poichè i marinai usavano consumare molte cipolle per scongiurare lo scorbuto da carenza vitaminica. L’aggiunta di uva passa e pinoli sembra essere retaggio ebraico posto che, a Venezia, storicamernte si è avuto il primo e più importante ghetto della penisola. Ma le sarde in saor sono ampiamente citate dallo stesso Carlo Goldoni nella sua opera “Donne di casa soa” che hanno il loro trionfo alla Festa del Redentore, la terza domenica di luglio poco dopo che la cipolla è venuta a maturare per i primi caldi e i branchi di sarde arrivano sotto costa. Aggirarsi per le calli e i bacari (osterie) veneziani è una vera “scienza” che non si può improvvisare dopo il primo cicheto. Se siete un veneziano vero (o aspirante tale) dovete avere la stoffa per affrontare il “Bacaro Tour”, ovvero aggirarvi in buona (e sempre più gaudente) compagnia per 12 bacari piluccandovi 12 cicheti da “mandar giù” con dodici ombre (calici di vino). Roba che neanche il miglior Ernest Hemingway. Non c’è che l’imbarazzo della scelta. Si va dai “mesi vovi“(mezze uova sode) con l’acciuga ai nervetti “coe segoe” (cipolle), ma anche le capesante gratinate, i folpetti, cotti in guazzetto con olio, pepe, sedano, ma anche i crostini con il baccalà mantecato, la polenta e soppressa o l’inarrivabile “museto“, cotechino che deve obbedire a una regola ferrea: “ch’el peta“, cioè giochi un po’ appiccicoso, tra lingua e palato, prima di prendere la via di degna sepoltura gastrica.

Insomma, che sia Palermo, Napoli, Venezia e le molte altre località che abbiamo solo accennato, l’Italia del cibo di strada è una miniera di tradizioni, colori, sapori, profumi che partono da lontano. Un patrimonio di inestimabile valore aggiunto che dà ulteriore fascino a questo Bel Paese già ricco di arte, paesaggio, storia come nessuno.

* In copertina, un fotogramma de L’Oro di Napoli, Vittorio De Sica (1954).

El pibe de oro della pizza abita a Caserta

Sulla personalità e sul talento di Francesco Martucci, alias el pibe de oro, abbiamo veramente poco da aggiungere. La sua crescita è inarrestabile: dopo aver attrezzato più di 300 metri quadri di cucina con ogni diavoleria conosciuta sull’orbe terracqueo (abbattitori, roner, essicatori, liofilizzatori, estrattori, affumicatori) lui continua a sperimentare; il fine? Costruire un nuovo codice della pizza contemporanea. E lo fa a suo modo, con un suo percorso personale, e con doti davvero rare: perseveranza da un lato, talento istintivo dall’altro e un grande, grandissimo palato che gli fa scoprire equilibri e dosaggi a molti ancora sconosciuti.

La sua versione di marinara, il futuro di marinara, oltre che nella mirabile tripla cottura (al vapore a 100°, fritta a 180° e al forno 400-420°) che conferisce una croccantezza unita a una leggerezza davvero formidabili, è un punto di riferimento per quella salsa di pomodoro concentrata quanto leggera e per gli ingredienti sapientemente dosati: crema di pomodoro arrosto, per la precisione, che ricorda il ragù cotto ore e ore sulla stufa economica; pesto di aglio orsino, capperi di Salina, olive di Caiazzo, alici di Trapani e origano di montagna.

L’innovazione e il gusto nella pizza migliore del mondo

Un tripudio e un’esplosione di sapori e un grande, grandissimo assemblaggio di prodotti. Francesco Martucci cerca il meglio, non solo in Italia, e lo lavora fino a fare della pizza una materia nobile in barba alla sua estrazione popolare. Ma il capolavoro compiuto è proprio questo.

Anche nelle pizze più tradizionali, tipo la Parmiggiana, riesce a imprimere una forza e un sapore che solo i grandi palati riescono a codificare. Quale? In questo caso il ricordo della parmigiana della nonna, quella un filo ossidata ma meravigliosamente golosa. Passando attraverso la 4 pomodori in 4 consistenze, con un lavoro tra asciugature/essicature, concentrazioni e lavorazioni che rende davvero onore al re pomodoro. Finiamo con il capolavoro contemporaneo della Popeye,  spinaci al burro di Normandia, coppa di testa di Simone Fracassi, crema acida di bufala, zest di limone. Un unicum davvero micidiale.

Un talento unico, che non si arresta, e che continua la sua crescita e la sua evoluzione con costanza e tenacità.

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