Della fantastica brigata di cucina, capitanata da Antonio Guida, ma con due assi dei fornelli come Dellomarino braccio destro e Di Lena ai dolci abbiamo già più volte detto. Che però questa fantastica triade sia ora nel pieno, a nostro avviso, della sua espressività stilistica e artistica è tutt’altro che scontato.
Si ha quasi l’impressione che, raggiunto il traguardo ambito, e probabilmente grazie al progetto e alla struttura, Guida e i suoi collaboratori siano più liberi di esprimersi senza pressioni. Il costante fully booked che li affligge non spaventa affatto. Tre professionisti di questo calibro non si fermano certo davanti a queste apparenti difficoltà, tutt’altro. Costruiscono una cucina di costante ricerca della perfezione e di quel neo-classicismo alto-culinario che pochi rincorrono, impegnati a divincolarsi attraverso le maglie strette, ingorgate e spesso dicotomiche dell’avanguardia più estrema.
Apparentemente semplice, direte voi, la strada verso una più lapalissiana classicità. Niente di più falso, la strada in questa direzione è ancora più dura ed ardua, difficile e lastricata di tante difficoltà e tanti paragoni facili, con realtà molto più importanti, anche internazionali. Ma quella lièvre à la royale, ancora più intensa e vibrante dello scorso anno, e quella stupenda triglia sono lì a dimostrare l’esatto contrario.
Tutto ciò è certamente di stimolo e di sprone per una cucina che è sempre più gagnairiana che mai. Molto vicina all’imprinting del maestro francese, se non altro per i concetti espressivi e la commistione e tipologia di ingredienti usati. Impronta sì ma coadiuvata e supportata da forti presenze personali e caratteristiche, che ne fanno ad oggi una tra le cucine più riconoscibili dello stivale.
Contaminazioni presenti della terra di origine dello chef, con ampia ed abbondanza referenza in quasi ogni piatto. Che trasuda da tutti i pori la latitudine di impronta, molto spostata verso il versante sud-orientale dell’Italia. Che è a tratti ben delineata e ne fa una avventura strettamente personale, forgiata sulla costante contaminazione ittica delle componenti animali e viceversa.
Che però rischiano, e questo è solo il piccolo accenno di sottolineatura che ci permettiamo di riportare, di non rendere più chiaro il confine tra estrema personalità nel piatto e deriva di reiterazione stilistica. La presenza quasi costante di una salsa a specchio, senza alcun piatto meno che umido, e la reiterazione di componenti marine nei tratti di ogni piatto (sopratutto mitili, ma non solo) hanno la faccia bifronte di una medaglia che al primo posto porta scritto originalità, ma il rischio dietro l’angolo è comunque presente.
Poniamo l’accento su sfumature, che però tali possono anche non rivelarsi in futuro, perchè da questa brigata e da questa cucina ci aspettiamo, e desideriamo, ancora di più. A scanso di equivoci, ci teniamo a precisarlo, consideriamo questo ristorante una delle massime espressioni, non solo Milanesi ma altresì Italiche, di alta cucina neo-classica.
E a fronte di una squadra in cucina con tre, e dico tre, indiscussi fuoriclasse, peraltro accompagnati da una classe e uno stile davvero rari e invidiabili in questo mondo, abbiamo come degni compagni di viaggio un gruppo giovane di sala agguerrito, preparato, determinato, accogliente e molto ben organizzato. Alberto Tasinato, restaurant manager e Ilario Perrot, Sommelier, imprimono una energia -anche loro da fuoriclasse- alla brigata di sala, a cui ci permettiamo solo di rilevare alcune piccole sbavature e affanni a locale pieno.
Ma la strada di Seta è inesorabilmente tracciata, e noi siamo felici di raccontarvelo e di continuare ad essere spesso presenti durante questo fantastico percorso.
“Il Maestro: conoscitore profondo di una disciplina, che egli possiede integralmente e che può insegnare agli altri nella maniera più proficua” (Enciclopedia Treccani)
Quindi non solo la conosce, ma la possiede, se ne appropria, tanto da poterla manipolare a piacimento e addomesticare per dare forma al proprio pensiero.
Come altro definire Pierre Gagnaire?
Come incasellare la sua cucina, così personale, così fuori dagli schemi, così grandiosa?
Uno stile unico, che segue il solco segnato più di 30 anni fa, rinnovandosi di continuo.
La tavolozza degli ingredienti è il mondo, la mano sicura: il solo utilizzo delle spezie richiederebbe approfondimenti di pagine e pagine.
Una cucina che richiede umiltà, sia da parte del cuciniere, disposto a prendersi i suoi rischi, sia (e soprattutto, diremmo) da parte del cliente che, inevitabilmente spogliato delle sue tante sicurezze, deve accettare con palato vergine, quindi senza preconcetti, di mettersi nella mani del suo intrattenitore.
Qui, come in pochi altri posti, questa condizione d’animo è essenziale per cercare di approfondire una esperienza che altrimenti risulterebbe caotica, a volte sgraziata, spesso confusa.
Il rischio è parte integrante di questa cucina e gli regala spessore e vitalità.
Trovare il giusto equilibrio o, ancora meglio, il giusto ritmo: a questo mira Gagnaire, ma lo fa in un modo assolutamente sconvolgente, procedendo per giustapposizioni e non necessariamente per contrasti.
Perché l’obiettivo primario resta il gusto, l’appagamento del cliente.
Ecco allora che decine di ingredienti nei piatti trovano sempre un filo rosso che li tiene insieme: non si può ragionare solo di eleganza, finezza o estrazioni di sapori, logica che regna sovrana in questi anni 2000 ma che spesso può trovare compimento solo in cucine minimali caratterizzate da quattro, cinque ingredienti al massimo. Gagnaire deve necessariamente fare in modo che i suoi ingredienti sussurrino per evitare il caos, fa pensare quasi a una “intonazione” dell’ingrediente, una registrazione del “timbro” per trovare il giusto suono.
Quindi niente scontri radicali ma stratificazioni leggere che portano a un risultato tanto classico quanto moderno. Sarebbe impossibile definire l’età di questo cuoco solo degustando la sua cucina: un giovinetto con l’esperienza di un 65enne.
Impiattamenti volutamente dal tratto grosso, quasi rustici a volte, certamente istintivi.
Come riescano a gestire una proposta alla carta come questa e un menù degustazione completamente diverso, in una cucina di poco più di 30 metri quadri, rimane un mistero, ma lascia immaginare una disciplina e una precisione del gesto maniacale.
Cucina quindi inclassificabile, che entusiasma con grande facilità: in evoluzione continua, in movimento e mutamento e per questo difficilmente inquadrabile in un voto che, per sua natura, è statico e fotografa un momento.
Troverete una personalità strabordante che, con generosità assoluta, mette tutto sé stesso nei piatti che propone e che modifica di continuo.
Seguito da una squadra che, in sala e cucina, fa i salti mortali.
In particolare, un servizio di sala di livello assoluto: molte delle preparazioni vengono rifinite al tavolo (e non potrebbe essere altrimenti vista appunto l’esigua dimensione della cucina).
Grandi professionisti: dal Direttore Herve Parmentier, al maitre Elimane Kane fino allo Chef sommelier Patrick Borras. Forse un unico appunto va mosso per un locale di questo livello: l’eccessiva “fretta” iniziale nel chiedere le ordinazioni, probabilmente dettata dalle necessità dell’esigua cucina, ma non giustificabili in un locale come questo.
Abbiamo poi avuto il piacere di essere serviti da Gianluca Modafferi, italiano, arrivato a Parigi senza nemmeno conoscere la lingua e ora da 4 anni chez Gagnaire. Una bella storia di un lavoratore serio, nel cui sguardo si vede la passione vera per il proprio lavoro e il desiderio di fare passare una serata unica all’ospite di turno.
Se siete appassionati di questo mondo, se amate davvero i ristoranti, non potete mancare una visita in Rue Balzac 6.
Dal Maestro: Pierre Gagnaire.
La lunga serie di amuse bouche:
Uva ghiacciata ripiena di capperi e salsa di mela.
Tonno e seppia.
Sablè al Parmigiano.
Tapenade, cracker al limone, rapa e ribes.
Nocciola, salsiccia e sfoglia di patata.
Lattuga.
Il pane, perfetto.
E avanti con altri amuse-bouche.
Velllutata di zucca, stilton, mousseline all’olio d’oliva, pompelmo.
Lumache alle ortiche, rutabaga.
Sorbetto al Beaujolais, tamarillo, cavolo.
Caillettes di seppia, txistorra, crema di carciofi, puntarella.
Rouget-Caviar.
Triglia di scoglio bardata di lardo di Colonnata, scottata e poi terminata su un letto di telline all’anice stellato, con brunoise di finocchio ai grani di senape.
Salsa Eriang.
Le preparazioni vengono spesso portate in sala per fare vedere il metodo di cottura e poi sporzionate.
Grasso di petto di maiale laccato, cubi di goyave, polvere d’arancia.
Consommé chiarificato di pesci di scoglio allo champagne, quenelle di caviale osciètre.
Anemoni di mare al nero di seppia, mousse di crauti, cavolfiore al caviale pressato.
Palamos.
Gamberi di Palamos passati qualche istante al forno, seppioline e polpetti all’omiza (schisandra chinensis) e radicchio di Treviso.
Crema ghiacciata di merluzzo al prezzemolo, gelatina al Cava.
Foie gras arrostito, acciughe demi-sel e gernika, tartare di tonno rosso, physalis et tomatillo.
Trippe e kokotchas di merluzzo al tagete, olive nere al peperoncino di Espelette.
Turbot.
Rombo cotto in un burro di vaniglia, citronella e melissa.
Gambero rosso all’ Acquavite di houx, mousseline Ranavalo. (Un’acquavite dal sentore quasi muschiato).
Gratin di cipolle rosse all’ajowan (detta anche erba del vescovo. Si ottiene una spezia dal gusto leggermente amaro e piccante).
Pane bagnato, gelatina di pompelmo al mascarpone, Paris boutons (champignons) aux citrons confits.
Agneau.
Carré di agnello dell’Aveyron all’origano.
Ccrumble Vert : aglio rosa, chorizo, cipollotto.
Animelle, rognone e trippe rivestiti di jus di cottura al vadouvan (mix di spezie), radicchio di Treviso.
Sella in omento, carpaccio di rape rosse, rapa bianca al Roquefort.
Papillons Noirs (pasta di sanguinaccio), datteri medjoul, radicchio di Castelfranco. Condimento Dundee-Peeky.
Veau.
Costoletta di vitello del Limousin profumata alle erbe, curry e carvi (cumino dei prati). Arrostita in casseruola, déglacée al Rhum Angostura.
Indivia, trombette dei morti e mango.
Orecchia croccante, crosne (stachys affininis), bacche di sambuco.
Testa di vitello in un jus all’angostura.
Prugna, scalogno confit, riso nero della piana del Po al caffè.
Il secondo servizio del vitello, con pere e lenticchie.
Piccola pasticceria.
Millefeuille.
Millefoglie croccante, crema all’ Acquavite di houx.
Mandorle e nocciole caramellizate, praline rosa.
Ananas allo zafferano, mousse di frutto della passione al sedano.
Mela reine de reinette confit, coulis di mora.
Cioccolatini finali
I vini scelti dalla ampia carta.
Parigi, VIII arrondissement. Due passi dagli Champs Elysées, altrettanti dall’Arc de Triomphe.
In uno dei quartieri dalla più alta concentrazione di ostentazione al mondo, adiacente ad una struttura alberghiera nemmeno a dirlo a cinque stelle, opera un ristorante che, ormai da svariati anni, di stelle ne porta al petto due di meno. Ed è uno tra i primi indirizzi che salta in mente all’appassionato, non appena si parla di alta cucina francese, un luogo dove si sono formati innumerevoli chef divenuti poi altrettanto bravi e famosi.
In un contesto simile, crogiolati nel bello, circondati dalle numerose e costanti attenzioni del personale e rilassati in un quieto ambiente, non lussuoso ma assolutamente elegante, è possibile che il primo aggettivo che balzi in testa, che l’associazione mentale -praticamente automatica- fatta a posteriori sia… “divertente”?
Ebbene sì, se il luogo in questione porta il nome di Pierre Gagnaire, potete stare certi che sarà così.
Nonostante il già menzionato servizio che, malgrado a questi livelli si possa praticamente dare per scontato, è di tale precisione e discrezione da riuscire comunque a colpire, gli aspetti più stupefacenti di questo luogo (e nello specifico della sua cucina) sono la molteplicità e l’intensità degli stimoli ai quali si è sottoposti. Un vortice che inizia con gli stuzzichini appena seduti al tavolo, e termina soltanto una volta giunti alle strepitose praline, in accompagnamento al caffè.
Impeccabili sfoggi di tecnica, sapienti modulazioni di acido ed amaro, marcati contrasti di temperature, virtuosi piatti-francobollo in luogo di portate faraoniche: raccontata così, chiunque si aspetterebbe di trovare in cucina un ragazzino, un talento emergente, uno chef con un sacco di idee e la fiamma della voglia di stupire ben viva in corpo.
Evidentemente, Gagnaire giovane lo è dentro: nonostante un’età anagrafica dove i più iniziano a godersi la pensione, lui riesce ancora a creare, a divertirsi ma soprattutto a divertire.
La sua è una cucina dallo stile contemporaneo, che fa un uso sottotraccia e mai evidente di tecniche moderne, e nonostante la costante ricerca in collaborazione con l’amico (nonché noto chimico, attivo in campo gastronomico) Hervé This, trova i principali e più evidenti punti di forza nella qualità delle materie e nella concentrazione dei sapori, davvero esemplari.
Inoltre una peculiarità storica (al punto che ha permesso di coniare il termine “gagnairiano”) è il frazionamento della singola portata in vari piatti, che compariranno al tavolo tutti assieme od in vari servizi, a seconda della natura della stessa e delle scelte in cucina.
Questo, malgrado il menù degustazione piccolo (amuse bouche, plat, desserts), comporterà il ritrovarsi travolti da una quantità imbarazzante di piatti e piattini, contenuti nella dimensione ma non certo nel gusto, dei veri e propri piatti compiuti che funzionerebbero anche nelle vesti di portata vera e propria.
Poi un gran piatto d’impostazione più classica, giusto per ricordarti che sì, il talento, la tecnica, l’inventiva, gli ammennicoli… ma i quarant’anni di esperienza ai massimi livelli ci sono, e non vi è alcun motivo di dimenticarli.
Si continua quindi con i superbi dessert, quattro, impostati su quattro stili differenti ma tutti di livello eccelso, a dimostrazione (qualora ancora ce ne fosse bisogno) di una padronanza della cucina davvero a 360°.
Un’esperienza totalmente appagante e di reale divertimento dunque, che trova il suo unico aspetto negativo proprio all’interno di quello positivo: affrontando così tanti stimoli nel corso di un pasto, dato che molti dei piatti arrivano “in gruppo”, si rischia di non dare il giusto peso alle singole creazioni, di restare un po’ tramortiti dalla varietà delle stesse e di non riuscire a metter tutto correttamente a fuoco. E se già ciò accade con il menù piccolo, non osiamo immaginare con quelli più ampi… oltre a correre il serio rischio che anche gli stomaci “a fisarmonica” siano messi a dura prova dalle quantità, a conti fatti davvero ragguardevoli.
Con buona pace di tutti quelli che “…macché ristoranti gourmet, che fuori da lì poi devi farti una pizza!”
Scorcio di sala e mise en place
Picoli stuzzichini iniziali, notevoli grissini, burro.
Biscotto al Parmigiano con crema di Parmigiano, tonno colorato alla barbabietola…
…cialda rapa, limone e crema di olive (nel bicchierino sottostante).
Il vino, scelto dalla brava sommelier.
Cialdine di pane, servite con…
…un illegale burro agli agrumi, dall’intensità pericolosa.
I fantastici pani.
Granita di peperoni verdi, vellutata verde e cannolicchi. Il piatto dei contrasti: caldo/freddo, sapido/erbaceo, gommoso/cremoso: partenza a razzo.
Rillette di leprotto al combawa ricoperta di succo di carote; boccone d’albicocca soffice al lardo di colonnata.
Uova di salmone biologico e cuore di palma fresco, crema al limone e gorgonzola, duxelle di champignon di Parigi.
Un quadro di questa cucina: un turbine di sapidità, acidità, grassezza e terrosità in solido equilibrio, in un boccone da due centimetri quadrati.
Latte di haddock legato con patate, avocado. Altro boccone di grande intensità, compresso in una tazzina da caffé.
Fagioli di Paimpol, gamberetti grigi e cecina; salvia croccante.
Impiattata in sala la portata principale:
Merluzzo giallo cotto sulla sua pelle, mousseline d’olio d’oliva al tandoori, melanzana di Firenze.
Cottura esemplare per il merluzzo, salsa che da sola fa il piatto, in perfetto e strabiliante equilibrio tra morbidezza, gusto e rotondità, completato dal lieve apporto dolce ed astringente della melanzana. Impiatto semplice e non particolarmente ricercato, in realtà una gran portata.
…con a parte, una gustosissima cialda croccante, bagnata con i succhi del merluzzo, e spinaci appena saltati…
…il tutto servito con un’insalata di farro appena calda e verdure brasate, abbondantemente passate nel burro.
I deliziosi predessert, piccoli capolavori di tecnica e gusto.
Parfait al papavero ricoperto di cioccolato dulcey, velouté di latte di cocco, banane e mango.
Primo dessert, dolce e morbido, su note tropicali.
Pasta di mandorla al tè verde Matcha, gelatina al moscato, melograno.
Secondo dolce,l’opposto: amara la mandorla, tannico il matcha, acida la gelatina, acido il melograno. Dessert decisamente spinto.
Crema di limone, tarteletta con cioccolato Cuba, disco di pompelmo, ganache di cioccolato Venezuela.
Terzo (splendido) dessert: modulazioni di dolcezze ed acidità attraverso due varietà di cioccolato, a temperature differenti, che avvolgono le acidità del limone e del pompelmo. Applausi.
Gateau alla mela, mousse di mela verde, uvetta profumata al Rum.
Ultimo dessert, caldo, avvolgente e più ordinario, ma non per questo di minor valore.
Le fantastiche praline.
Dettagli della sala.
Per chi lo gradisse, è possibile richiedere il tavolo dello chef, con vista sulla cucina.