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DaGorini

Vicino alle foreste casentinesi, il talento istintivo di Gianluca Gorini

Si muove lesto tra i tavoli, con movimenti  felini: è l’agilità istintiva dell’animale nel suo habitat naturale. Un habitat identificato due anni orsono quando, con figlio e compagna al seguito, abile donna di sala, Gianluca Gorini s’è insediato in questa dimora nel paese preappenninico di San Piero in Bagno, non lontano da Camaldoli e comunque vicino ai genitori di lei, già titolari di un’azienda agricola e di un allevamento di conigli, in un luogo così defilato che devi andarlo a cercare e dove, comunque, non si arriva mai per caso. 

Eppure, benché si tratti di un lunedì di fine maggio coi connotati di una giornata novembrina, il ristorante è al completo, gremito di voci di adulti festanti e dei giochi dei rispettivi bambini: sembra quasi di essere a casa, o comunque in famiglia, con la differenza che dietro ai fornelli si muove uno dei talenti e dei palati più brillanti, e più istintivi, del presente momento storico.

Un talento tale che verrebbe da immaginarselo chiuso in una sorta di autismo compiaciuto e che invece sa essere anche narciso perché conscio, crediamo, della sua missione, che altro non è se non quella di appagare rispondendo all’imperativo più puro e più tacito della cucina tutta, quello edonistico, tanto che pure i meno edotti si possano sentire legittimati a dire, dopo ogni piatto, semplicemente “che buono!“.

Una cucina ispirata, impeccabile e accessibile

Forse il migliore mai assaggiato, è il Coniglio alla diavola con maionese, erbe di campo e fave: un piatto dove le verdure hanno la medesima dignità della carne – leitmotiv, questo, di tutta la cucina goriniana – che è quasi porchettata nel jus della sua marinatura e ormai caramellata da una cottura che è parte stessa del repertorio degli ingredienti e che, del coniglio, restituisce la proverbiale, tosta asciuttezza irrorata però di umori animali ed essenza boschive. Un piatto, questo, in cui il virtuosismo risiede nel nascondere l’artificio, dissimulare la tecnica sembrando, appunto, semplicissimo.

Approccio simile, encomiastico, verrebbe da dire, per il Carciofo, che è uno studio sulla stratificazione dell’amaro più vegetale, quasi medicinale, del gambo e che traccia un tributo a Paolo Lopriore abbozzando una sensibilità di tipo bucolico che si corona poco dopo nei Pisellini con crema di latte, salicornia e aringa: un piatto povero, quasi agreste – dove lo spigolo sapidissimo dell’aringa viene contrastato dalla lattosità della crema e dalla tenera dolcezza del pisellino appena scottato – semplice ma assoluto come la saggezza del contadino.

Della Spoja lorda si dirà invece del profumo, quasi animale, profondamente ormonale che esalava dal piatto, umorale stratificazione di funghi, tabacco e tartufo nero e che ritroviamo acuito, benché più imbellettato, nella sensazione di pelliccia e fragole dello splendido boccone di Cervo alla liquirizia con fragole e rapa rossa. 

Del Piccione di Gorini, poi, s’è molto scritto: si tratta di un’esecuzione magistrale, evoluzione stessa del concetto di signature dish perché, una volta realizzato, è lui a segnare il suo fautore che non può più prescindervi. Buona parte del merito, oltre alla cottura millimetrica di ciascun taglio che, lo ricordiamo, per Gorini è parte stessa dell’ingredientistica locale (come la griglia romagnola), risiede nell’estratto di alloro e nel suo profumo solenne, quasi di incenso da chiesa; una sensazione estatica che viene presto spazzata via dalla carica, metaforica e letterale, di una capra appena uscita dal bosco, e dall’amaro puro della genziana che investe sensi e palato nello Spaghetto al burro, che la scorzetta di bergamotto proietta in una dimensione di gusto iperuranica, praticamente infinita. 

Golosissimi ma leggermente meno ispirati i dolci, canonicamente dolci e senza particolari virtuosismi, fatta eccezione per la crema di mandorle armelline a chiosa di Fucsia, del cui sapore continuiamo a sentire sia il riverbero che la mancanza. 

La Galleria Fotografica:

Gli enfants terribles della cucina italiana: una generazione di cuochi che non arriva agli “anta” e sta gettando le basi per un futuro davvero roseo della nostra ristorazione

Oliver Piras e Alessandra Del Favero, i fratelli Pellegrino con Isabella Potì, Gianluca Gorini, Antonia Klugmann, Luciano Monosilio, Luca Abbruzzino, Giuseppe Iannotti… e l’elenco potrebbe essere molto, molto più lungo.
E poi c’è lui.
O, meglio, ci sono loro.
I folli veri.

Francesco Brutto, one man show nella cucina dell’Undicesimo Vineria di Treviso. E Regis Ramon Freitas, “brasilo-trevigiano”, tassello fondamentale di quel puzzle che rappresenta la proposta del locale. Non si può più parlare di abbinamento vino-piatto, ma di completamento: ciò che viene servito nel bicchiere è parte integrante del risultato gustativo che la cucina intende raggiungere. A questi livelli, sia di intesa che di conoscenza delle rispettive parti, non ci vengono in mente tanti altri esempi in Italia.
Ma ritorniamo a Brutto: dicevamo, folle vero. Come definireste uno che gestisce fino a 10 tavoli da solo, con l’unico aiuto di un lavapiatti?

C’è un dettaglio che può spiegare il livello di maniacalità nel lavoro di questo giovane cuoco: lo vedrete spesso nel corso del pasto uscire dalla cucina per andare a raccogliere le erbe in giardino. Il “malato vero” è uno così, uno che non ritiene adeguato nemmeno -ma d’altronde, Brutto ha lavorato a lungo in cucina con Piergiorgio Parini, non poteva essere diversamente- raccoglierle la mattina in previsione del servizio, non sarebbero abbastanza fresche…
La figura di Brutto inserisce nel panorama della ristorazione la suggestione per una nuova figura, un professionista a metà tra il barman e il cuoco. L’attenzione alle erbe, ai loro risvolti olfattivi e gustativi, all’abbinamento con i diversi ingredienti, lo pone molto vicino ai grandi barman del pianeta. “Piccione, limone alla china, acqua tonica e sanguisorba” (un piccione al gin tonic!) oppure “Oxalide, lardo, fragola fermentata, stellina odorosa e karkadè bianco” sono preparazioni dove l’aroma degli ingredienti gioca un ruolo primario e il risultato, prima al naso e poi al palato, è inebriante. Dosaggi di precisione millimetrica: in continuo bilico sul filo del plausibile, un passo in là e ci sarebbe il vuoto. O ancora i “Tortellini di tamarindo fermentato, doppia panna e angostura”, completati dal Rosato Massa Vecchia: la rimodellazione di un aperitivo, una preparazione che lancia davvero in avanti le prospettive dell’abbinamento grasso/vegetale/alcool. In questo senso ci si avvicina molto alla figura del mixologist.

Poi entra prepotente il cuoco.
Ad esempio nella perfetta cottura del “Raviolo di frattaglie di rombo, uova di rombo, cervello di vitello, vitello crudo e tagete lucida”, un gioco spericolato nel nome ma non nei fatti, dove l’affinità gustativa tra cervello di vitello e uova di rombo è sorprendente e rende questo piatto gourmand e affilato come mai ti aspetteresti. O nella precisione del “Rognone tandoori”, completato da un Vermouth home made con Rose Lemonade, piatto dal minimalismo esasperato eppure così carico di aromi e suggestioni.
Si chiude con un capolavoro assoluto come “Castraure, ambretta, tuorlo d’uovo e nepetella”: ancora, ancora e ancora.
Un pranzo qui sconvolge dal profondo, e non abbiamo dubbi ad inserire questa tavola tra le dieci più “calde” del momento.

Cosa manca allora per una corretta evoluzione? Manca un pensiero maturo (ed è forse normale sia così).
Va sviluppato un pensiero che vada oltre il già lodevole studio degli ingredienti e dell’abbinamento per assonanza gustativa. Questa cucina, da fotogramma di un presente, deve diventare racconto, sia che decida di guardare al passato sia che voglia proiettarsi verso il futuro. Serve un filo rosso spesso, resistente e visibile che leghi le fantastiche esperienze gustative regalate dalle idee di Brutto.

Non è poco, ma i nostri enfants terribles sono capaci di questo e molto altro.

 

Mi è stato chiesto da più parti di raccontare la storia della scoperta del Povero Diavolo di Torriana. Uno dei pochi ristoranti in Italia, forse l’unico di questo livello, che è stato raccontato prima sul web e solo in seguito dalla critica tradizionale. Un faro acceso su una locanda, e in particolare su un cuoco, che da lì in poi ha iniziato una intensa e vibrante rincorsa verso l’empireo della ristorazione Mondiale. Pier Giorgio Parini e Il Povero Diavolo sono stati e sono tutt’ora l’esempio di una ristorazione moderna, avanguardista, non solo dal punto di vista gustativo e della cucina.
Il Povero Diavolo di Torriana è jazz, ha fatto dell’istinto e dell’improvvisazione la sua fortuna. Ha spostato il paradigma dell’alta cucina, fatto di brigate chilometriche, di ripetitività del gesto, di continue e costanti messe a punto, di ossessiva ricerca dello stile… Ha demolito questo costrutto ideologico proiettandola in un mondo d’improvvisazione, di continuo mutamento, a tratti pure di ruvida imperfezione. E l’ha fatto dando vita a una vera e nuova avanguardia culinaria. Rendendo sostenibile un ristorante gourmet costruito su un modello meno costoso e meno ingombrante, il “no frills” dell’alta cucina contemporanea. Il modello del Povero Diavolo poteva nascere solo grazie a un incontro tra “folli”.
Da un lato un cuoco di genio con un talento istintivo e unico. Dall’altro il contorto mecenatismo intriso di sana follia e illuminata visione di un duo di ristoratori spinti da rara passione. Fausto e Stefania Fratti. Una coppia, di cui lo chef è diventato una sorta di figlio adottivo, che ha creduto fino in fondo nel talento di Pier Giorgio e ha fatto sacrifici immani per sostenere lui e il suo progetto. Ogni volta che mi viene chiesto di raccontare la cucina di Pier Giorgio e del Povero Diavolo riporto sempre questo esempio: prendete tre cuochi, sceglieteli voi tra i migliori, e metteteli in una cucina sottoponendogli tre ingredienti a sorpresa chiedendogli di costruire un piatto con questi. Bene, quello che creerà il piatto migliore sarà Giorgio, non ho dubbi.
Questo è considerabile un valore assoluto? Certo che no. E’ semplicemente un modo per spiegare come il suo talento istintivo lo porti ad avere una tale dimestichezza e profondità sensitiva con gli ingredienti, da conoscerne perfettamente il risultato una volta elaborato. Come Mozart componeva con l’orecchio assoluto, Pier Giorgio Parini cucina con il palato compositivo assoluto. Una storia e una crescita che è stata possibile e realizzabile in quel luogo affascinante che è Torriana. Solo lì l’incontro poteva avvenire, e solo lì entrambi hanno dato il massimo in un’avventura straordinaria.

Ma tornando alla scoperta, e parlando di illuminazioni, ciò che mi portò a parlare del Povero Diavolo e di Torriana dopo una cena del Novembre 2007 fu un misto di intuizione e sana incoscienza, forse visione. Sarebbe bello raccontare che tutto ciò è stato merito mio, che quel lampo sia stato farina del mio sacco. Ma vi do una notizia: non è così.

Nel novembre del 2007, un pressoché sconosciuto Pier Giorgio Parini era stato da poco assunto a condurre le cucine del Povero Diavolo di Torriana, ristorante che già da qualche tempo stava mandando segnali interessanti.

Il mio vecchio amico Piero Pompili cominciò a insistere, “…quel giovane cuoco farà parlare di sé”. Alcuni lettori forse si ricordano di Piero, da quando girava per il web con il nickname di “Muccapazza”. Mi sono sempre fidato di lui: estroso, istrionico e follemente originale, non ha mai mancato di dimostrarmi sensibilità e senso del gusto, doti per nulla comuni. E poi una cena è spesso la scusa migliore per rivedere un amico.

Varcata la porta del Povero Diavolo rimasi ammaliato, folgorato da una cucina davvero priva di schemi fissi e lontana dalla memoria. Un pezzo di futuro fluttuante tra quattro mura incastrate nel tempo. L’amore fu istantaneo, un vero e proprio colpo di fulmine.

Ricordo che il giorno dopo, lungo la strada del ritorno, ne parlai con Paolo Marchi ed Emanuele Barbaresi. Con il primo collaboravo alla neonata guida di Identità Golose e con il secondo stavamo scrivendo la guida Gourmet 2009, il gronchi rosa della critica gastronomica italiana, come scherzosamente amiamo definirlo io e i molti compagni di quella avventura che ancora oggi sono presenti qui su Passione Gourmet. Roberto Bellomo, Fabio Fiorillo e Roberto Bentivegna, il co-responsabile con me di quello che successe poi. Lo esortai a un’altra visita da Pier Giorgio dopo qualche mese, per verificare che non avessi preso un abbaglio.

– No, Alb, non ti sbagli.

Il genio era puro, l’anima del ristorante candida, l’esperienza tanto entusiasmante da diventare in breve una necessità.

E proprio nella guida Gourmet 2009, edita da Editoriale Domus, piazzammo il Povero Diavolo di Torriana ad una votazione di 17/20imi, a ridosso dei grandi. Una posizione che all’epoca fece non poco scalpore.

Negli anni successivi sono tornato a Torriana e al Povero Diavolo oltre 80 volte, e ogni volta ho degustato creazioni che in maniera del tutto naturale e spontanea hanno visto la luce, hanno goduto intensamente della loro stessa bellezza, come un bruco divenuto farfalla, per un solo giorno prima di eclissarsi per sempre, senza mai ripetersi. E’ vero, molti piatti sono diventati signature dish di Pier Giorgio e del Povero Diavolo. Ma credetemi se dico che pur essendo straordinari il “riso in bianco”, il “pomodoro al sugo”, il “sempreverde” non sono nulla di fronte a tante altre creazioni che ho avuto la fortuna di assaggiare.

È la storia di un grande amore che si conclude. Non ho mai visitato così tanto e così spesso un ristorante, e oggi penso che avrei voluto farlo ancora di più, toccato forse dalla sensazione intima che quel periodo, magico, avrebbe avuto una fine. Il resto è e rimarrà storia, una bella storia che ricorderemo a lungo.

Pezzo in uscita contemporanea sul sito di Luciano Pignataro.

Fiumi di parole abbiamo scritto, negli anni, su questo ristorante e su questo cuoco.

E’ dal 2007 che, incessantemente, tessiamo le lodi di una cucina che non ha punti di riferimento, per costruzione e genialità creativa, che non ha schemi e stereotipi, che fa della istintiva improvvisazione la sua cifra stilistica.
Un percorso che è in continua e costante evoluzione, che sta compiendo una rivoluzione silente e mai abbastanza urlata.

Un talento ed un genio creativo che non si arresta, che continua a commuovere e a sorprendere con passi mai visti, con tecniche ataviche ma moderne, con sapori inconsueti ma al contempo concreti ed esaltanti. Fin qui parrebbe il solito elogio sperticato, quasi “groupieristico”, che noi abbiamo sempre mostrato.

Ma c’è un però. Perché tutta questa passione, questa viscerale emozione, questo incondizionato pathos è in realtà -e sopratutto- frutto di attente e ponderate riflessioni. Vero è che tanto è istintiva la cucina di Pier Giorgio Parini, tanto è viscerale l’entusiasmo di fronte a sapori e profumi folgoranti. Ma, poi, una attenta analisi tecnica porta a comprendere quanto questa cucina sia veramente, e non per slogan, la cucina del futuro.

Grassi ridotti all’osso, un moderatissimo uso della proteina animale (questo da sempre, fin dal lontano 2007) a favore di un caleidoscopio di sapori e profumi forniti e presi dal mondo vegetale.

Il protagonista è sempre un ortaggio e un’erba, che qui trova però un senso oltre l’aspetto. Tant’è che anche gli impiatti si sono fatti nel tempo ben più ruvidi di quanto il gusto possa invece raccontare. Impiatti apparentemente caotici, dissennati, in cui si concentra sempre più, non si disperde e atomizza, ma si ristruttura il sapore, nascondendo tutto sotto a scrigni di voluttà e di completezza gustativa. Una cucina espressa all’ennesima potenza, che viene pensata e realizzata poche ore prima del vostro arrivo. Che però attinge da ingredienti anche conservati con tecniche antiche, tanto à la page oggi, ma che in realtà, sopratutto in Italia, affondano le radici nella più impervia e remota cultura contadina del nostro stivale. Una cucina quindi molto italiana, molto identitaria.

Fermentazioni? Macerazioni? Erbe che profumano e rinvigoriscono i piatti? Qui, signori, si usano da sempre, quando ancora chi pensò le famose classifiche mondiali faceva un altro mestiere. E quando molti tra i primi in classifica erano agli inizi del loro vigoroso e pluri premiato percorso.

C’è un velo di tristezza ogni volta che si inforca la strada del ritorno. Tristezza perché questo luogo non è abbastanza vicino per poterci andare spesso, tristezza per la sorda assenza di alcuni importanti attori, soprattutto internazionali, della critica gastronomica.

Che non si accorgono che qui a Torriana c’è un genio, vero ed unico. Di quei protagonisti che ne nascono -pochi- ogni secolo.
E Piergiorgio Parini è uno di loro.

Cavolfiore, crema di naschi e zenzero, cavolo nero.
cavolfiore, Povero Diavolo, Chef Pier Giorgio Parini, Torriana
Mazzancolle, bietole e frutti rossi fermentati, limone, pane candito.
mazzancolle, Povero Diavolo, Chef Pier Giorgio Parini, Torriana
Triglia alla crema di arachidi, battuto di prugne fermentate (umeboshi) e shiso fermentato.
triglia, Povero Diavolo, Chef Pier Giorgio Parini, Torriana
Sino a questo punto percorso “solo” eccellente, con richiami e rimandi d’oriente ed una stilistica agro-dolce che ha spalancato il palato e le porte a ciò che seguirà.

Patata viola, spuma di aringa affumicata, limone nero e porro essiccato. Un brodo cremoso ancestrale, in cui farinosa si insinua la patata viola che a colpi di fioretto è sostenuta dalla spuma e dalla pungente e fenica persistenza del porro, unita al tocco di limone affumicato.
patata viola, Povero Diavolo, Chef Pier Giorgio Parini, Torriana
Un capolavoro! Fegato di rana pescatrice, grasso e umido, con semi ossidati, cialda ai semi tostati, radicchio e ginepro fermentato. In tutto questo esce la dolcezza inaspettata e prorompente del radicchio, addomesticato al miele, che viene rincorso e steso dal ginepro fermentato. Un balsamico, grasso, acido e dolce mai sentito e visto. Senza punti di riferimento.
fegato di rana pescatrice, Povero Diavolo, Chef Pier Giorgio Parini, Torriana
Altro colpo al cuore: anguilla con ciliege sott’aceto, curcuma in salsa fresca (fenomenale), tarassaco e spinacio. Cotto, crudo, fermentato e ossidato… tutto a favore della grassezza dell’anguilla. Mamma Mia!
anguilla, Povero Diavolo, Chef Pier Giorgio Parini, Torriana
E dopo due colpi del genere cosa aspettarsi di più? Il KO tecnico: gnocchi di patate, feccia di olio di canapa (acida e oleosa), cacao, the affumicato e baccalà… senza parole.
gnocchi di patate, Povero Diavolo, Chef Pier Giorgio Parini, Torriana
“Solo” un passaggio… royale di cardi, cardi sott’aceto, nocciole, uova di lavarello.
royale di cardi, Povero Diavolo, Chef Pier Giorgio Parini, Torriana
Lumache impanate e brasate, yogurth, pelargonio.
lumache, Povero Diavolo, Chef Pier Giorgio Parini, Torriana
Narcè… la carne che non c’è. Kiwi fermentato e macerato nappato da un miso-salsa dai rimandi animali e da polvere di erbe (dragoncello, timo, e tanto altro).
Narcè, Povero Diavolo, Chef Pier Giorgio Parini, Torriana
Un altro capolavoro. Cavolo che, cotto a pressione per giorni in orzo e acqua, acquisisce acidità, persistenza ed una nota grasso-burrosa che lo rende simile ad una fettina di carne, intensa e pervasiva. conclude il cerchio un estratto di erbe e alghe.
cavolo, Povero Diavolo, Chef Pier Giorgio Parini, Torriana
Germano con castagne, foglie essicate di ilang ilang e le sue interiora in ragù.
germano, Povero Diavolo, Chef Pier Giorgio Parini, Torriana
Un sorbetto amarissimo, ma con un finale dolce. Rapa palla di neve con semi di finocchio e resina di canfora.
sorbetto, Povero Diavolo, Chef Pier Giorgio Parini, Torriana
Cavolo Nero, stupendo maiale brado, crema di nespole e sorbe e tannino di frutta.
cavolo nero, Povero Diavolo, Chef Pier Giorgio Parini, Torriana
Pastinaca caramellata, spumone agli agrumi, essenza di mandarino.
Pastinaca, Povero Diavolo, Chef Pier Giorgio Parini, Torriana
Animelle (sì, avete letto bene) di agnello cotte nel latte, gelato al cioccolato, crema di limone e crumble al burro salato.
animelle, Povero Diavolo, Chef Pier Giorgio Parini, Torriana

Come si diventa un classico?
Sembra impossibile associare il concetto alla cucina di Piergiorgio Parini, tanto è libera, originale, sorprendente.
Eppure sempre più spesso, girando per gola, non solo in Italia, ci s’imbatte in richiami, suggestioni, echi che hanno un’origine chiara nel lavoro di questo chef prezioso per la cucina italiana.
In questi quasi dieci anni passati al Povero Diavolo si sono prodotte, senza esagerare, migliaia di piatti, talvolta rimasti in carta lo spazio di un cenone di capodanno quando altrove avrebbero fatto la fortuna per lustri dello chef che li avesse proposti.
Una cucina sempre stimolante e mai prevedibile, bella a vedersi, buona e sana, realizzata senza sforzi da quello che gli americani direbbero un “natural”, un cuoco per cui inventare è come respirare.
Il fatto poi che sia offerta in un luogo semplice, poco incline alle lusinghe e allo sfoggio come il suo patron, Fausto, burbero buono, equilibrato dal tocco gentile di sua moglie Stefania, ne fa una di quelle singolarità italiane che andrebbero esaltate ovunque.
Ogni portata è una festa per il gourmet, perché ci sarà sempre almeno un passaggio impensato, un ingrediente da scoprire, una pista aperta da percorrere; e qualche fugace accostamento meno riuscito, rovescio della medaglia inevitabile di tanta originalità, si dimentica volentieri perché qui non richiederete certezze ma lo stupore che vi strapperà più di un sorriso.
La nostra prima visita dell’anno è in primavera, e il menù lasciato alla libera mano dello chef ha contato, su quindici piatti, non meno di quattro passaggi da fondo scala.
A un avvio un po’ in sordina, con gli amuse-bouche che, a parte il cipollotto, non lasciano traccia, è seguita una brusca impennata con un succedersi di primi (un “tris”, per richiamare una pratica criminosa dell’offerta gastronomica nostrana, anzi un poker) che non sarà facile dimenticare e che spazia dalla pasta secca, al riso, alla pasta ripiena, al grano, sempre dando sfogo a un estro magico. Solo il gusto personale ci può far preferire i tortelli di faraona, a cui abbiamo dato l’onore della copertina, perché coniugare golosità con giochi di consistenze, contrasti che ti farebbero tornare a gustare mille e mille volte è impresa da segnalare.
E i secondi sono rimasti sullo stesso livello, con un solo passaggio a vuoto, la salsiccia di capra con lumache, in cui l’incontro tra i due elementi principali non è riuscito, controbilanciata da un piccione ancora nuovo rispetto ai tanti provati da queste parti e ancora da applauso.
Dolci non di scuola, mai ruffiani e mai gratuitamente provocatori, che non inseguono tendenze: il dolce non dolce qui si è proposto prima e meglio che quasi ovunque, insieme al dolce-dolce se serve. E se non ci sono interpretazioni dei classici per mostrare la sapienza della mano, non è detto che non vi siano domani, ma per scelta e non per moda.
Per la proposta enoica, senza lamentarvi di una carta che ha di sicuro delle rivali più corpose in giro, il consiglio è di lasciarvi suggerire dal patron: se la cucina è di quelle che sembrerebbe dare ragione a Marchesi e invitare a pasteggiare ad acqua per non essere distratti, Fausto Fratti saprà invece sorprendervi con bicchieri di grande originalità, spesso sul versante “naturale”, ma anche qui per scelta consapevole e ragionata, in quanto ottimi partner delle proposte di Parini. Nel nostro caso il Fricandò, Albana dell’azienda Al di là dal Fiume e l’ottimo Bianco dell’Armonia della Tenuta l’Armonia hanno svolto egregiamente il loro mestiere.
Un luogo del cuore, del quale vi racconteremo spesso nel corso dell’anno.

Mozzarella doppio latte, mandorla, finocchietto, erbe. L’avvio un po’ in sordina, la mandorla vince sulla mozzarella e il tutto non appassiona
Mozzarella, Povero Diavolo, Chef Piergiorgio Parini, Torriana
Mazzancolle alla griglia, asparagi, limone, dragoncello, spinacio. L’asparago se non è il migliore mai provato ci manca poco; mazzancolla buonissima ma, ancora, non siamo sui livelli stratosferici cui questa tavola ci ha abituato.
Mazzancolle, Povero Diavolo, Chef Piergiorgio Parini, Torriana
Grongo alla brace, crema di piselli, piselli, rapa bianca marinata al Martini, foglia di acetosa. Un primo scatto in avanti, con un pesce difficile. E la rapa marinata al Martini urla “Parini”…
Povero Diavolo, Chef Piergiorgio Parini, Torriana
Cipollotto, fegato di merluzzo, ginepro fermentato, foglia di cappero sotto sale. Eccolo il fuoriclasse: contrasti inusitati (ci aspettiamo capperi e fegato in giro per lo stivale…) e risultato finale da applauso.
Cipollotto, Povero Diavolo, Chef Piergiorgio Parini, Torriana
Linguine, brodo di paganelli, polvere di tiglio. Un saggio sul concetto di persistenza e la dimostrazione di quanto la grande cucina può, anche, essere gradevole in prima lettura, perché sfidiamo a trovare una forchetta che non mangi volentieri un piatto così.
Linguine, Povero Diavolo, Chef Piergiorgio Parini, Torriana
Riso (vialone nano), stridoli, semi di cumino, polvere di luppolo, di felce, di sumak. Un tassello ulteriore a una storia di risotti lunga e felice, al Povero Diavolo. Mille sapori e sensazioni che si abbracciano e si respingono in successione, un piatto dinamico come un Amoureuses di un grande autore, con cui giocare per un paio di minuti felici.
Riso, Povero Diavolo, Chef Piergiorgio Parini, Torriana
Tortelli (la pasta è fatta con farina d’orzo) di faraona, ristretto al melograno e riso. 20/20, potrebbe essere un classico della cucina italiana degli anni ’10 del secolo e magari tra un mese sparirà…
Tortelli, Povero Diavolo, Chef Piergiorgio Parini, Torriana
Grano spezzato mantecato con burro affumicato, Squacquerone, cialda di stridoli e borragine, fiori di borragine, polvere di erbe e orzo. Bello, buono, ludico. Cosa chiedere alla cucina contemporanea oltre questo?
Povero Diavolo, Chef Piergiorgio Parini, Torriana
Spiedo di lumache, salsiccia di capra, rapa rossa, polvere di pioppo. Sì, si può scivolare, anche da queste parti. Di sicuro la salsiccia è troppo secca perché funzioni, nonostante l’intingolo da leccarsi i baffi.
spiedo di lumache, Povero Diavolo, Chef Piergiorgio Parini, Torriana
Animella con “polenta alla saba” (Parmigiano, pane e saba). Piatto da grande table con tocco di italica gourmandise, la “polenta” è da gaudenti padani.
animella, Povero Diavolo, Chef Piergiorgio Parini, Torriana
Kiwi e nervetti (anche soffiati a popcorn). Peccato esserci arrivati solo a fine cena a un piatto così, perché rendere questa materia gradevole a uno stomaco già un po’ saturo è impresa ardua. Bel lavoro del popcorn nel dare consistenza che contrasta e alleggerisce il boccone.
kiwi e neretti, Povero Diavolo, Chef Piergiorgio Parini, Torriana
Piccione, rafano, ciliegie (candite e poi sotto aceto), capolini di piantaggine (“Plantago lanceolata”), crema di fegatini. Qui c’è tutto lo chef: il piatto da tristellato, riplasmato per farlo nuovo, non stucchevole, ricco di slancio.
Piccione, Povero Diavolo, Chef Piergiorgio Parini, Torriana
Ricotta (a base di latte di mucca e capra; viene sifonata e appena montata), sesamo nero e mandarino (anche scorza in polvere). Per chi scrive, portentoso: ricotta trattata al meglio, il sesamo è un tocco di genio che porta il piatto, apparentemente visto mille volte, su strade non battute.
ricotta, Povero Diavolo, Chef Piergiorgio Parini, Torriana
Nespole, alloro, polline fresco. Mano inconfondibile e combinazione “pariniana” quanto altre mai.
Nespole, Povero Diavolo, Chef Piergiorgio Parini, Torriana
Cioccolato di sorgo, kiwi candito e cipresso. Sfoggio di tecnica stravolgente che pare abbia stregato anche Genin. I più golosi tra voi continueranno a pensare che il cacao sia più adatto a farne cioccolato, ma se c’era bisogno di ribadire quante idee ci sono da queste parti ecco il dolce ideale.
Cioccolato, Povero Diavolo, Chef Piergiorgio Parini, Torriana