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La Grande Dame 2015

La 24° edizione

Negli champagne, il Pinot Noir è come un abbraccio; caldo, forte, affettuoso, talvolta avvolgente come una nuvola. La sua cifra è il chiaroscuro, che dona al sorso profondità, avvolge i sensi e sfuma i dettagli, rendendo l’esperienza della degustazione appassionante. Infine, come un Fregoli, cresce e muta continuamente divenendo complesso, multiforme e innescando un avvincente duello con l’appassionato, da sempre alla ricerca della sua più sotterranea lettura.

Ed è proprio il Pinot Noir il pilastro della leggendaria maison di Reims. Utilizzato su tutta la gamma è anche il vitigno che ha caratterizzato sin dal principio La Grande Dame, ‘rivoluzionata’ nel 2008 da Dominique Demarville (il predecessore di Didier Mariotti, attuale Chef de Cave), che ne ha alzato la componente all’interno della Cuvée fino a farla arrivare al 90%. “L’obiettivo è quello di ottenere l’espressione più delicata ed elegante del pinot nero che possiamo” ha dichiarato Dominique, nel 2017, alla presentazione della Grande Dame 2008; c’è perfettamente riuscito, visto e considerato che, assaggiando questa 2015, è quasi impossibile pensare che la componente di Pinot Noir sia così alta.

La Grande Dame è lo champagne che onora Madame Clicquot, fu creata nel 1962 e poi lanciata nel 1972 per celebrare il bicentenario della maison, fondata a Reims nel 1772. È l’emblema dell’eccellenza della Veuve Clicquot, un tributo tanto a Madame Clicquot Ponsardin quanto al Pinot Noir e ai preziosi vigneti acquistati nel 1816. Fu lei a individuare, ante litteram, la grande potenzialità del Pinot Noir quando, ancora giovanissima, si aggirava curiosa e audace tra i vigneti della Champagne e sua fu la decisione di acquistare dieci dei dodici Cru emblematici della Maison. Alcuni degli stessi, ben un secolo dopo, entreranno a pieno titolo nella Échelle des Crus con la massima classificazione. D’altronde, Madame Clicquot era solita affermare: “Le nostre uve nere donano i più raffinati vini bianchi”; fu solo una delle tante intuizioni di questa donna che, in un’epoca ostica per il genere femminile, fu in grado di ‘regnare’ per ben 60 anni, attraversando e sfidando, con audacia e determinazione, la Rivoluzione Francese, l’Impero Napoleonico, la Restaurazione e il Secondo Impero, ispirando una generazione intera. Irriducibile ottimista, in soli pochi anni, “La Grande Dame de la Champagne”, l’appellativo con cui divenne famosa, creò anche il primo champagne millesimato (1810), la table de remuage (1816), ancora in uso nella Champagne al giorno d’oggi e il primo rosé per assemblaggio (1818). Il suo spirito libero, l’audacia e la cultura dell’innovazione non hanno mai cessato di ispirare la Maison, che continua a omaggiare La Grande Dame con la Cuvée de Prestige a lei dedicata.

Veuve Clicquot possiede, vicino alle maestose e storiche Crayères (ben 250) una cantina incredibile in cui sono custoditi oltre 400 vins de réserve conservati in una miriade di tini termocondizionati, separati per varietà, villaggio e vendemmia fino anche a 20 anni. È il più grande archivio di tutta la Regione. Un’eredità non facile ma che Didier Mariotti, approdato in Veuve Clicquot ad agosto 2019, ha accolto sin dal suo ingresso con enorme entusiasmo, rispetto, consapevolezza. Didier è, da gennaio 2020, l’undicesimo chef de cave della storica maison di Reims.

Per la presentazione ufficiale in Italia dell’ultimo capolavoro della maison Veuve Clicquot, alla sua 24° edizione e qui nel millesimo 2015, Didier non poteva che avere come protagonista , al suo fianco, insieme al Direttore della Maison Jean-Marc Gallot, uno Chef come Enrico Crippa del ristorante Piazza Duomo di Alba, tre stelle Michelin. Enrico è un maestro del vegetale, nel perfetto spirito della Garden Gastronomy dove le verdure, proprio come l’uva, provengono dai migliori Crus e i piatti riflettono la visione di una gastronomia sicura di sé e sostenibile, con ingredienti appena raccolti nell’orto: “L’elemento vegetale è oggi uno dei punti cardine della mia cucina e fa sì che le sfumature dei miei piatti cambino, di giorno in giorno”, dice Enrico Crippa. Esattamente come il Pinot Noir con la Grande Dame.

La Grande Dame 2015 è stata assemblata unicamente con uve degli storici otto Grand Cru dove la maison ha i vigneti di proprietà: Bouzy, Ambonnay, Verzenay, Verzy e Aÿ per il Pinot Noir, al 90%, e Avize, Oger e Le Mesnil -sur-Oger per lo Chardonnay, al 10%. Dopo il tiraggio, lo champagne ha maturato sei anni abbondanti sui lieviti nelle splendide Crayères di Reims prima di essere dosata a 6 g/l. Un’annata, la 2015, considerata eccezionale, caratterizzata dal caldo e dal clima secco e che in molti ricorderanno per la totale assenza di malattie significative in vigna, che ha regalato serenità fino alla vendemmia e che ha donato vini ricchi e dall’ottimo equilibrio, in particolare il Pinot Noir. Di questa Grande Dame 2015 stupiscono la perfezione stilistica, la precisione, la raffinatezza.  Una cuvée priva di qualsiasi orpello e per tale ragione estremamente affusolata, luminosa, eretta, ma di grande forza e sorprendentemente penetrante, incisiva. Un registro olfattivo di austera raffinatezza, dai profumi di fiori bianchi –bergamotto, acacia – che si intrecciano a quelli più incisivi di limone, gesso e pietra focaia. Una bocca che sorprende per la tessitura sapida e per la rara capacità di fondere piacevolezza, tensione e freschezza e dove la materia, foderata e agrumata, poggia su una matrice dal ricamo definito, asciutto; a preludio di un’evoluzione che si rivelerà straordinaria. Per una chiusura salina, di infinita persistenza e dai suadenti riverberi burrosi.

Presente all’evento l’artista italiana Paola Paronetto, che ha creato una collezione di sei coffret per la Maison Veuve Clicquot, con una gamma di colori, tratti dalla sua ampia palette, che esprimono emozioni, gioia e ottimismo e sono armoniosamente abbinati tra loro.  È con lei che Veuve Clicquot, con la nuova Cuvée La Grande Dame 2015, continua a sostenere la sua cultura dell’ottimismo.

Un microcosmo magico in continua evoluzione

Piazza Duomo ad Alba è ormai da tempo nell’olimpo della ristorazione italica e lo Chef Enrico Crippa, oltre a rappresentarne l’anima, è il deus ex machina che ad ogni servizio spinge tutti a dare il meglio col carisma e la leadership di chi non ha bisogno di alzare la voce ma a cui basta dare l’esempio e conservare l’umiltà. È lui infatti dai tempi dell’apertura ad essere tra i primi al mattino che arrivano in cucina dopo essere passato a selezionare le verdure e le erbe nel suo orto, così come non è raro vederlo reggere il vassoio delle portate che qualcun altro servirà al vostro tavolo. Dettagli, questi, che si colgono ancor di più quando si è seduti allo chef’s table, immersi tra i ragazzi di cucina che si muovono con un ordine e un silenzio quasi assordante.

Nella cucina di Piazza Duomo sono nati, e siamo certi continueranno a nascere, alcuni dei piatti entrati nella storia della cucina italiana e spesso fonte di ispirazione per molti giovani Chef, basti pensare all’Insalata 21, 31, 41 che oggi si è evoluta e conta più 100 erbe al suo interno. Parliamo di una cucina legata al territorio, ricca di vegetali, che il più delle volte è proposta in maniera elegante ricercando anche nell’impiattamento dei richiami al mondo dell’arte.

Eleganza estetica e palatale

La nostra ultima visita è stata un mix di piatti storici, sempre graditi, e nuove creazioni, in un percorso che ci ha regalato molte emozioni. Si inizia con un divertente appetizer e l’evocativo Gingerino e foie gras, che in tanti provano a replicare ma che qui resta nella sua versione migliore. La prima vera portata è in realtà una miriade di assaggi tutti a base vegetale che invadono letteralmente il tavolo e stimolano il palato con un caleidoscopio di sapori dolci e acidi.

Tra le portate successive, eccezionale l’Omaggio ad Anselm Kiefer (pittore tedesco a cui si ispira anche l’estetica del piatto) a base di seppia e cardo, dove il mollusco è crudo e ridotto a una sfoglia coperta da una salsa al cardo, servito anche di fianco in una versione assoluta. Un piatto giocato sulle note dolci, incredibilmente piacevole e persistente al palato. Spiazzante sia per sapore che per consistenze il Riccio di mare, ingrediente particolarmente amato dallo Chef, con peperoni e mandorle. Qualche passaggio come il Rombo e la zucca, sebbene mirabilmente eseguito, mancava di quella spinta in più che ci si aspetterebbe in una sequenza di piatti ad alti livelli. Molto buono il reparto pasticceria, che oltre a servire e presentare le portate al tavolo in cucina, è capace di creare ottimi dessert, golosi oltre che scenici.

Complementare alla cucina è poi la sala, da qualche mese nelle mani del bravissimo Davide Franco il quale, a dispetto della giovane età, vanta una lunga esperienza ai vertici della ristorazione internazionale oltre a una naturale propensione nel far sentire a proprio agio tutti i tipi di clientela, senza mai essere troppo invadente. Enciclopedica la carta dei vini nelle mani del talentuoso Jacopo Dosio, dove oltre al Piemonte c’è tanto spazio per la Francia e qualche chicca per gli appassionati.  

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L’essenza del minimalismo Zen

Enrico Crippa compie 50 anni quest’anno e, a dispetto del trambusto di questo momento storico, la sua maturità come cuoco ci appare definitivamente compiuta. Rimane, però, l’eterno spirito giovane, quasi da folletto, che col trascorrere del tempo s’è fatto ancor più radioso, sorridente ed energico, tanto che si potrebbe dire che la maturità ha portato in lui nuova linfa e, la sua cucina al Piazza Duomo, tende ora all’essenza in maniera ancor più vigorosa.

Proviamo a chiarire ciò che affermiamo nel sottotitolo e che potrebbe, in prima battuta, apparire contraddittorio.

Nella cucina di Crippa il minimalismo si concentra fondamentalmente sulla rimozione del superfluo per fare spazio all’essenziale. È questo ciò che determina, a ben vedere, l’essenza delle cose, questo ciò che consente, peraltro, di goderne. Senza più distrazioni. E proprio questo ci pare essere oggi il percorso intrapreso, oggi ancora più manifestamente che in passato, nel ristorante che gestisce, dal 2003, col placet della famiglia Ceretto.

Enrico Crippa: brianzolo di nascita, albese per scelta

Questa ricerca dell’essenza ha comportato, come detto, l’eliminazione di tanti fronzoli e orpelli. Così il benvenuto dell’antipasto all’italiana si è semplificato, ridotto in numero, ma centrato su alcuni punti che sono veri e propri affondi nel gusto e nell’intensità della materia prima.

Merluzzo e mais e la matelote di rana pescatrice sono l’emblema di questo nuovo corso. Concentrato, persistente e sapido il primo, vegetale, iodato, marino il secondo. In entrambi i protagonisti apparenti, le componenti lipidiche, sembrano sfuggire, mascherarsi, quasi soccombere di fronte, soprattutto, all’imperioso brodo di rana pescatrice e nella bieta in accompagnamento, ma che sono solo apparentemente comprimarie. Un gioco, quasi uno scherno, irriverente. Ben più evidente nella paradisiaca aletta di pollo e salsa Albufera, di cottura strepitosa e di nappatura altrettanto stupenda. Una salsa veramente grandissima però che anche qui soccombe con l’accompagnamento laterale, che rappresenta precisamente il pensiero – laterale – di un cuoco che quasi nasconde il suo io più profondo, gioca col commensale e frastornandolo con una componente vegetale potentissima e antologica.

I risi, invece, rappresentano un susseguirsi tanto rischioso quanto prorompente. Due risi completamente differenti. L’uno che è una tavolozza neutra su cui dipingere e costruire un piatto di profondità inaudita, avanguardista, ludica, persistente. L’altro, al colombaccio, solo apparentemente più classico ma anche qui con il guizzo di classe che solo un talento come il suo può pensare e, soprattutto, realizzare.

La puccia langarola fa commuovere un commensale seduto al nostro tavolo, langarolo appunto, che immediatamente sobbalza sulla sedia: ha trovato la sua madeleine proustiana! E il germano? Semplicemente, classicamente, essenzialmente, eccezionale.

Un tripudio, una gioia, una festa, un grande applauso al nostro monaco Zen. E un grande applauso a tutta la sala di Piazza Duomo, capitanata da Vincenzo Donatiello, che ci ha fatto divertire e ci ha assecondato nel nostro ossequioso pranzo alla corte del monaco langarolo.

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Ceretto-Crippa: un perfetto sodalizio enogastronomico in continua ascesa 

La storia di Enrico Crippa e del Piazza Duomo è una storia di legami, fedeltà e fiducia. È il racconto di un cammino per un obiettivo comune.

Ceretto-Crippa. Un binomio invidiabile, tra i sodalizi enogastronomici più proficui della storia della ristorazione italiana, ancora oggi ai vertici nazionali e non solo.

La famiglia di imprenditori vitivinicoli, tra le più famose d’Italia, ha da sempre giocato un ruolo chiave dietro questo successo, mettendo a disposizione per la causa risorse importanti che hanno reso con gli anni Piazza Duomo un gioiello, osannato da critica e pubblico, consacrato con i massimi riconoscimenti gastronomici da guide e classifiche di tutto il mondo. In tal contesto, è probabile che la formula magica sia stata quella di lasciare intelligentemente carta bianca al genio di Enrico Crippa al quale, però, bisogna riconoscere il merito di aver pensato – bene, diremmo – a tutto il resto.

Il meraviglioso mondo vegetale di Enrico Crippa

Nelle Langhe, dove tutti i cuochi riuscirebbero a farsi stregare dal terroir circostante, Enrico Crippa, indiscutibile maestro ed esempio di professionalità da seguire per molti giovani cuochi, ha saputo ritagliarsi un personalissimo spazio nel quale è riuscito a rispettare territorio e stagioni con un suo stile personalissimo, molto vicino al rigore estetico e composto della cultura giapponese, con occhio sensibile alla tradizione ma ancor di più a un’idea di cucina sostenibile.

I piatti di Crippa sono sempre stati al passo coi tempi e celano dietro il velo dell’innovazione l’idea della natura e degli ingredienti che seguono il tassativo corso delle stagionalità, inseguendo tradizioni, rispettando il territorio e assecondando persone, perché anche quella con i fornitori, allevatori e coltivatori, al Piazza Duomo, è una storia di legami, fedeltà e fiducia. Crippa è, ancora oggi, dopo un decennio ad altezze vertiginose, tra i più importanti esponenti della Nuova Cucina Italiana – sempre più smagliante, anche in questi tempi difficili – nonché uno dei più validi interpreti della tradizione langarola dove, pur non essendo piemontese, riesce a distinguersi per capacità, rigore, fantasia e incisività.

I suoi piatti sono pennellate ricche di dettagli che plasmano uno percorso preciso, sussurrato e cristallino che riserva già dal suo prologo un indimenticabile “inizio”, folgorante e stordente allo stesso tempo: una piacevolissima ed inaspettata invasione di micro preparazioni che schiaffeggiano gentilmente il palato e risaltano il mondo vegetale del quale lo stesso Crippa è sceneggiatore e regista grazie all’orto (realmente biodinamico) imbastito a pochi chilometri da Alba, nella Tenuta Monsordo Bernardina dei Ceretto.

Ci si siede a questa tavola restando in trepidante attesa di quel capolavoro di purezza che è l’insalata 21, 31, 41 e 51… nella quale si ritrova, in una composizione volutamente caotica, una miriade di verdure, fresche e croccanti e che potrebbe mutare a distanza di 24 ore. Un abbiccì vegetale che va dall’acetosella allo zenzero in una serie di foglie, steli, germogli e fiori. Il tutto con un condimento verticale che dall’apice alla base parte in modo tenue e sfocia nel corroborate finale del katsobushi agli agrumi.

Per banalizzare, possiamo ribattezzarlo un kaiseki all’italiana, tanto autentico, quanto originale. Come lo splendido merluzzo (questa volta con zucchine e il magnifico beurre blanc in accompagnamento), un degli ingredienti feticcio dello chef che rappresenta uno dei legami tra Piemonte e Liguria a dimostrazione che l’incondizionato amore per il cibo travalica i confini regionali. E quando si parla di ingredienti prediletti, versante terra, ci viene in mente l’agnello, dalla presentazione che ripercorre idealmente l’ovino al pascolo, con il carré rosa adagiato sul latte di capra, gocce di emulsione di fiori di camomilla, bietola e altre foglie di stagione.

Pochi atti, ricchi di episodi che creano un piccolo viaggio intorno all’ingrediente principale, che sia il riccio di mare, la barbabietola o il miele, tutto viene presentato con il medesimo livello di perfezione estetica e tecnica.

Sala e cantina, sebbene sia difficile star dietro a una cucina così colta, sono, rispettivamente, dinamica, giovane ma di grande esperienza la prima, mastodontica la seconda. Forse l’unico tre stelle in Europa a potersi permettere una lista di vini alla mescita di un certo, inarrivabile, calibro. Chiaramente ad un caro, carissimo prezzo.

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Ad Alba una nuova rinascita, nel solco dello stile sempre personale

Il cuoco-Samurai, tra gli allievi prediletti del maestro Marchesi, ha compiuto un altro salto verso il cielo. Ha sviluppato nel menù Mo(vi)menti, con quella “vi” tra parentesi che apre a mille significati, una serie di colpi da K.O. tecnico rendendo protagonisti ingredienti quali riccio di mare, barbabietola, cetriolo, radicchio e merluzzo. Nomi brevi, asciutti e concisi in perfetto stile kaiseki, che identificano l’ingrediente principale su cui Enrico Crippa costruisce una sinfonia di variazioni di gagnairiana memoria. L’ispirazione del piatto principale accompagnato da satelliti è la medesima del cuoco transalpino, ma il contenuto è assai diverso. La differenza sta nel fatto che Pierre Gagnaire improvvisa, dematerializza il concetto di variazione a favore di un’interpretazione totalmente jazz dei comprimari, che a tratti, molto spesso, diventano protagonisti più della portata principale, a cui dovrebbero asservire ma che molte volte schiavizzano il protagonista, in una rincorsa egotica davvero interessante.

Esaltazione dei piatti satelliti, della materia prima vegetale e di quella dolce

Un concetto simile ed articolato anche in queste variazioni del cuoco albese d’adozione, in cui troviamo un grande piatto principale nel riccio, favoloso in abbinamento al pecorino, ma in cui i due satelliti Sorbetto di ricci di mare e lardo e Mandorla e ricci di mare (sorbetto alle mandorle e ricci di mare ghiacciati) sono decisamente sopra ogni aspettativa. Così come nel cetriolo in cui il riso soffiato e la salsa bernese verde sono un capolavoro assoluto. Il  merluzzo salato da noi e cotto a bassa temperatura ricoperto con sfoglia di patate, funghi e salsa di funghi – in cui il merluzzo in tutta la sua declinazione è decisamente stupendo – è seguito da Porcini a lamelle e polvere di anice, Cialda di riso allo zafferano e funghi al prezzemolo, Brodo di funghi da bere. Imperioso e imperiale. Difficile e a tratti discontinua la variazione-esaltazione della barbabietola, interessante e stimolante il radicchio. Molto vivace e intrigante la zucchina: servita in albume croccante, tuorlo morbido e spaghetti di zucchine in carpione, Bijoux al Parmigiano e Zucchina al brusco (zucchina al vapore e salsa bernese).

Un intreccio di classicità transalpina, finiture nipponico-orientali con un uso sapiente e continuo delle erbe. Uno stile ormai tutto personale, decisamente di impronta unica, che ci ha convinto molto, questa volta anche sul versante dolce con due capolavori come il Monviso, rivisitazione della nocciola e dintorni, e un assoluto Profiteroles, un’interpretazione post-moderna davvero fenomenale.

Molto buono anche il  Vacharin alle fragole: cilindro di meringa ripieno di sorbetto alle fragole e spuma di latte di mandorle, spolverato con polvere di yogurt. Il tutto coronato da un servizio – capitanato dall’immenso Vincenzo Donatiello – simpatico, giovane, dinamico, preciso come un orologio svizzero di grande classe e che non ha dato il minimo accenno di esitazione.

Un grande ristorante, un grande cuoco, un grande maître che si confermano ancora una volta.

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