Due milioni di chilometri quadrati. Più di quindici milioni di abitanti. Ventitré quartieri con vocazioni e aspirazioni diverse. Una storia, lunga e complessa, che qui, e solo qui, non sembra essersi stratificata verticalmente come sempre accade, ma spalmata sull’intero territorio, fino ai bordi, con i suoi paradossi e le sue follie ad ogni passo: strade senza nomi e palazzi senza numero, pagode con tegole e legni scuri, poi chilometri di neon, lampi di fosforo e treni volanti. Botteghe mai più alte di un albero e dietro, edifici ricalcati sulle geometrie dei circuiti stampati.
Giardini come architetture, grattacieli come foreste.
Tokyo.
Allora per tentarne il racconto, per rintracciare un filo, sarà necessario la scelta di un luogo come metafora, un microcosmo nei cui confini ricercarne più facilmente l’anima. Magari un mercato. Sicuramente uno. Lo Tsukiji Market, quello del pesce, imprescindibilmente nelle prime cinque ore di permanenza del viaggiatore curioso e nelle prime cinque pagine di qualsiasi guida turistica che voglia suggerire un’idea di questa città.
Poi, saranno parole per spiegare quello che le fotografie qui non riescono a fare.
Tutto comincia prima, percorrendo quel quartiere di Ginza -marciapiedi come autostrade, e pareti di vetrine- che inaspettatamente termina lì, proprio tra quei capannoni umidi e le sessantamila persone che ogni mattina li respirano. Un calo di luce improvviso appena ci si addentra dopo essere sopravvissuti alle ruote dei velocissimi carrelli elettrici che attenteranno alla vostra vita. Poi alle luci delle lampade sospese, l’immagine apocalittica di un oceano improvvisamente ritiratosi, lasciando così, agli occhi, tutti i suoi abitanti muti riversi sul fondo. Di ogni taglia. Di ogni colore. E allora sarà come camminare dentro un acquario, una discesa in apnea lungo i tagli dei banchi come scogli ma con i piedi nelle scarpe, all’asciutto delle volte, tra voci, meraviglia e sangue.
All’esterno dei capannoni c’è l’altro mercato. Qui, esposto fuori dalle minuscole botteghe, il pesce si offre porzionato, lavorato, essiccato, conservato, cucinato, in un fantasmagorico caleidoscopio di colori, forme e geometrie. I vicoli sembrano essere stati ritagliati a fatica intorno ai cesti, alle scatole, a quelle cassette, a comporre una sconfinata natura morta del mare, silente ed immobile. E sempre qui, quando si arriverà, rigorosamente all’alba, nell’attesa dell’apertura al pubblico dei capannoni sgombri ormai dalle aste e dai grossisti, che si affronterà la fila, lunga ma ordinatissima, di chiunque voglia avere, per una volta, lo sgabello davanti il banco di Daiwa Sushi, per guardare le mani sicure e velocissime dei maestri che sfilettano, impilano il riso e lo depongono su quel tagliere in legno, davanti a te. Omakase, il breve menu dello chef, si intenderà senza parole. Nigiri per sette volte, poi qualche maki, una zuppa di miso, una tazza di the verde. Null’altro sarà necessario per avere l’esperienza del sushi, quella da portarsi appresso per tutta la vita.
A novembre però, tutto questo non sarà più, si è già troppo rimandato, e dunque il nuovo teatro di questo spettacolo avrà spazi più moderni, banchi più ampi, luci piu’ diffuse, taglieri con meno rughe.
Vedremo, ma la magia di questo luogo, no, non riuscirà a traslocare, gli uomini non sussurreranno più ai pesci carezzando le squame, e il mercato di Tokyo non sarà più un luogo dove cogliere in qualche ora l’anima millenaria del paese.
La fila delle 6 per accedere a Daiwa Sushi.
Seduti al banco.
The verde e zuppa di miso per accompagnare.
I maestri all’opera. Spazi ristrettissimi per gesti precisi.
Momenti dell’omakase. Mazzancolla,tonno, riccio, anguilla e i maki misti.
L’esterno. Dove tutto comincia e finisce.
La zona esterna al mercato. Qui gli essiccati.
Ostriche grigliate.
Sezionati.
Pose.
Millimetrati.
I giganti.
Le miniature.
Occhi di tonno. L’ultima specialità della tavola giapponese.
Forse i fratelli Alajmo qui hanno avuto l’intuizione per i paralumi del ristorante.
Scorci dell’interno del mercato coperto, accessibile ai visitatori solo dopo il termine del lavoro degli operatori del settore.
Lavorazione del tonno.
Teste.
Colori.
La mattanza. Poi gli scarti.
Fugu. Il pesce palla e la fama del suo veleno.
Quando ci si siede al tavolo di un ristorante e, aprendo il menù, si ha davvero l’imbarazzo su cosa scegliere tanto è valida la proposta, con buona probabilità il ristoratore ha già fatto un bel centro nel cuore del cliente.
Se poi il ristoratore in questione è un tipo istrionico come Dario Picchiotti, uno di quei soggetti che si amano o si odiano, senza scala di grigi, allora ci potrebbe essere più di un motivo per pagare il “prezzo del biglietto”.
Non c’è dubbio, noi frequentiamo i ristoranti per mangiare bene e l’Antica Trattoria di Sacerno ci ha davvero stupito in positivo su questo versante.
Ma la piacevolezza della serata, la gradevolezza di un ambiente semplice ma di buon gusto, la compagnia di uno chef sopra le righe, possono essere aspetti non secondari per la buona riuscita di una serata.
E’ un vulcano in eruzione Picchiotti: consiglia, discute, lancia la battuta, chiede e prende il suo spazio; evidentemente un ottimo chef, dal momento che si può permettere di passare molto tempo in sala senza che la qualità di esecuzione dei piatti ne risenta minimamente. In fondo così fa uno chef/illuminato: trova un sous chef tanto valido da farlo diventare socio del locale (Mario Solomita) e poi gestisce la sua cucina prevalentemente dal pass.
Piatti assolutamente convincenti, per la qualità molto alta degli ingredienti, ma anche per le cotture e gli abbinamenti sempre riusciti: tutto rigorosamente pesce, dalla A alla Z.
Nella carta c’è una linea di cucina dedicata alla semplicità (l’ispirazione non troppo celata dello chef è la Capanna di Eraclio): quindi crudi, fritture, crostacei e pesci al vapore o alla plancha. Ma c’è anche spazio per proposte di moderata creatività: convincenti perché misurate, giocate molto bene sugli equilibri e le morbidezze. Alcune note amare qua e là, qualche acidità, ma sempre usate con intelligenza e buon senso, in modo da coccolare nel modo migliore la variegata clientela.
Un locale in cui rimane la voglia di tornare, anche per la poderosa lista di bollicine messa a punto da Giada Berri (il locale è una delle Krug Ambassade italiane), con ricarichi assolutamente corretti.
Se sapranno dimostrare continuità e perseveranza, la coppia Picchiotti/Berri crediamo potranno togliersi più di qualche soddisfazione.
Intanto sono già un riferimento assoluto per la cucina di pesce nel raggio di parecchie decine di Km.
Pane: molto buono.
Salmone canadese, panna acida alle erbe: ingrediente di primissima qualità, dalla consistenza incredibile.
Tartare di gambero gobbetto, dressing alla soia e pistacchio.
Un filo troppo freddo.
Granseola, asparagi e risina piccante.
Asparagi, aceto, spuma di acqua di pomodoro, risina e granseola: grande eleganza.
Seppie, ricci e cime di rapa.
Piatto notevole, molto giocato tra note ferrose (dentro la seppia c’è il fegato) e iodate (salsa ai ricci e polvere di ricci).
Balanzoni di bollito, gamberi rossi, cannolicchi, arance e capperi.
Pasta ripiena di carne e ricotta. Davvero buonissimi.
Anguilla, radicchio e brodo di pesce all’orzo.
Il piatto della serata.
L’anguilla viene spellata e cotta a bassa temperatura, la pelle bollita, essicata e poi fritta, radicchio condito con aceto di riso, polvere di carbone vegetale, brodo di pesce con miso di orzo.
Passion fruit.
Gelato vecchia Bologna, liquore brandy e caffè Villa Zarri.
La carota dolce.
Mousse di cioccolato bianco, arance, salsa ACE, torta di carote essicata, ciuffo di carota.
Sensation white.
Cioccolato bianco, cocco, squacquerone, meringa, litchi.
Gelato al pistacchio.
Piccola pasticceria.
Le bollicine della serata.
La mappa delle località in cui proporre una cucina ambiziosa è un’impresa eroica non contempla solo luoghi impervi o lontani dalle grandi città: ci sono infatti zone in cui, tradizionalmente, la clientela è quasi per nulla incline a confrontarsi con una ristorazione che esca dagli schemi dell’usuale. Come le vicine province di Monza e Como, anche quella di Lecco non si sottrae al cliché del cliente brianzolo, dotato certo di ottima disponibilità economica ma poco disposto a uscire dalla trimurti del gusto risotto-cotoletta-branzino al sale, e già per il fatto di volersi imporre con la forza del proprio pensiero culinario Fabrizio Ferrari, chef di Al Porticciolo 84, merita tutta la nostra ammirazione.
Siamo a Lecco, ma l’insegna non inganni: non è infatti sulle rive del Lario che sorge il locale, bensì quasi all’imbocco della Valsassina, verso le cime che resero celebri i Ragni cittadini. Non mente invece il numero, quell’84 che per coincidenza ritorna sulle sponde del Lago di Garda e che, in questo caso, va a ricordare l’anno di fondazione del locale. Più di trent’anni di attività per il Porticciolo, quasi dieci dei quali ornati da una stella Michelin che Fabrizio Ferrari sta dimostrando, non solo con la tenacia ma anche grazie a una cucina in netta crescita, di meritare fino in fondo.
La continuità col passato e con la gestione materna è assicurata dalla permanenza, all’interno di una carta interamente dedicata al pesce marino, di un piatto intramontabile come la grigliata di pesci e crostacei.
Quanto questa continuità sia una necessità imprenditoriale e quanto un’esigenza espressiva non ci è dato saperlo, ma è un dato di fatto come, dal nostro tavolo, abbiamo potuto osservare come fossimo noi gli unici clienti ad aver optato per il menu degustazione proposto mentre le (assai invitanti!) grigliate marciavano verso tutti gli altri tavoli vicini. È un peccato, perché Fabrizio Ferrari ha dimostrato, durante il nostro pranzo, di sapersi esprimere con piatti molto convincenti, figli di un approccio che guarda tanto alle esperienze fatte dallo chef in Nord Europa quanto e soprattutto all’Est del Giappone e della Corea, il tutto filtrato da un’immaginazione fervida ed estroversa.
Ecco perciò una sequenza di piatti in cui la regola dei tre ingredienti viene costantemente messa da parte, per dar luogo a costruzioni più impervie ma sempre bilanciate sotto il profilo dell’equilibrio gustativo. A volte, non suoni così paradossale l’affermazione, persino troppo centrate: in un paio di passaggi l’impressione di non voler spingere oltre l’universalmente comprensibile sembra una zavorra per piatti che, diversamente, volerebbero lontano sulle ali di felici intuizioni e la domanda torna anche qui: quanto ciò è libera espressione e quanto necessità di non spaventare una clientela tanto timorosa quanto preziosa?
Non sta a noi rispondere a tali domande. Ci limitiamo invece a premiare con una valutazione in crescita gli evidenti progressi di una cuoco molto interessante, che meriterebbe di avere più occasioni per esprimere il proprio talento.
Le entrate, fra cui spicca un “quasi sciàtt” di pesce di grande concentrazione.
Sgombro, purea di zucca, finocchio, mozzarella di bufala, pancetta croccante. Di tutti i piatti provati, il meno convincente. Solo l’intensità di uno sgombro eccellente e ben lavorato spicca in un insieme che, pur non stucchevole quanto la lettura suggerirebbe, sembra girare a vuoto.
Code di gambero, crema di sesamo, mandorle, olive verdi, insalate confit e limone salato: un piatto strepitoso per potenza di concezione. Qui, di fronte a simili contrasti, la capacità di tenere coeso l’insieme si dimostra invece la risorsa decisiva.
Malfatti con cozze Bouchot, brodo di verdure al siero di yogurt, salvia fritta, corallo di capasanta. Altro piatto assolutamente pregevole, gourmand e sottile allo stesso tempo.
Costoletta di rombo, olandese bianca, croccante di arachidi, funghi Portobello, scalogno in carpione, timo e salsa di vitello. Qui il coefficiente di difficoltà raggiunge valori insoliti. Il risultato è ancora una volta equilibratissimo e indubbiamente molto buono, ma una sovrabbondanza di elementi in così poco spazio non concede il tempo per afferrare tutte le tensioni interne.
Di ottimo livello i dolci, a partire dal predessert…
…per continuare con l’eccellente meringa con chantilly, maionese di mela verde, pastinaca e barbabietola…
…e con una barretta cioccolato e caramello con gelato di mais (dalle sorprendenti sfumature di tartufo bianco), crema alle nocciole e caffè, di insospettabile eleganza.
Mise en place.
Il lago.
Ecco un’altra piccola perla del panorama ristorativo italiano. Una di quelle di cui si parla poco, lontana dai riflettori della comunicazione.
Semplice, diretta, ma estremamente concreta, viva, appassionante. Con un servizio cortese, coinvolgente, attento anche alle necessità degli ospiti più giovani.
Non sono poi tantissimi gli ingredienti giusti per fare stare bene un cliente: cortesia, qualità costanza.
Vi avevamo già raccontato della Trattoria da Carmelo lo scorso inverno, ci siamo tornati più volte in questi scampoli di fine estate che in Sicilia, come spesso accade, regala giornate uniche di sole e piacevole calore.
Un locale letteralmente sul mare: la struttura è infatti ubicata sulla spiaggia di Marina di Ragusa ed è completamente aperta verso l’esterno. L’effetto relax, con la lieve brezza che viene dal mare, è un regalo da concedersi. Il sole inonda la sala, e sembra donare quel sapore in più a tutte le preparazioni.
Il protagonista assoluto è ovviamente il pesce: di qualità assoluta. Ma qui si sanno usare anche pentole e padelle: i magnifici ingredienti vengono valorizzati (e non penalizzati, come purtroppo spesso accade in molti locali, siciliani e non) da cotture attente.
I grandi classici del locale come il Cous cous, gli spaghetti alle vongole o quelli ai ricci, ci hanno stregati: intensi, gustosi, pieni.
Ma grandi soddisfazioni regala anche il pescato del giorno: fatevi guidare in una scelta intelligente, affidandovi ai consigli di sala e cucina.
Si può migliorare? Certo, come sempre.
Ad esempio si potrebbero abbinare con maggiore frequenza al fantastico pesce anche i vegetali, che in questa parte di Sicilia raggiungono vette assolute. Oppure si potrebbe allargare un po’ la scelta dalla cantina a qualche vino extra-Sicilia. Dettagli, che porterebbero la Trattoria da Carmelo tra i migliori indirizzi italiani nel suo genere.
Ma non possiamo che consigliarvi di venire in questo locale: portateci la famiglia, i figli, la fidanzata, gli amici, chi vi pare, resteranno tutti indistintamente entusiasti della vostra scelta e non smetteranno più di ringraziarvi.
Insalata di mare e fagiolini.
Marinati di mare.
Caponata di mare: eccezionale per gusto e morbidezza.
Cous cous.
Spaghetti alle vongole: vengono usati gli spaghetti Verrigni. Una delle migliori realizzazioni provate fino ad oggi.
Spaghetti ai ricci di mare: idem come sopra. Guardate voi stessi che ricci!
Pesce spada alla griglia: a prova di bimbo…
Dal pescato del giorno, una ricciola…
…o una fantastica spigola di un chilo e duecento grammi…
…cucinata al sale…
…da servire assieme a qualche gamberone grigliato.
Frittura: non si può finire un buon pasto a base di pesce senza. Questa è perfetta.
Ottimi anche i dessert.
Savarin con crema chantilly.
Crostata di riso soffiato, cioccolato e uva.
Cannolo di ricotta di bufala.
Sempre una sicurezza i vini di Arianna Occhipinti.
Eataly è l’esempio di alta imprenditorialità applicata. Oscar Farinetti, dopo la fortuna e il successo accumulato nella sua precedente esperienza, ha deciso di intraprendere una strada irta e difficoltosa con un obiettivo dichiarato: rendere il commercio del cibo di qualità un vero e proprio affare economico, sostenibile, ma sopratutto alla portata di molti.
E visti i successi collezionati nei punti vendita sino ad ora aperti in tutto il mondo, e la raffica di nuove aperture che lo attende, non possiamo che confermare questa affermazione.
Un grande imprenditore che, anche per passione, ha deciso di cavalcare un settore sicuramente a la pàge in questo momento. Riscuotendo non solo grandi successi economici ma anche curando, cercando di affiancarsi a loro, gli artigiani-produttori di questo incantato mondo fornendogli spesso la spinta propulsiva non solo per sopravvivere ma anche per crescere prosperosi e rigogliosi.
Eataly è il simbolo dell’alta qualità del cibo italiano nel mondo, al punto che il negozio sulla 5th avenue di Manhattan pare sia tra le cinque attrazioni più visitate della grande mela.
E di tutto ciò siamo molto orgogliosi, come italiani e come appassionati gourmet.
Peccato però che non sia tutto oro ciò che luccica: in occasione di una nostra visita nel negozio di Eataly di Bari, ci siamo imbattuti in un’esperienza che, purtroppo, si è ripetuta anche in passato a Milano e a Roma. Luci -molte- su un progetto che però presenta anche qualche ombra.
La nostra esperienza all’Osteria di Eataly Bari è stata esclusiva solo nel conto. 68 euro per i piatti che qui vedete fotografati possono essere molti ma anche pochi. Se però la qualità attesa non è rispettata, se le cotture sono approssimate, se le preparazioni risultano in alcuni casi troppo distanti da quanto è stato promesso in un luogo che dovrebbe esprimere grande qualità a fianco di numeri e quantità importanti allora è forse giunto il momento di raccontarlo.
Noi abbiamo sfruttato la possibilità di sedersi ai tavoli esterni, e di scegliere alla carta tra alcuni piatti dell’osteria e tra tutti i ristoranti tematici presenti nel complesso. Dal fornello, al ristorante bottega di pesce, all’Osteria appunto.
Abbastanza buoni i prodotti caseari, buone le patatine fritte, non unte, ben cotte e croccanti, appena sufficiente la frittura, che non dava l’impressione di essere stata preparata con materia prima fresca bensì congelata. Bocciate le bombette, troppo cotte e legnose, e il polipo, gommoso e scarico di gusto e sapore. Totalmente scentrato l’hamburger della Granda, con una carne di qualità non eccelsa che non ha sopravvissuto al secondo omicidio: una cottura davvero troppo, troppo lunga.
Siamo certi che sia stato solo un episodio infelice, il nostro. Conoscendo l’estro, la capacità e l’intelligenza del grande capo e la voglia spesso dimostrata di mettersi in discussione, siamo certi che raccoglierà queste nostre osservazioni come uno stimolo ed una serie utile di informazioni utili per migliorare.
Partendo, a dire il vero, da un servizio che invece è stato veloce, impeccabile, gentile e gioviale, seppur costituito in larga parte da giovani e giovanissimi che, con il sorriso sulle labbra, hanno sempre fatto sentire la loro presenza discreta.
Ripartiremmo da qui.
L’ingresso, con i quadri dei presidi di qualità della Puglia.
Un bel biglietto da visita.
Uno scorcio del piano terra.
La stupenda vista dal piano superiore, direttamente sul lungomare di Bari.
Un dettaglio della carta.
Le ottime patatine fritte.
La frittura, che non ci ha entusiasmato.
Buone la ricottina, le mozzarelle fiordilatte e la burratina.
Primo alt deciso: le bombette.
Secondo passo falso, il polipo.
Il colpo di grazia, l’Hamburger.