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Satricvm

Una piccola cattedrale nel deserto

Il luogo scelto da Max Cotilli per aprire il suo Satricvm, circa 10 anni fa, è davvero un punto nel mezzo del nulla sulla strada provinciale che collega Nettuno (sua città natale) a Latina. Nel 2010 dopo pluriennali esperienze tra blasonate insegne d’Inghilterra (tra cui l’Oranger di Kamel Benamar e il Waterside Inn di Michel Roux) e l’India dove è stato executive al Kempinski di Bombay, lo chef, insieme alla moglie Sonia Tomaselli, cordiale padrona di casa e sommelier conosciuta a Londra durante il suo lungo peregrinare, corona il suo percorso di crescita caratterizzato da dura e formativa gavetta.

Qui, infatti, a Le Ferriere, una frazione del capoluogo Latina il cui vecchio nome latino, Satricvm, funge da suggestivo appellativo al suo ristorante, lo chef, novello pioniere gastronomico dell’Agro Pontino, si stabilisce in una piccola villa deliziosamente arredata: una piacevolissima bomboniera.

Un personale blend di mare e campagna

L’applicazione delle proprie conoscenze, attraverso un convincente e personale blend di mare e campagna, riesce nell’intento di esaltare il territorio non disdegnando quell’attenzione alla forma che ne rifinisce la sostanza, arricchendola. E qui la sostanza non manca affatto: le preparazioni, dagli evocativi e sintetici nomi, sono efficace strumento al servizio dei singoli ingredienti scelti dallo chef.

Si spazia da una gustosa minestra estiva dove frutta e verdura si alternano, quasi a rincorrersi, in un piccolo caleidoscopio di fresche tonalità acri e dolci verso uno spaghetto Cavalier Cocco cotto alla perfezione e mantecato da un garum di interiora di pesce davvero intenso e ricco o, ancora, a un’anguilla con crema di whisky servita su una creme brûlé di rapa rossa, ottima per la nota dolce che correda il torbato e il grasso degli altri due elementi, ma rivedibile per la quantità, sproporzionata, che poi volge in stucchevolezza.

Riuscito anche la “transumanza“, dove la pecora viene presentata sotto forma di una piccola variazione che ne vede piuttosto felicemente esaltate le caratteristiche e, infine, l’omaggio al miele, il cui gelato risulta davvero notevole per concentrazione e fattura e va a chiudere un pasto presso un indirizzo che ha tracciato il solco dell’alta ristorazione della zona, difendendolo con grande vigore.

La Galleria Fotografica:

Tutto torna: come Luigi Taglienti nella sua Liguria

Un giorno d’estate del 2010. Esco dalla spiaggetta libera di Paraggi dopo un bel bagno nell’ancor popolato di pesci, splendido, tranquillo piccolo Golfo (andavo molte volte d’estate, adesso meno), c’è lì giusto a due passi il ristorante dell’Hotel Eight, butto un’occhiata sulla carta, mi fermo incuriosito, bastano poche parole risonanti area linguaggio-gusto (testo ricco o scarno, poche o tante le parole, non importa, da come sono scelte e accostate si capisce in buona misura come si mangerà, quello che passa per la lingua, sia prima che dopo, non può mentire).  

Mi informo. È arrivato per una consulenza stagionale, e sarà presente in loco per parte della settimana, uno chef molto giovane che non conosco, Luigi Taglienti. È già stellato a Cuneo, ma di lui non si parla molto. Decido di prenotare per la sera, ma non sceglierò alla carta. Come mi piace, …se sento il richiamo (alla Jack… London!): carta bianca!

Quello che arriva (ho conservato il testo e ricordo in buona misura i piatti) di portata in portata mi lascia sempre più sorpreso, ed è dir poco. Otto piatti: Gambero rosso di “Santa” con burratina e ciliegie. – Scampo di Oneglia, banana flambata, brina di Ace. – San Pietro, pesche, brodo di San Pietro con tè verde.  – Riso ai crostacei profumato al limone.  – Spaghetti, aragosta, champagne rosé. – Pescatrice in civet come in Piemonte. – Baccalà pensando a una Burridda di stoccafisso alla ligure. – Kandinsky di cioccolato bianco con ricci di mare

Non sto a raccontar tutta la tiritera, che tra l’altro ormai si sa è un po’ fasulla, tutta la tiritera dei gusti, fondamentali o meno, che non vorrei annoiare ancora una volta ogni altro palato mentale (la primogenitura del concetto di palato mentale è di Adrià, fine anni Novanta). Piuttosto, nel giovane Taglienti: tecnica già matura, originalità degli accostamenti e dei rimandi, idee, alcune delle quali riviste poi altrove. Cucina in libertà d’assoluto politeismo, il tratto allora e oggi più saliente. Tecnicamente e nel pensiero molto salda, e allo stesso tempo fuori dai massimi sistemi, dunque rinfrancante di fronte ai nuovi di epoca in epoca dettati ideologici volti a spiegare al cuoco quel che dovrebbe fare, nello specifico oggi …per la squadra, per il prossimo, per la comunità, per il paese, per il bene dell’umanità, …per il Pianeta! E dire che per tutto basterebbe …l’arte.

In ogni caso, ho poi seguito negli anni Taglienti nella sua crescita, in special modo a Milano. Lo tengo, assieme a non pochi amici, nel novero ristretto dei più bravi del Paese, dunque un valore che va anche al di là dei confini. Non solo, ho letto, non ricordo dove, di qualche gourmet (ma non sarebbe arrivato il momento, questa parola, di rottamarla?) che lo considera il cuoco più sottovalutato d’Italia. Le sedi dove ha esercitato la sua arte non sono state poche. Mi viene in mente il recente “Filosofia della casa” di Emanuele Coccia, dove verso la fine dice che ormai la nostra casa è dappertutto. Dappertutto, dunque, anche il ristorante. Fatto sta che con Taglienti parlandone abbiamo concluso che lui s’è portato avanti 🙂

Ma arriviamo alla casa attuale, lo Splendido di Portofino, dal 1901 a tutt’oggi uno degli hotel più belli d’Italia.

La cosa migliore è leggere i testi ufficiali:

Sono felice di accogliere nella mia cucina la brillante creatività dell’amico Luigi e onorato di poter annoverare alcune sue creazioni nel Menù de La Terrazza. Le sue radici liguri si rinnovano così a Portofino, terra meravigliosa che lega ulteriormente la nostra unione in cucinaCorrado Corti – Executive Chef Hotel Splendido

Allo Splendido ci venivo da bambino, ricordo l’odore dei fiori, dell’acqua salata della piscina sulla pelle e gli occhi accecati dal sole. Ci sono tornato più volte come semplice cliente deliziato dalla cucina di Corrado e affascinato dalla vista strepitosa. Tornare a vivere e lavorare nella mia terra, è stato un desiderio ricorrente negli ultimi anni. Portare la mia visione e la mia conoscenza allo Splendido, è un sogno che si avveraLuigi Taglienti – Project Chef de Cuisine Hotel Splendido.

Il menù degustazione di Luigi Taglienti a La Terrazza

Amuse-Bouches: Pinoli tostati e pestoFossile con mandorla e harissaCondigionMinestrone freddo alla genovese

Qui la territorialità (peraltro centrata in pieno) è solo la cornice, all’interno della quale vale la bellezza, la tipicità, la pulizia, la profondità dei sapori. Il ricordo più nitido è quello del condigion (antenato e parente povero ma felice del più ricco cappon magro), insalata tipica ligure qui nella versione ponentina, più magra (ancor più efficace il sapore pieno e senza sbavature che aveva).

Quintessenza al chinotto

Quanti ricordi ne ho. Agrume per eccellenza del savonese. Il più delle volte candito o, ahimè, sciroppato. Ma indimenticabile ad esempio l’uso provato in un dessert di Cracco, e in un pre-antipasto di Lopriore. O da ultimo in piatti del nostro a Milano al Lume. Inizio del pasto importante con un liquido, caldo o freddo, com’era nel classico. Qui splendida ouverture in stimolazione, il chinotto quintessenza non è sapore domestico.

Gamberi, ricci di mare e carpacci

I due gamberi viola di Santa Margherita semplicemente spaziali, erano stati pescati da non molto e portati su allo Splendido. Di codesti pregiatissimi, che vivono a grandi profondità, poche volte ne ho mangiati di così. Per loro più che mai valida la regola che il gambero è straordinario quando, rari casi qualità-freschezza, il gusto della testa (ci è stata servita da ultimo, a coronamento) è ancora migliore della pur eccellente polpa del corpo del crostaceo.

Antipasto in tre parti liberamente componibili:

a) il salpicon di gamberi;
b) la spuma di ricci, olio, arachidi (semplicemente una delizia);
c) carpacci (straniante, suona monco, e invece è doppio): fassona e tonnetto rosso, anche quest’ultimo di recentissima pesca.

Il mare-terra messo in contesto gioco, che i quattro elementi singoli si possono gustare da soli o in una dozzina di intriganti combinazioni diverse.

Fior fior di zucchine trombetta

La zucchina trombetta è ortaggio tipicamente ligure e dal gusto univocamente distinto (nel senso di bontà marcatamente inconfondibile) tra la gran famiglia delle cucurbitacee. Qui strati su strati, – la crema, – la zucchina brasata, – e il fiore che, ripieno di prescinsoa, focaccia e maggiorana, fa un gran trittico regione. Ma sotto la crema ancora celavasi il bergamotto. E come peana veg questo ottimo fior fiore ci basti.

Pasticcio di scampi e ravioli

Ancora scampi di pesca locale recente, vivi, super.

Fantastici raviolini di preboggion (la raccolta delle erbe spontanee in Liguria avviene da tempo immemorabile, e anche la si faceva con miei parenti tutti), erbe che virano su squisito tipico amarognolo. Il termine pasticcio che qui il nostro chef usa in libertà gagliarda è termine singolare per la modernità in cucina, per antifrasi ricordando nel caso nostro quello delle un po’ famigerate Lasagne alla Portofino (pesto e besciamella; pei ghiotti ghiotti), ruotato invece al presente in ridondante finezza, ossimoro che è dato dalla presenza della bella cremosità sotto i raviolini e dalla perfetta bisque concentrata dello scampo, sopra.

Ma lo stile della cena sta cambiando. E intanto sul mare a Levante è sorta una gran luna piena, che ci farà da incanto crescente fine al volgere della serata.

Peperonata di acciughe

Lo chef alla mattina era di ritorno da Spessore, dove s’era vista (lui, a differenza d’altri della masnada 🙂 , in rispettosa perfetta tenuta da brigade) un’insolita scena nell’accaparrarsi tra cuochi le materie prime, quelle che c’erano c’erano, disponibili per la cena. Orbene, lo chef ha duplicato idealmente la scena creando insolito ensemble di Peperonata alla ligure (ma, ci risiamo, invece della fogliolina di basilico, sopra a corona c’era la foglia di bieta delle torte) sormontata dal meglio dell’azzurro, l’acciuga. Perfetto. Succulenza.

Sì, ma dove stiamo andando? Che non basta, scavavi e, ehi non dichiarata nel testo, sotto la peperonata… una trippa (di vitello) alla ligure. Oibò. Dopo lo sconcerto, altra succulenza, e vieppiù positivamente caotica, in the mood of, succulenza dell’insieme. Allora non posso non pensare al fatto che qui, in tutt’altro contesto, l’intruso facesse bonariamente e sornionamente il verso all’invenzioni della neo-trattoria italiana, invenzioni per le quali qualche giornalista entusiasta (…magari dopo sue tante quaresime parastellate) è giunto a coniar la locuzione, chiarissima in sé, di “carrettate di gusto” (cit.): concetto e pratica da porre all’interno di una deriva anti-marchesiana come mai in tal maniera ve ne furono, e nel ritorno, pur mutato nell’ingrediente (now more hard), sì, nel ritorno all’affastello, al gaudioso ammucchio, già stigma della (invero pure grandiosa …quando non era stracotta) cucina italica d’antan.

Ma del trippa di vitello con abitator dell’acque ricordo un fastoso Trippa, pioppini, frutti di mare (fasolari, tartufi, vongole, cozze) di Gennaro Esposito del 2012 e un vertiginoso Trippa, caviale ecc. di Paolo Lopriore del 2008. Ecc. ecc. …E vogliamo allora parlare dello storico intruso della carta, con trippa, ma stavolta di merluzzo, salame (sì, salame) e baccalà, del Louis XV, a Montecarlo?

Dopo la “Peperonata” lo slittamento aumenta, un criterio dell’arte è giusto il salto, la sorpresa, il rischio della leggerezza (quella di pensiero, scanso equivoci), che è quello dell’ultima e più bella tra le “Lezioni americane” di Italo Calvino. Si va col vento qual mongolfiera (esperienza che ho fatto e che a tutti consiglio), padroni non della direzione ma quasi solo delle altezze, gestendo il fuoco e la zavorra.

La Luna ora da qui si vede anche riflessa sul mare. Ma al tavolo la luce, ben sufficiente per l’occhio, non lo è più per le foto.

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Colpo di teatro. Piomba in scena il sociale, no, il suo spettro (Hommelette for Hamlet di Carmelo, Bene!). È in veste di condivisione! Altro feticcio della neo-tradizione, ma qui reso eccessivo e decontestualizzato fin quasi a strappar le risa. Padellata, ma grande grande (…più di quelle che danno quegli altri bravi – non manzoniani – a Paraggi), una padellata d’un profluvio di frutti di mare (guarda un po’: fasolari, tartufi di mare, vongole; ma cozze no) tutti di qualità super, serviti per tutto il tavolo. Da bagnare, traendo da capiente pentola a parte, in faconda pulizia, con loro liquido di breve cottura, intriso di spicchi leggermente aciduli di pomodorino. Da lusso d’antan (ma anche odierno) di buona buona risto-trattoria sul mare. C’è voluto un po’ di tempo frutto a frutto (rigorosamente al meglio con le mani portando alla bocca, ancora all’antica) un po’ di tempo a quasi finirlo (tutto impossibile).

Una pausa condita dalla bellezza della terrazza e del panorama e vissuta in un tempo lento di straniamento felice
E tutto questo che già nella cena è stato, e quello che ancora verrà, è ciò che via via diventa pasto memorabile, ristoro che non scinde mente e corpo. Né tutto il compitino, materico o di concetto. Né le troppe, e non più a tempo, arie, benché di bravura.

Lepre, inchiostro di seppia

E siamo all’unicum, inedito capolavoro, piatto clou della cena. La Lepre Royale, maestro della quale da anni è il nostro Taglienti a Milano, e chi non l’avesse provata ora se ne dolga! Lepre solita perfetta cottura e composizione, ma, ma, ma …Lepre royale marina! Via il foie gras. La salsa (fulcro del piatto): al 50% il sangue della lepre e il nero di seppia, al 25% un jus di canocchie, al 25% un jus de crustacés. Salsa, come qui opportuno, assai meno gelatinosa, più light della royale classica. E tra la salsa qualche fungo galletto, e frutti di mare. Per questo scomodo ancora una volta l’emergente, nel colto e nel pop, maître à penser Emanuele Coccia: “In quanto essere metamorfico, ogni specie è una sorta di zoo o giardino botanico ambulante, una collezione, un patchwork di tratti che appartengono a un numero imprecisato di altre specie.”

Il piatto di Taglienti ne sembra l’illustrazione:

Ibisco, barbabietola, pompelmo al basilico

Dessert leggero, fresco, quello che ci vuole per finire. Idem l’Anguria al Camatti.

Per un cuoco avere una buona tecnica è la base di tutto, e si sa che già saper positivamente ben copiare è difficile e auspicabile. E però dice a ragione Sol Lewitt “banal ideas cannot be rescued by beautiful execution”, dunque importante per un bravo cuoco è arrivare ad avere uno stile proprio e non copiare. Ma avere una libertà anche sul piano stilistico (già lo dicevo a proposito di Taglienti, proprio su Passione Gourmet, molti anni fa) è un di più. Lo spiega Adrià nel suo volume sulla cucina di El Bulli fine anni Novanta, primi Duemila. Ci sarebbe solo da aggiungere, che un po’ nella cucina manca, una presa d’ironia …quella che avverte sempre del rovescio della medaglia (ancora Calvino).

P.S.: dell’eccellenza del luogo e della vista ho detto, non ho detto dell’eccellenza del servizio, lo dico adesso.

I nostri panettoni preferiti del 2020

Dal momento che non ci è stato possibile riunire il consueto (2019, 2018, 20172016) consesso critico attorno al lievitato totemico del Natale italiano, abbiamo deciso quest’anno di interrogarci individualmente e di stilare, ciascuno per sé, una sua personale classifica. Dal canto nostro, per una volta, abdichiamo volentieri alla tentazione di stabilire un podio unico (che tuttavia, complice la ricorrenza di alcuni, il lettore accorto potrà facilmente desumere da solo), riportandovi fedelmente le nostre più intime considerazioni intorno a un prodotto che sta facendo la fortuna dell’arte bianca nazionale: signori e signore, il panettone, il nostro panettone gourmet.

Alberto Cauzzi

Andrea Grignaffini

Orazio Vagnozzi

Davide Bertellini

Alessandro Pellegri

Erika Mantovan

Leonardo Casaleno

Leila Salimbeni

Giovanni Gagliardi

Adriana Blanc

Francesco Zito

Gianpietro Miolato

Renato Bosco “Albirè” grue di cacao e albicocche: panettone che è espressione massima in chiave dolce della ricerca e delle abilità del suo creatore. Lievitazione naturale con l’inconfondibile PastaMadreViva, alveolatura perfetta, dolcezza dell’albicocca candita in equilibrio con le note amaricanti del cacao in granella e morbidezza dell’impasto semplicemente irresistibile. Da mangiare tutto l’anno.

Giacomo Bullo

Claudio Persichella

Antonio Sgobba 

Da qualche tempo anche al Sud si possono trovare eccellenti versioni del panettone, come quello con arance del Gargano e vaniglia della Masseria Torre Coccaro, ideato e realizzato dal talentuoso pastry chef Giuseppe Palmisano. Molto soffice ed alveolato, merito di una lunga lievitazione (62 ore) ha un profumo delicato; le arance candite caratterizzano il boccone andando a stemperare la componente zuccherina.

Luca & Greta

Scegliamo Italo Vezzoli per il gusto pieno e aromatico dell’impasto, leggero ma molto gustoso e il classico, con canditi e uvetta, di Vincenzo Tiri, per la struttura perfetta e la qualità dei materiali utilizzati. In entrambi i casi ogni boccone sprigiona il gusto verace del dolce milanese, con tutti gli ingredienti in perfetta armonia e un impasto soffice e scioglievole, senza che il burro sia prevaricante o fastidioso o l’impasto allappante.

Silvia Izzi 

Carlo Nicolò  

Errico Recanati: lo chef del ristorante Andreina di Loreto firma anche  quest’anno uno dei dolci natalizi per eccellenza, sfornando un panettone  burro affumicato e caramello salato perfettamente in linea con la sua  filosofia di cucina improntata sugli intriganti sapori e sentori di fumo e fiamme che esalano dalle sue braci.

Carissimi lettori,

siamo tutti reduci da un momento storico che ha imposto grandi cambiamenti, cambiamenti che, nella maggior parte dei casi, si sono rifranti con grande incisività anche nel panorama della ristorazione italiana.

Molti cuochi, molto intelligentemente, hanno colto l’inattività imposta dalla recente clausura come un momento di riflessione e di autocritica che ha avuto come effetto, lo stiamo riscontrando in questi ultimi mesi, un ulteriore innalzamento del livello della proposta.

In Italia si mangia sempre meglio, oggi ancora meglio di prima: una situazione, questa, senza precedenti e così feconda da determinare un importante cambiamento di paradigma, anche da parte nostra.

Passione Gourmet si è imposta, in quella porzione editoriale di mondo che si chiama “critica enogastronomica”, come la più critica e la più severa del settore: un rigore, questo, che abbiamo sposato sin dagli albori e perseguito anche attraverso inamovibili limiti interni, come quello di rinunciare al mezzo punto, cui abbiamo resistito per più di dieci anni. Oggi, tuttavia, la situazione è così cambiata, e in positivo, da non permetterci più di abdicare a questa possibilità, pena, la mancanza dell’oggettività di giudizio.

Per questa ragione, ma solo ai vertici delle nostre esperienze, ovvero a partire dal 17 e solo in rarissimi casi, ben ponderati, ci avvarremo dunque di questa possibilità, da leggersi come la volontà di stratificare e di rispondere più oggettivamente possibile di tutte le sfumature che abitano – e che animano – questa nostra meravigliosa cultura culinaria italiana contemporanea.

Il mezzo punto sarà più difficile acquisirlo ma sarà anche facile perderlo, ciò consentirà una maggiore dinamicità ed elasticità, così come oggi è espresso dalla cucina contemporanea, sempre in costante e continuo movimento.

Alberto Cauzzi e tutto il team di Passione Gourmet

Una nuova organizzazione

Il realismo utilizzato da Stendhal nel tratteggiare la rigida contrapposizione tra classi sociali francesi ci è servito a inquadrare un problema che, ve lo confessiamo, ci assillava da tempo…

Stiamo parlando del colore attribuito alle nostre votazioni: una classificazione che mutuammo inizialmente dai celebri Gault&Millau che utilizzavano, dalla loro, il rosso e il blu e che, a dirvela tutta, ci è sempre stata stretta sembrandoci banalizzante quando non, addirittura, penalizzante. Difficile, infatti, archiviare un ristorante come tradizionale o innovativo: quasi mai, anzi, un ristorante a vocazione neoclassica s’inserisce nitidamente nell’una o nell’altra categoria.

Eppure, riflettendo e visitando, e visitando e riflettendo, ci siamo accorti negli anni che le top table dello Stivale si lasciano incasellare meglio di quanto non si creda prestandosi ad aderire a questa contrapposizione che appare, forse oggi più che mai, attuale e coerente: in una parola, pertinente.

Per chi scrive, ci siamo chiesti, Passione Gourmet? Per il pubblico in primis ma, sopratutto, per gli appassionati gourmet, appunto: per loro, inizialmente decidemmo di offrire questo servizio, questa bussola, nel pluralismo espresso dalla cucina italiana e tanto più nel suo presente, determinato da un moto interno di straordinario movimento.

Del resto, l’abbiamo detto spesso, e spesso l’abbiamo sentito dire, non si è mai mangiato così bene, in Italia, come in questo momento storico e, complice la buona risposta della clientela, gli chef vivono una fase di sana competizione, che fa salire la proposta generale a livelli vertiginosi. Una proposta altissima, a ben guardarci, sia per chi cerca nuove emozioni sia per chi necessita di solide certezze.

Così, in seno a questo contesto sociologico, abbiamo deciso di valorizzare, ancor più rispetto al passato, le differenze tra rosso e oro, dalla cui distinzione sono scaturite due classifiche distinte, che troverete nella nostra guida QUI. 

Il numero dei fuori-classe: 17!

Il rosso e l’oro, per la prima volta, prendono strade differenti, due binari che corrono parallelamente col rispettivo gradiente espresso sempre in ventesimi, utile a segmentare scelte e classificazioni ricordandoci che, per noi, la cucina di valore, quella veramente autoriale in grado di scaturire emozioni autentiche, comincia con una cifra dispari e pure un po’ controversa: il 17. Dal 17 in poi, sono “solo” sfumature, certo importanti, ma sfumature, perché è dal 17, il nostro 17, che trovano coronamento il talento, la classe, la vivacità di pensiero e d’azione di uno chef e la sua personalità si materializza nel numero dei fuori-classe: il 17, appunto.

E poi c’è il colore

Il rosso purpureo, simbolo di un’avanguardia più o meno audace: tensione verso la scoperta, lampo del nuovo, avventura. L’oro, invece, è il classico, il neo-classico, la tradizione, anche là dove rimaneggiata o attualizzata, magari, con un pizzico di creatività ma sempre nel segno di una classicità che non perde mai di vista le proprie radici.

E’ così che, per dare pari dignità alle due strade, abbiamo deciso di separarne gli spazi, finanche le frontiere, consci anche del fatto che molti ristoranti si sono ormai adagiati sul solco dell’avanguardia o della tradizione, appunto, rendendo questa dicotomia quantomai evidente.

Ma un ristorante oro, si potrebbe obiettare, non è anche un po’ rosso, e viceversa? Certo che sì! Ma è sempre un po’ più rosso o un po’ più oro, ed è su questa prevalenza, che non ha la pretesa di essere tautologica, che Passione Gourmet ha deciso di riorganizzare le proprie fila.

Ma quindi ciò significa che un ristorante oro avrà più facilmente una valutazione alta rispetto a un rosso? Nient’affatto: sono le scale, i metri valutativi a cambiare, non certo il valore. E benché gli avanguardisti, per noi, saranno sempre più interessanti – perché là dove c’è avanguardia ci sono mutamento, evoluzione, crescita – e perché rappresentano, soprattutto, quello che sarà il classico, o il neo-classico, di domani, va pur detto che se esistono ben quattro 19/20 rosso non c’è nessun 19/20 oro in Italia. Il motivo? Negli anni abbiamo capito che la cucina classica, al suo massimo livello, rappresenta un ideale e, come tale, difficilmente può essere raggiunto. Ma mai dire mai! Perchè anche la lettura del classico, la tradizione, ha le sue punte estreme.

Le nostre scale, i nostri parametri di giudizio, sono quindi molto differenti, e si sono formati in circa dieci anni di lavoro collettivo e capillare, che ci hanno permesso di capire che seppur in ambito classico la scalata sia più semplice, questa si faccia assai più difficile, se non impossibile, per quanto riguarda il raggiungimento della vetta. Un 18 oro ne ha fatta di strada insomma. Quanto all’avanguardia, essa è prima di tutto un percorso di crescita interiore che, per quanto accidentato, consente più naturalmente, e forse più velocemente, di raggiungere il vertice.

Per questa, e per tutte le altre differenze espresse in questa duplice classificazione, ci siamo convinti che mai come oggi le due realtà debbano esser separate, per cui non si dirà più 18 ma 18 rosso o 18 oro: così verranno tratteggiate le diverse anime della cucina e, con esse, la sua più profonda identità.

Andrea Grignaffini e Alberto Cauzzi

Un grande oro – Maison Troisgros
Un grande Rosso – Noma