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La capra

Una dietrologia

Chissà se, conoscendone meglio la storia e le mille curiosità (e virtù) che la circondano, Vittorio Sgarbi avrebbe ancora l’ardire di usare, come grido di battaglia contro l’umanità di incerto talento, l’epiteto “Capra!”.

Capra che ha accompagnato la storia dell’uomo sin dai primordi. Fedele compagna di transumanza prima che questi diventasse sapiens e stanziale, grazie alla sua elevata capacità di adattarsi, anche nelle situazioni più difficili, andando a brucare erbe e germogli in zone spesso inaccessibili ai più. Prime tracce della sua domesticazione si hanno verso l’8000 a.C nei pressi della città di Zagos, a scavalco tra gli attuali Iraq e Iran. L’arrivo in Europa tre millenni a seguire, con una successiva diffusione nei vari continenti. Nella mitologia greca si dice che Zeus venne allattato da Amaltea, una capretta cui poi venne dedicata una stella: dalle sue corna prese corpo il mito della cornucopia, o corno dell’abbondanza, tanto che leggenda recita come sognare capre sia indice di futura ricchezza. Ben nota nella civiltà romana, già Columella aveva osservato la sua capacità di ambientarsi bene nei pascoli di montagna inaccessibili ai più placidi ovini.

Per alcuni il suo nome deriva da “carpere”, ovvero brucare l’erba. Una leggenda africana racconta come, nel 300 d.C., il caffè venne scoperto casualmente da un pastore di capre che si insospettì vedendo come alcuni capi, dopo aver fatto scorpacciata di bacche rosse e verdi di alcuni arbusti, divennero più eccitate e vivaci del solito. Nei secoli bui del Medioevo furono demonizzate, forse per la loro dotazione di corna e zoccoli, ma anche per il fatto che, in determinati contesti, erano perigliose per il buon equilibrio forestale tanto che, nel 1762, un editto serenissimo proibiva in certi contesti di tenere capre, pena il loro abbattimento. Eppure, nella civiltà rurale di montagna, erano considerate una sorta di vacca dei poveri, con pregi tutti da scoprire.

Il latte

Innanzitutto, in rapporto al latte prodotto, la loro alimentazione era meno dispendiosa delle cugine muggenti. Si diceva che la capra era una “falce che andava a mietere da sola” e di lei non si buttava via niente. Una specie di maiale con le corna. La sua risorsa principale il latte, e quindi i formaggi, oltre che la carne, ma pure la lana (di cui i prodotti più ricercati sono il cashmere o l’angora) e anche la pelle, utile ad esempio per confezionare zampogne o tamburelli, oltre che per qualche capo di vestiario di frontiera. A partire dagli anni Settanta vi è stato un ritorno di attenzione sul suo allevamento. Se ben governata è un ottimo guardiano dell’equilibrio di aree altrimenti destinate all’abbandono. Integra bene le altre forme di allevamento, ovino e bovino. La sua presenza è soprattutto legata alle alpi occidentali e alla fascia appenninica meridionale, oltre che alle isole. Senza scomodare lo svezzamento di Zeus, il latte di capra è sempre stato una sorta di balia di soccorso, al pari del latte di asina, per le puerpere non in grado di allettare i loro neonati, con delle caratteristiche biochimiche molto simili al latte umano. Ricco di minerali e vitamine, povero di sodio, altamente digeribile. Formaggi piccolo ma indispensabile volano economico per molte realtà, con prodotti giunti sino a noi con un pedigree storico di tutto rispetto come, ad esempio, la piemontese Robiola di Roccaverano, nota sin dai romani che la chiamavano “rubeola” per il suo aspetto rosato, valorizzata al meglio quale intrigante mantecatura del risotto.

In Lombardia ecco il blu di capra, versione alternativa del gorgonzola vaccino. In Val Camonica la capra bionda dell’Adamello ci regala il fatulì, fatto solo in alpeggio, affumicato con bacche di ginepro. Caprini e caciotte, puri o misti a latte ovino e bovino, si trovano lungo tutta la dorsale appenninica, per arrivare al mursulupu della Calabria grecanica, dono della capra dell’Aspromonte, letteralmente “boccone del lupo” e confezionato all’interno di stampi di legno di gelso con incisioni antropomorfe, compagno di golose frittate. E che dire dei padduni, dal nome che rinvia alla forma sferica, fatti con il latte della capra girgentana, in Sicilia, arricchiti con pepe nero e peperoncino vengono utilizzati anche in pasticceria. Non manca la versione caprina dello yogurt, alias su gioddu, una specificità legata alla particolare presenza di fermenti autoctoni che si trovano solo in Sardegna.

La carne

Come detto di questa abile e generosa scalatrice di monti e valli, non si è buttato mai via nulla, con una differenza. Se la produzione latteo-casearia è sempre stata il fulcro del suo utilizzo alimentare, per quella relativa alla carne il discorso è diverso. Nascere capro (tecnicamente detto anche “becco”) non assicura sempre una tranquilla pace terrena: se alcuni esemplari vengono selezionati per la prosecuzione della specie, per altri invece il destino è diverso: le carni del maschio castrato non sono gradevoli come quelle capresche e, quindi, i capretti giovani sono tradizionalmente protagonisti delle tavole pasquali, in una sorta di sacrificio che ne celebri al meglio proprietà che li rendono più apprezzati dei giovani agnelli. Nella tradizione la capra immolava le sue carni alla fine della carriera, quando oramai non produceva più latte e quindi formaggio. Valida sia come insaccato che in altre preparazioni. Sola, o in buona compagnia, in jam session di preparazioni miste a carne ovina e suina.

In Sardegna i pastori celebravano il Natale con sa trattalia, interiora lavorate con pane, lardo suino e avvolte nel suo intestino, poi passate allo spiedo. A Novara di Sicilia, nel messinese, troviamo la crapa o funnu: un autentico rito in cui le carni vengono lavorate pazientemente entro un forno rivestito di gesso. Sbarcati nel continente ecco la capra sotterrata, una versione calabra del porceddu sardo, come la capra alla vutana, uno stracotto con verdure, così pure i maccheroni (rigorosamente arricciati a mano lungo piccoli legni) al sugo di capra di Bova, altra golosità della Calabria grecanica. Nel salernitano troviamo la braciola di capra, involtimi farciti di aromi e pecorino, spadellati con pomodoro. Tra Gargano e Abruzzo uno street food ante litteram, la muscisca o micischia, a seconda del luogo di origine: strisce di carne essiccata, insaporita di aromi vari, golosa compagna di viaggio dei pastori in transumanza.

Sugli Appennini centrali si può incrociare la testina gratinata con olio e mollica di pane, cotta al forno mentre, poi, con vista sulle Alpi lombarde, si aprono scenari diversi. Ad esempio le slinzeghe, una concia di tagli magri messi a stagionare con cui si può farcire, affettati sottilmente, il tomino del boscaiolo: una sorta di panino di cacio passato al forno. Lungo tutta la fascia pedemontana le varianti del capretto, al forno o in padella, sono svariate, ma la star del luogo è il violino di capra, definizione nata da una felice intuizione del poeta dialettale Giovanni Bertacchi: una storia di lunga tradizione che, negli ultimi anni, è uscita dall’ambito locale per diventare ricercata golosità. Nata in Valle di Spluga è il simbolo della Valchiavenna, anche se preparazioni simili si trovano in altre valli vicine, piemontesi e svizzere. In pratica si selezionano spalle e cosce che vengono sottoposte ad attenta marinatura e lavorazione con successiva stagionatura entro i crotti, sorta di grotte naturali di cui sono ricche le valli. Ne derivano pezzature dai due ai tre chili che, poi, generalmente durante il periodo natalizio fanno la festa dei commensali. Si imbracciano a mò di violino e si affettano pazientemente con una lama affilata che ricorda l’archetto dello strumento. Tradizione prevede che sia tutta “l’orchestra conviviale” a darne degna celebrazione. Infinite le varianti, molte di stretta osservanza familiare, compresa una leggera affumicatura con pino e alloro. 

*In copertina, Solitude, di Marc Chagall 1933

Abbiamo raccolto qui una carrellata di piatti tra agnelli e pecore che hanno cambiato il modo di vedere il mondo e a cui non possiamo fare a meno di tornare col pensiero, oggi che, almeno idealmente, siamo tutti davanti alle braci: quelle delle nostre fantasie gourmet.

Buona Pasquetta!

Rivisitazioni in un sol boccone

La Madia di Michele Vallotti a Brione

C’è più di una citazione in questo piatto che, da solo, racchiude tutta l’identità personale e professionale di uno chef formatosi accanto alla regina del foraging, Valeria Margherita Mosca.

Reale di Niko Romito, a Castello di Sangro

Una delle memorabili “scarpette” di Niko Romito: una deflagrazione bucolico-pastorale molto erudita.

Magorabin di Marcello Trentini e Simona Beltrami a Torino 

Splendido per cottura e abbinamenti: tre ingredienti per un piatto da fondo scala.

Nerua, di Josean Alija, Bilbao

Un cuoco carismatico, dall’energia vibrante, che ha riassunto la sua idea di Nuova Cucina Basca nel termine muina ovvero nucleo, essenza, origine delle cose: come in questo piatto quintessenziale e profondissimo.

I primi piatti

Glam di Donato Ascani, a Venezia

Il composito risotto perfettamente mantecato con guancetta laccata, di uno chef molto ispirato.

Under di Nicolai Ellitsgaard nella baia di Lindesnes, Norvegia

L’eccezionale grano cotto a mo’ di risotto con spuma al latte di capra, ostrica e fondo di agnello, a riprodurre il sapore di un agnello presalè francese.

VI.VA. di Viviana Varese a Eataly Milano

Il soffritto napoletano di agnello con una salsa aioli: decisamente goloso.

Di braci e d’altre storie

Boragò, Rodolfo Guzman a Santiago del Cile (coming soon…)

L’agnello, feticcio tradizionale del mondo sudamericano, cotto per nove ore su brace di legno Tepù. Il miglior agnello forse mai assaggiato, per texture scioglievole delle carni e la cotenna, incredibilmente croccante.

Fondi, succhi e jus

Uliassi di Mauro Uliassi, Senigallia

La vertiginosa tartare di colombaccio col sugo d’agnello: un trompe l’oeuil di sensazioni agresti e rurali.

Il grano di Pepe di Rino Duca a Ravarino

Lo scampo scozzese con battuto di pecora Cornigliese cruda servita su una vaporosa riduzione di stout.

Mishiguene, Tomàs Kalika a Buenos Aires (coming soon)

Il maestoso cavolfiore arrostito intero al forno accompagnato (quasi sommerso) da un ricco fondo di agnello e labneh.

Enigma, Albert Adrià a Barcellona

La fragola alla brace con agnello al curry e schiuma di latte rappresenta uno dei picchi della verticalità gustativa raggiunta da Albert Adrià da Enigma.

Rustikal di Federico Colombini a Bergamo

Il collo di agnello con un fondo di latticello di capra, gioca concettualmente con l’alimentazione dell’animale, trasformando in “agnello” anche chi l’agnello lo mangia. Metamorfico.

I secondi piatti

Uliassi di Mauro Uliassi, Senigallia

L’indimenticata “fuori di testa d’agnello” in più versioni: una reminiscenza dei pranzi in osteria di Mauro Uliassi col papà, dopo la caccia.

El Coq di Lorenzo Cogo, a Vicenza

L’elaborata architettura di consistenze e sapori di Lorenzo Cogo, per cui ogni piatto è una storia, con una sintassi e una semantica ben definite: in questo una storia di terra e sottobosco.

Reale di Niko Romito, a Castello di Sangro

Uno straordinario cultore della materia, al servizio di una delle migliori costine mai addentate, di cui tartufo e maionese di patate  un compendio quasi innecessario. Quasi.

Schloss Schauenstein di Andreas Caminada a Fürstenau

La bellezza dei piatti di Caminada è seconda solo al loro equilibrio, delicatissimo come in questo caso: un agnello in punta di piedi, di virginale tenerezza.

Enrico Bartolini a Milano

Da applausi l’agnello lucano di Enrico Bartolini, mirabile per punto di frollatura e marinatura alla camomilla, tali da obnubilare perfino il rognone, servito a parte. 

St. Hubertus di Norbert Niederkofler a San Cassiano 

In un unico piatto la quintessenza di un intero territorio, erbe comprese, da brucare e benedire.

Contraste di Matias Perdomo a Milano

Un goloso, rifinito, laccato Agnello dei Pirenei, fondente e profumato.

Under di Nicolai Ellitsgaard nella baia di Lindesnes, Norvegia

Brutalismo ed eleganza in un sol colpo in questo carré d’agnello del nord Europa quasi “nature”, servito con alghe e cetrioli fermentati.

Dina di Alberto Gipponi a Gussago

L’agnello nella bocca del lupo: agnello marinato nella Melissa (la bocca di lupo) servito in un cartoccio di pane carasau, maionese alla curcuma, cumino, coriandolo, zenzero, crema yogurt e menta, cetrioli acidi, germogli di abete e genziana.

Spiedi, spiedini, arrosticini & Co.

28 Posti di Marco Ambrosino a Milano

Solo la temperatura a inficiare quest’audace esecuzione dove non mancano né tecnica né palato: quelli di Marco Ambrosino che, ibridando fine dining e bistronomia ha trovato, tramite fermentazioni ed erbe spontanee, una sua personalissima strada espressiva.

Altra versione dello spiedo di anello da parte di questo imprevedibile, demiurgico chef procidano.

Frattaglie…

L’Argine a Venco di Vittoria Klugmann a Dolegna del Collio 

Un piatto sublime – e subliminale – sia nelle cromature che nel bilanciamento e del sapore e delle consistenze. Ennesima conferma da parte di una chef dalla mano felicissima, in stato di grazia.

Pecora

Autem by Luca Natalini a Langhirano

Una grande versione di pecora Cornigliese, in limine tra austerità e generosità. Questa è, del resto, la cifra stilistica, ad alto tasso di gusto, di Luca Natalini.

La Madia di Michele Vallotti a Brione

Un tributo al magnifico esemplare di Pecora Gigante Bergamasca, realizzato da uno chef che non ha alcuna paura di osare.

Il Piastrino di Riccardo Agostini a Pennabilli 

Una grande, piccola tavola di campagna che regala piatti forieri di grande eleganza, su un plafond in cui s’innesta un amore profondo per il territorio e il suo vernacolo.

Maison Bras – Le Suquet a Laguiole

L’altissima scuola francese resa più vivida e più brillante che mai, anche in questo magnifico esemplare alla brace.

Su Carduleo di Roberto Serra ad Abbasanta

Questo talentuoso chef di una trattoria del Barigadu oristanese si fa ricordare per la delicatezza con cui tratta le carni, e le combina, come questa, di pecora marinata, more selvatiche e mandorle.

Storia di una risemantizzazione

Complice la mitezza del carattere, quella ovina fu tra le prime specie animali a “beneficiare” dell’attenzione dell’uomo e, come tale, a entrare nelle grazie del suo immaginario mistico, simbolico e rituale. Tra tutti gli animali esistenti e, complice la sua triplice vocazione – trina, direbbe qualcuno – la mansueta pecora è stata ecumenicamente “consacrata” tanto che, a differenza di altre specie (pensiamo ai bovini, alle capre e ai suini) è stata allevata a tutte le latitudini, presso tutti i popoli e presso tutte le religioni.

Ebbene, è precisamente a proposito di religioni che occorre fare, all’indomani di questa straniante Pasqua 2020, una premessa. Come già detto per l’uovo e per il carciofo, la pecora e precisamente l’agnello compare nei costumi alimentari rituali della Pasqua cristiana come diretta adozione dalla Pasqua ebraica che, dalla sua, è abitata dal sacrificio dell’agnello quale topos ricorrente dell’Antico Testamento. Quanto al Nuovo Testamento, invece, dell’agnello non v’è traccia se non come testimone di un passaggio di prospettiva: Giovanni Battista accoglie Gesù apostrofandolo “l’Agnello di Dio” e proprio in questa frase si cela la traslitterazione del destino sacrificale dall’agnello, appunto, al figlio di Dio. 

Quello che, dunque, campeggia sulle nostre tavole durante il pranzo pasquale è un costume rituale adottivo che nulla ha a che fare con la ricorrenza cristiana e di cui costituisce, semmai, una semantizzazione posteriore, avvenuta solo in seno al contesto di agiatezza del dopoguerra. Quanto a lei, la pecora comune, essa è l’esito di un paziente lavoro di selezione della razza operato dall’uomo che, nel corso della sua stessa evoluzione, ne ha ricavato un animale che fosse lui utile ad almeno tre scopi – latte, carne e lana, o pelle – al punto che oggi ci troviamo di fronte a quasi 440 incroci realizzati solo nell’arco degli ultimi quattro secoli. Tra queste, la razza più diffusa è la Suffolk che, dall’Inghilterra, si trova oggi in circa 40 paesi seguita dalla spagnola Merino e dall’olandese Texel. Se si considerano, tuttavia, i ceppi derivati dall’originaria Merino allora questa passa al primo posto di questo podio ideale.

Eccovi allora un piccolo atlante che, speriamo, possa esservi utile per comprendere il composito mosaico italiano delle razze ovine da carne, con un jolly.

Appenninica

Da esemplari autoctoni presenti sulla dorsale appenninica italiana deriva questa razza, prevalentemente da carne, adatta a qualsiasi ambiente, anche a quelli più impervi. Per questo è stata adottata in tutto l’arco appenninico centro-meridionale dove, oltre che con gli agnellini, contribuisce alle cause dell’uomo attraverso il latte il cui grasso – all’8% – la consacra alla produzione del Pecorino Toscano, così come alla lana da materasso di cui si ricavano circa 2,5 kg dagli arieti e 1,5 kg dalle pecore.

Barbaresca

Dall’incrocio della razza siciliana Pinzirita con arieti di razza nordafricana Barberin (del versante nord Africa) a coda grassa, la Barbaresca oggi ha casa nell’entroterra siciliano meridionale, in provincia di Caltanissetta, e in altre zone collinari dell’Italia meridionale. La particolare attitudine alla carne le è attribuita non tanto dal peso degli agnelli quanto dall’elevata percentuale di parti gemellari, fino al 40%. Il suo latte è alla base della produzione del Pecorino Siciliano DOP.

Cornigliese

Antica razza creata dall’incrocio con la spagnola Merino all’epoca dei Borboni per aumentarne le potenzialità, la Cornigliese abita oggi i pendii delle zone montane delle province di Reggio Emilia, Modena, Ravenna, Forlì Cesena, Bologna e si spinge fino alle pianure ferraresi, benché abbia come territorio di riferimento il Parco Regionale delle Valli del Cedra (PR). La sua natura nomade le conferisce carni particolarmente magre e dall’aroma caratteristico; assieme alla Gigante Bergamasca è una delle poche, in Italia, a essere consumata cruda. 

Fabrianese

Una razza sintetica derivata dall’incrocio e successivo meticciamento realizzato negli anni ’60 tra arieti di razza Bergamasca e pecore appartenenti alla popolazione dell’Appennino marchigiano, in particolare nelle provincie di Ancona e Macerata. Oggi la si trova tra le Marche e l’Umbria dov’è utilizzata anche per la produzione di latte atto a divenire Casciotta di Urbino e Formaggio di Fossa di Sogliano.

Garfagnina bianca

Tra le razze ovine di interesse locale la Garfagnana bianca vanta origini antichissime: ne parlava già Columella nel De re rustica. Allevata quasi esclusivamente nella Garfagnana, nella Valle del Serchio e nella Val di Magra (Lunigiana e zona di Pontremoli) e, sporadicamente, in Abruzzo, questa razza si vota straordinariamente anche alla produzione di latte, dal quale si producono sia formaggi stagionati che ricotte.

Gentile di Puglia

Ottenuta dagli incroci effettuati già sotto Federico II di Svevia tra pecore di razza locale Carfagna e arieti Merino provenienti dalla Spagna, benché legata alla provincia di Foggia la Gentile di Puglia si trova oggi anche in Campania, in Molise, in Abruzzo, in Basilicata e in Calabria, dove si è diffusa per via della pregevole lana e per le carni saporite, dalla grana fine e ben bilanciate nella componente lipidica. 

Gigante Bergamasca

Di probabile, remota provenienza sudanica (famiglia a orecchie pendenti e profilo montonino), etnicamente è da collocarsi nel gruppo delle razze alpine alle quali si avvicina per caratteri morfologici e attitudinali pur distinguendosi da esse principalmente per la caratteristica taglia, da cui mutua il nome. Originaria di Clusone in Val Seriana è oggi diffusa in tutte le Prealpi bergamasche nelle province di Sondrio, Como e Brescia e, benché sia proverbialmente considerata la migliore razza italiana per la produzione di carne, cui si vota grazia a un’etologia molto coerente con la sua anatomia – è sempre in movimento e si nutre esclusivamente di erbe spontanee – non è affatto conosciuta al di fuori della sua zona d’origine. È comunque sopraffina: tanto da farsi apprezzare anche cruda oppure solo dopo lentissime, sapienti cotture.

Merinizzata italiana

Dalla popolazione poli-meticcia ottenuta incrociando Gentile di Puglia e Sopravissana con tipi genetici della Merino di derivazione europea, la Merinizzata italiana abbraccia una grande famiglia dell’Italia centro-meridionale protagonista negli ultimi tempi di una selezione genetica ulteriore volta a migliorarne l’attitudine alla produzione sia di carne che di lana.

Laticauda

Da latte e da carne, questa razza ha avuto origine dall’incrocio tra la Barbaresca e l’Appenninica locale. Un tempo allevata nelle sole provincie di Avellino e Benevento, vista la sua predisposizione alla produzione della carne è andata diffondendosi in altre regioni benché la si consideri specie-specifica delle province di Avellino, Caserta, Benevento e Matera. Dal suo latte si ricavano anche molti dei Pecorini locali. 

Pomarancina

Tra le razze ovine di interesse locale, l’autoctona di Pomarance, in provincia di Pisa, è attualmente allevata, oltre che nel suo comune di origine, anche a Volterra e a Montecatini. Benché la sua attitudine secondaria sarebbe il latte la sua mungitura avviene assai di rado giacché se ne privilegia, e da tempo immemore, la carne. Si tratta infatti di un esemplare rustico allevato in ambienti di alta collina, allo stato brado e semi-brado per tutto l’anno e con modeste integrazioni di fieno, solo in caso di necessità.

Sopravissana

Razza derivata dagli ovini di Visso, in provincia di Macerata, sui monti sibillini, il primo esemplare fu ottenuto nella seconda metà del XVIII secolo grazie dall’incrocio con arieti Merino spagnoli, francesi di Rambuillet e, più tardi, coi Gentili di Puglia. La Sopravissana è oggi particolarmente diffusa in Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo e Toscana. Madre del romanesco abbacchio è anche responsabile della produzione del celebre Pecorino di Picinisco.

Pres-sales du Mont-Saint-Michel

Prodotto tutelato nell’Unione Europea, la carne che fruisce della denominazione d’origine Prés-salés du Mont-Saint-Michel proviene da agnelli di età inferiore ai 12 mesi le cui caratteristiche sono conferite dal pascolo marittimo e ottenuti da montoni riproduttori di razza Suffolk, Roussin, Rouge de l’Ouest, Vendéen, Cotentin, Avranchin, Charollais o da maschi nati da madri di allevamenti praticanti la pastorizia in paludi salmastre, caratteristica principale di questo prodotto tradizionale della  baia di Mont-Saint-Michel,  dove si perpetua sin dal X secolo. Come attesta lo scritto di Pierre Thomas du Fosse, saggio e letterato di Rouen: “L’erba del litorale è come il timo selvatico, conferisce alla carne ovina un gusto così squisito che si è tentati di lasciar perdere le pernici e i fagiani.

*In copertina un frammento del Polittico dell’Agnello Mistico di Hubert e Jan van Eyck.

Il fiore “acuminato” della primavera

Tipico di tutto il bacino del Mediterraneo, il suo nome scientifico erudisce ma non esaudisce la complessità della sua natura. Nella locuzione Cynara scolymus, infatti, se il secondo termine indica la specie, ovvero la famiglia delle Asteraceae, cui appartiene, il secondo è più caratterizzante poiché indica l’antica usanza della cenere per concimare il terreno dove cresce. 

Come detto, tuttavia, questa è solo una parte, e nemmeno la più interessante, della storia del carciofo su cui, dopo l’uovo, abbiamo acceso i riflettori della nostra attenzione durante questa singolare, meditabonda Pasqua, Anno del Signore 2020. 

Un fiore acuminato, spesso spinato, caratterizza la numerosa famiglia botanica della cui filiazione è emblema anche la quantità di riferimenti etimologici, dalla storia abbastanza controversa. La parola “carciofo”, pur riconducibile all’arabo ḫaršūfa, è considerata da alcuni studiosi quale risultante della mediazione spagnola. La sua prima attestazione moderna, tuttavia, risalirebbe al 1533, ovvero molto in ritardo rispetto alla sua prima comparsa, e con evidente difformità rispetto al tipo diffusosi nell’Italia settentrionale, dove s’era affermata la variante articiocco quale calco fonetico del francese artichoque.

Parallelamente alla sua storia linguistica, quella colturale che, come detto, è molto più antica. Nel Lazio la sua prima coltivazione sembra risalire agli Etruschi ai quali viene attribuito l’addomesticamento della varietà selvatica. Le prime raffigurazioni, su capitelli e bassorilievi, si ritrovano già presso alcuni templi egiziani ma è coi Romani prende avvio la prima letteratura in merito: come testimoniato da Apicio nel De re coquinaria (III-IV secolo d.C.), infatti, a Roma si era soliti cucinarlo con acqua e vino, mentre Teofrasto già ne parlava nella sua Historia Plantarum (III secolo a.C.) dove, con la locuzione di “cardui pineae“, registrava la presenza di una pianta edibile simile al cardo benché con evidente forma di pigna. L’uso di una qualche varietà di carciofo selvatico nella cucina romana fu poi anche attestata da Columella (I secolo d.C.) che gli dedica versi, assai lusinghieri, nel De re rustica; così farà anche Plinio il Vecchio il quale, nella sua Naturalis historia (77-78 d.C), ne loda la natura raffinata, intrinsecamente gourmet.

Chiaramente, il carciofo ebbe anche alcuni detrattori, come l’Ariosto secondo cui “durezza, spine e amaritudine molto più vi trovi che bontade“. Successivamente fu Castore Durante, medico e botanico rinascimentale, a lodarne, ne Il tesoro della sanità, le doti medicali; coeva di questo periodo la testimonianza di Pier Andrea Mattioli che, con attitudine di medico e naturalista, si compiace della varietà delle sue forme: “Veggonsi a’ tempi nostri i carciofi in Italia di diverse sorti imperoché di spinosi, serrati e aperti e di non spinosi ritondi, larghi, aperti e chiusi se ne ritrovano.

È così che, lasciandoci ispirare dalle parole del Mattioli, abbiamo indagato questa razza eteroclita e, pertanto, affascinantissima.

Campania

Carciofo bianco di Pertosa: il candido

Un tesoro recondito, quello di Pertosa che, coi comuni di Auletta, Caggiano e Salvitelle, condivide la coltura di questo insolito, adamantino esemplare carnoso, inoffensivo perché privo di spine, la cui altra peculiarità è la straordinaria delicatezza delle brattee, così sublimi da farsi apprezzare anche crude, meglio se con un filo d’olio extravergine d’oliva.

Carciofo violetto di Castellammare: il tenero

La sua origine è nel nome e, precisamente, nella variante carciofo di Schito che ne indica la presenza in quella frazione di Castellammare di Stabia, non lontano da Pompei, chiamata anticamente “orti di Schito”. La sua peculiarità? Una tecnica di coltura vorrebbe che alla prima infiorescenza si copra la mammolella con una coppetta di terracotta al fine di proteggerla dal sole. Il fine? L’aiuterebbe a crescere più facilmente e a sviluppare brattee più tenere e gentili. 

Carciofo tondo di Paestum: il tornito

Appartiene alla varietà dei romaneschi campani ed è famoso già sin dagli inizi del 1800, quando l’Ufficio statistico del Regno di Napoli ne segnalava la presenza, tra Eboli e Capaccio e in tutta la Piana del Sele dove, lungo il percorso del fiume omonimo, in provincia di Salerno, l’assenza di spine ne consacrò la fama e l’utilizzo in ogni piatto della tradizione, pizza compresa.

Lazio

Carciofo romanesco o di Ladispoli: il cimarolo

Chiamato anche “cimarolo” o “mammola”, questa varietà è tipica di tutto l’areale romanesco ma è coltivata soprattutto tra Cerveteri e Ladispoli. Una coltura e una cultura, se pensiamo al fiorente repertorio di ricette che lo riguardano, soprattutto nella tradizione giudaico-romanesca dove si fa apprezzare, com’è noto, alla giudia. 

Liguria

Carciofo di Perinaldo: il provenzale

Un piccolo borgo, a chiosa della Val del Crosia, tra gli argentei uliveti dove, pare, i frati minori di San Francesco innestarono i primi esemplari di taggiasca. Ma in pochi sanno che Perinaldo è anche patria di questo straordinario carciofo, qui chiamato “violet”, importato due secoli fa dalla vicina Provenza e, secondo la leggenda, da Napoleone Bonaparte in persona. È senza spine e senza barbe ed è così tenero da farsi apprezzare anche crudo, in insalata o appena sbollentato.

Sardegna 

Carciofo Spinoso di Sardegna: l’intenso

Forma conica e allungata, apice puntuto, culminante con lunghe spine gialle e pigmentazione cangiante ammantano questo esemplare di un ché di regale e marziale assieme. Intenso in aroma, gusto e consistenza, è forte ma bilanciato e, come tale, si può far apprezzare in pinzimonio così come appena sbollentato, ad accompagnare le gioie dell’agnello o altri piatti della tradizione locale, meglio se con ricci di mare o bottarga. 

Sicilia

Carciofo spinoso di Menfi: lo spinello

Cangiante nel colore, ben serrato e protruso verso la sua acme, questo carciofo culmina con grosse spine dorate che gli hanno valso, nel tempo, il soprannome di “spinello”. Un esemplare in cui l’abito fa il monaco, a causa dell’alta concentrazione di lignina, tutta da stemperare. Come? Sott’olio o tuttalpiù alla brace, ma non prima d’averlo sbattuto a dovere, in modo da far rilassare le brattee per accogliere il condimento. 

Carciofo violetto di Sicilia: il prolifico

Scarsamente offensivo date le piccolissime spine, poco o nulla acuminate, vanta una filiazione di tipologie che, il più delle volte, prende nome e caratteristiche della zona di produzione: così nascono il Gagliardo, il Niscemese, il Siracusano, il Liscio di Sicilia, quello dei Lentini o il violetto di Ramacca e del Val di Noto. Color viola scuro, si fa apprezzare in tutte le salse: fritto, sulla brace e ripieno.

Toscana

Carciofo del Litorale Livornese: il versatile 

Anche detto Carciofo Violetto di Toscana o della Val di Cornia, questo carciofo, coltivato principalmente nella piana di Venturina, ha qui il suo habitat da circa cinquant’anni. Si tratta di una varietà molto versatile in cucina, che interpreta dall’antipasto al contorno. Da non sottovalutarne, mai, le virtù medicamentose: con le foglie bollite si ottiene infatti un decotto rigenerante. 

Veneto 

Carciofo violetto di Sant’Erasmo: il vecchio

Dal Cinquecento l’isola di Sant’Erasmo è un unico, grandissimo orto. Il suo carciofo è tenero, carnoso e legittimamente spinoso; ha forma slanciata, color viola caldo, quasi vermiglio. Si tratta di una varietà tardiva, la cui raccolta va da fine aprile alla seconda metà di giugno, periodo nel quale compare in molte delle ricette della comunità ebraica veneziana, che li predilige fritti in pastella, crudi, cotti in un soffritto di aglio o cipolla, aceto o limone, oppure maritati con schie, aliciotti o sardine.

Castraure: le giovani

Figlie del violetto di Sant’Erasmo, di cui sono il primo, piccolo e tenerissimo germoglio apicale, le castraure sono una specialità dell’arcipelago veneziano, disponibili solo per circa due settimane l’anno. Quest’anno, dunque, possiamo solo ricordarle: hanno foglie piccole e violacee, consistenza morbida e sapore dolcissimo, tanto da farsi apprezzare soprattutto a crudo benché siano tollerate anche versioni che le vedono comparire, in tavola, come le moeche: ovvero appena impanate e fritte.

Curiosità

*In copertina, Estrema Protezione, di Renato Marcialis

Il simbolo della Pasqua

In tutte le culture e, anche in questo caso, per tramite della sua etimologia – dall’aramaico Pascha e dall’ebraico Pesàch col significato di “passaggio” e “liberazione” – la parola Pasqua, così come tutte le ricorrenze similari che si celebrano agli inizi della primavera, viene ecumenicamente associata al concetto di rinascita. 

E la Pasqua cristiana, va da sé, non fa eccezione, benché si conceda il lusso di adottare alcuni temi cari dalla tradizione ebraica, come l’agnello e il carciofo, di cui parleremo più avanti. Attinge, invece, a una dimensione enciclopedica più naturalistica dell’esistenza la sua attenzione nei confronti dell’uovo, che di questa rinascita è il simbolo più che perfetto: embrionale, seminale, germinale: è la vita che si rinnova e di cui la benedizione delle uova rappresenta un momento rituale di grandissimo misticismo. 

Per questa Pasqua così insolita, così raccolta, abbiamo dunque deciso di raccontarvi la storia di alcune uova che, per ragioni diverse, incarnano una storia di rinascita. 

Abruzzo

L’uovo e la canapa 

Letteralmente; perché le uova arrivano da un allevamento di galline nutrite, tra le altre granaglie, con semi di canapa. Siamo nel piccolo comune di Massa D’Albe (AQ), ai piedi del Monte Velino, dove Silvia Bambagini Oliva, insieme alla madre Marisa Colitti, riprendendo il pollaio della nonna integra coi semi di canapa il mangime, al fine di ridurre i livelli di colesterolo delle uova.

Campania

L’uovo d’Oro 

Un forte richiamo, quello verso la terra e i suoi bioritmi, ha portato Sandro Muratore ad abbandonare l’attività di revisore contabile che esercitava nella Capitale per dedicarsi, assieme alla moglie Lucia Moscato, a un progetto di avicoltura certificata biologica in località Puglietta (SA). Qui, su una collina circondata da uliveti di oltre sei ettari, razzolano circa 8000 galline.

Emilia Romagna

Tedaldi

Con l’imperativo del benessere animale e la tutela del pulcino maschio, lasciato libero di crescere – e di vivere – risorge l’azienda Tebaldi, rigenerata proprio dal passaggio generazionale, in quel di Meldola (FC). Libertà di movimento, assenza di antibiotici e mangimi OGM free 100% vegetali ha condotto l’azienda ben oltre il bio e inaugurato fiorenti studi di bio-simbiosi, volti a migliorare l’intera catena alimentare.

Lazio

Galline Felici

Un pollaio urbano in via del Casal d’Antoni, a nord-ovest di Roma. Qui, tra la Boccea e la Cassia, vivono le galline di Maurizio Cilia, ex organizzatore di eventi che ha fatto della sua casa di campagna un buen retiro nonché l’occasione per incominciare una nuova vita. Nomen omen: galline libere di scorrazzare in un boschetto recintato, di deporre le uova senza orari o costrizioni e vivere in armonia con l’uomo e la natura.

Peppeovo 

Siamo a Sora, in provincia di Frosinone, in uno spazio dove la livornese razzola con metodo free range di oltre 8000 mq, con l’agio di potersi riparare, durante la notte e in caso di condizioni meteo avverse, in appositi ristori. Oltre alle galline, anche quaglie e uova di quaglia, nonché prodotti di pasta fresca, all’uovo, ça va sans dire, e in diversi formati.

San Bartolomeo

A differenza della maggior parte degli allevamenti Silvio Marsan alleva galline di diverse razze (Marans, livornesi rosse e bianche) nella campagna viterbese, con ampi spazi a disposizione, un’alimentazione a base di granaglie bio e filiera quasi chiusa. La convivenza di più tipologie di razze sortisce diversi tipi di pigmentazione del guscio dell’uovo, sia bruno che bianco.

Lombardia

Uovo di Selva 

Massimo Rapella, nel 2009, possedeva 4 galline e un piccolo pollaio domestico per l’approvvigionamento di uova fresche e genuine. Nel 2013, a seguito di alcuni “segnali”, il progetto prende vita e arriva oggi a 2000 esemplari lasciati liberi nel sottobosco, a circa 600 metri di altitudine. Qui, ogni giorno, è caccia all’uovo: sono circa 1300, infatti, le uova deposte da queste galline di selva in nidi di fortuna.

Puglia

Tuorlo Biancofiore 

Nel cuore del Parco Nazionale del Gargano, sulla via Francigena, vicino al Santuario di San Michele Arcangelo di Monte Sant’Angelo il lavoro consiste nel rispettare i tre valori ai quali l’azienda, sin dalla sua nascita, si è vincolata: benessere animale, qualità del prodotto e salvaguardia dell’ambiente. Imperdibile “l’uovo battuto”, direttamente in azienda. 

Uovo perfetto

Un allevamento di galline adulte (quindi meno produttive) di razze miste (ci sono anche le Isa Brown e le antichissime Araucana) salvate dalla macellazione dagli allevamenti di tutta Italia. Le galline di questa età sono più resistenti, si acclimatano facilmente e fanno sì meno uova, ma più grandi. Il tutto, avviene in un parco di 25mila metri quadrati messo a disposizione per loro, a Cutrofiano (LE), da Giulio Apollonio e Maira Greco.

Piemonte

Cascina Mana

Alle spalle una lunga tradizione rurale con coltivazione di cereali e foraggio per l’allevamento di bovini piemontesi. Convertitasi al biologico nel 1999, da diversi anni Cascina Mana produce uova bianche da galline livornesi allevate a ciclo chiuso, nutrite con cereali auto-prodotti, naturalmente ricchi di Omega-3 e lasciate libere di scorrazzare, all’aperto, all’ombra di un noccioleto.

Claudio Olivero

Ai piedi delle montagne cuneesi, con ampi spazi aperti e un menu a base di grano, mais, orzo, erba medica, avena e soia coltivati in azienda e integrato all’uopo da semi di lino e di canapa, nascono del uova di Claudio Olivero, azienda biologica sin dal 2000. Un must: il suo zabaione bio in vaso di vetro.

Le Camille 

Alessandro Varesio è la prova provata che ambiente, alimentazione e interazione con l’uomo fanno il benessere della gallina. La sua, livornese, vive all’aperto della campagna astigiana su prati brulicanti di vita ed  erbe aromatiche, ricche di carotenoide, che rendono più vivo e squillante il giallo del tuorlo. A questo si unisce un menu bilanciato, arricchito di semi di lino.

Sicilia

Regina Siciliana

Il recupero di un’antica e coriacea razza autoctona, dal folto piumaggio iridato e caratteristica cresta vermiglia, a forma di coppa, caratterizza questo giovane allevamento di Chiaramonte Gulfi (RG) che si distingue per l’alta qualità della vita delle galline, fatto di vita all’aria aperta e la risoluta scelta di non utilizzare né antibiotici né OGM.  

L’Aia Gaia 

Socio di Ciccio Sultano e Paolo Moltisanti, Carmelo Cilia ha deciso di mettere in piedi un’attività agricola che, con un piccolissimo budget iniziale, potesse far rivivere un terreno abbandonato nei pressi di Ragusa. Oggi un terreno felice, “gaio”, appunto, in cui le galline fanno “le sabbiature” e, nutrendosi di crusca del molino di Filippo Drago impastata col latte, producono uova piccole, porose e molto, molto nutrienti. 

Trentino Alto Adige

SMS

Nei pressi del Garda trentino, ad Arco, dall’acronimo di tre amici (Sebastiano, Marco e Simone) nasce un’azienda i cui prodromi si ritrovano nell’auto-sussistenza. A poco a poco, però, il mercato, inizialmente solo domestico, s’è fatto più solido e più zelante. Il sogno nel cassetto? Quello di dedicarsi alle loro galline, di cui lodano sensibilità e intelligenza, a tempo pieno.

Uova di Montagna

Galline livornesi a becco integro, assembrate in gruppi non superiori ai 140 esemplari. Questo il quid alla base di un metodo rigoroso, che permette agli animali di muoversi liberamente e nutrirsi naturalmente attraverso un regime che segue il naturale ciclo delle stagioni, attraverso erbe come la portulaca in estate e tuberi in inverno.

Toscana

Paolo Parisi

L’apripista: l’iniziatore di tutto quanto avete letto finora e di quanto leggerete dopo. Correva l’anno 1981 quando, sulle colline pisane, assieme alla moglie Paolo Parisi dava vita a un uovo iconico, dal packaging unico, e totalmente bianco, classico delle galline livornesi. L’idea, allora, era rivoluzionaria: vita all’aria aperta e foraggio a base di granaglie macinate e latte delle capre da lui allevate nel bosco. Fu un grande successo, nonché un ideale ancora vivo. 

Veneto

The Garda Egg & Co. 

Coincide con la rivoluzione personale di una donna, Federica Bin, che non dimentica di dare un tocco personale alla propria rivoluzione. Lo fa attraverso il colore e, precisamente, attraverso una palette di pigmentazioni del guscio che vanno dal bianco “educanda” al marrone scuro e, passando per tutte le tonalità del rosa, lambiscono anche le tentazioni del verde dell’azzurro. Come? Semplicemente grazie a galline da razze rare e particolarissime.

Luovo

Una moderna fattoria eco sostenibile, ai piedi delle Dolomiti, che si alimenta attraverso una filiera chiusa  anche grazie all’Eden dei tanti alberi da frutto, meli soprattutto. Questo, il punto forte di una giovane azienda che produce internamente anche i propri imballaggi, da carta riciclata e attraverso energia fotovoltaica.

*in copertina: la casa-museo di Salvador Dalì, a Port Lligat, Girona.